“Le banche centrali si devono tener pronte ad iniettare denaro direttamente nei conti bancari delle famiglie”.
Non è la sparata di un grillino, di un prete della Caritas, o di un altro fessacchiotto che di economia non capisce niente. E’ la proposta di Jeremy Lawson, della Standard Life. Regalare soldi all’uomo qualunque? Eppure può essere l’ultima risorsa della finanza globale col suo capitalismo selvaggio per scongiurare l’avvitamento del sistema in una deflazione che si avvita su se stessa, date le enormi piramidi di debito che hanno creato, e la crisi del Sud-est asiatico che sta implodendo. L’interesse zero delle banche centrali non raddrizza la situazione, non serve più a niente. Del resto, le banche centrali hanno regalato miliardi e miliardi alle banche, creandolo dal nulla, senza che nessuno protestasse, e anche questo non è servito ad altro che gonfiare bolle finanziarie a catena, arricchendo ancor più i già ricchi, e rovinando la salute dell’economia reale, quella di cui vive la gente comune.
Sicché, rivela Evans Pritchard sul Telegraph, lo slogan “Quantitative easing per il popolo” lanciato dal rosso Corbyn, il paleocomunista che ha trionfato nel partito laborista britannico, sta ottenendo orecchie attente dove meno l’ingenuo se lo aspetta: nella City.
Siamo su un Titanic “dove sono rimaste poche altre scialuppe di salvataggio”, dice Stephen King, che è l’economista capo delle HSBC, questa “drastica misura può essere la nostra ultima salvezza”.
Regalano soldi!
Si può solo immaginare con quanto dispiacere i capitalisti sian giunti a questa conclusione; e infatti l’ammiraglia dell’ortodossia globalista, l’Economist proprietà dei Rotschild, sta sparando bordate di sbarramento contro Corbyn.
E’ terribile mettere soldi in tasca direttamente alla gente, a quella gente a cui per trent’anni li hanno portati via – pagando sempre meno il lavoro, cosa che loro hanno definito “perseguire la massima efficienza”, o sia “la massima retribuzione del capitale”. In ciò consisteva la geniale efficienza del capitalismo terminale: risucchiare con idrovore i salari, e compensare i salariati impoveriti – perché restassero consumatori – con l’offerta di credito, ossia indebitandoli. Indebitandoli sempre più, finché non ce l’hanno più fatta.
Che dolore, regalare soldi alla gente! Ma si è arrivati al punto previsto dal loro guru-fondatore, Milton Friedman: se volete salvare il capitalismo finanziario, ad un certo punti lanciate i soldi dagli elicotteri (sapeva benissimo, Friedman, dove portava il suo “sistema” monetarista).
E’ anche una necessità pericolosa: bisogna impedire alla gente di capire che il denaro con cui è indebitata viene creato dal nulla con un fiat delle banche centrali (e un altro delle banche commerciali), perché deve continuare a credere che il denaro sia ritenuto scarso , e si possa ricevere solo come corrispettivo del duro lavoro – e poco. Altrimenti nessuno farebbe più niente, se non ( forse) sparare ai banchieri usurai. Dove andrebbe a finire la celebrata “credibilità”, anzi autorità venerata delle banche centrali?
Ma niente paura, i metodi sono numerosi per iniettare qualche liquidità vitale nel nell’economia reale senza che la gente scopra il trucco – il trucco fondamentale della Banca – evitando che la plebe vada arraffando i soldi che svolazzano giù dagli elicotteri.
“Le banche centrali – scrive il bravo giornalista – hanno i mezzi di crear denaro finanziando tagli di tasse, o per coprire spese pubbliche, fino a che l’economia ridà segni di vita”.
Corbyn sarà un rosso pericoloso, ma la sua proposta di creare una Banca Nazionale d’Investimento finanziata dalla banca centrale per grandi investimenti pubblici, non sembra più rivoluzionaria (da noi, la stessa cosa si chiamava IRI, ma non va’ ricordata) basterà impedire che, se vincono i laburisti, al ministero delle Finanze vada John McDonnel, un amicone di Corbyn. Ha avuto il torto di proclamare che “la Banca d’Inghilterra sarà privata della sua indipendenza nei primi tre giorni del nostro governo”: L’ha detto tre anni fa, veramente, ma i capitalisti mica dimenticano: “Un’idea pessima in senso economico, e cattivissima in senso politico”, s’è precipitato a dichiarare il Telegraph. Tuttavia, va’ segnalato il sano pragmatismo dei liberisti british
h, che quando cӏ da salvare il sistema, al contrario dei loro sudditi ideologici latini, sanno mettere da parte la dogmatica.
Il giornalista del Telegraph giunge a fare un nome fino a ieri sepolto nella damnatio memoriae . Ecco la frase: “Varianti di quantitative easing per la gente furono sperimentati durante gli anni fra le due guerre (mondiali). Il primo ministro giapponese Takahashi Korekiyo, un cristiano, ordinò alla Banca centrale, nel 1932, di finanziare una tempesta di spesa pubblica finché la deflazione fu sconfitta, spingendo fuori il paese dalla Grande Depressione con notevole rapidità”.
Vita impareggiabile. Takahashi Korekiyo nacque nel 1852 con ben poche carte nell’impero nobiliare del Tenno: figlio illegittimo di un pittore di corte, fu adottato da un samurai di basso rango (ashigaru), e tutto preconizzava che sarebbe diventato un soldato di fanteria. Ma andò a lezione da un famoso missionario presbiteriano americano, James Hepburn, dove imparò l’inglese. Per migliorarlo, nel 1867 – aveva 14 anni – di sua volontà emigrò in Usa, dove si impiegò, ad Oakland, in lavori umilissimi. Tanto che il suo padrone americano lo vendette come schiavo, e con immensi sforzi riuscì a riscattarsi. Un anno dopo era a Tokio, dove si guadagnò da vivere insegnando conversazione inglese; la suo scuola prosperò, ma intanto lui faceva un secondo lavoro: impiegato d’ordine nel ministero della pubblica istruzione. Da lì, fu assunto nell’Ufficio Brevetti, che organizzò completamente. Ad un certo momento lasciò tutto per andare in Perù a tentare la fortuna sfruttando una miniera d’argento; la fortuna lo tradì, e tornò in Giappone. Trovò impiego (utilità dell’inglese) nella banca centrale, dove le sue doti lo fecero elevare al rango di vice-presidente nel 1892. Quando scoppiò la guerra russo-giapponese, fui lui l’abile raccoglitore di prestiti esteri per lo sforzo bellico; bussò alla porta di Jacob Schiff, il capo dei banchieri d’affari americani, e a quella dei Rotschild di Londra: entrambi i colossi ebrei
odiavano la Zar del noto odio giudaico e ne avevano decretato la fine, per cui furono felici di contribuire.
Nominato membro della Dieta e barone per decreto imperiale, governatore della Banca del Giappone (1911-13), questo figlio illegittimo e figlioccio di un soldato semplice e incredibile self-made man “uomo che s’è fatto da sè” nel Giappone nobiliare (ma in tumultuosa corsa di modernizzazione dall’alto) fu poi ministro delle Finanze, primo ministro (1921), carica che continuò a tenere sotto vari governi: negli anni ’30, quando arrivò anche in Giappone la Grande Depressione americana, era l’uomo giusto al posto giusto.
Capì subito che l’adesione stretta al Gold Standard (la dogmatica dell’epoca, come quella di oggi pensata dai creditori mondiali a loro favore) era la causa di deflazione mortale nella crisi, e nel ’31 il Giappone lo abbandonò, lasciando fluttuare lo yen, che si svalutò del 40%; ma nel 1933, la moneta si stabilizzò, e addirittura cominciò a risalire sul dollaro nel 1934. Poco importava, essendo allora la temperatura del commercio mondiale vicina allo zero assoluto.
Takahashi adottò una vastissima creazione di moneta per sostenere l’economia. Si è detto – è sempre necessario calunniare i successi di quei regimi che ebbero successo durante la Grande Depressione – che la ripresa economica prodotta dal ministro fu basata sull’aumento enorme delle spese militari.
E ‘ falso.
Takahashi vi riuscì creano e sapientemente pilotando un complesso di investimenti pubblici che chiamò “Spese per assistenza d’emergenza” in cui una parte notevole fu la bonifica di terreni, canalizzazioni agricole, la costruzione di dighe, strade ed argini di fiumi.
L’industria meccanica pesante e la chimica, ovvie indicatrici della “domanda” militare, addirittura calò durante la tenuta del ministro: l’industria meccanica ebbe il massimo della domanda nel ’32 (28%), ma nel ’36 era al 18%. Nel complesso, la domanda militare era al 9,8 per cento del Pil e nel 1933, e calò a 7% nel ’36.
Furono i lavori pubblici di tipo sociale il grosso della spesa in deficit; oltre agli importanti investimenti che modernizzarono l’agricoltura, fu lo sviluppo dell’industria “leggera” che Takahashi curò: dietro le barriere del protezionismo doganale (del resto allora applicato da tutti gli stati o quasi) il Giappone fece crescere l’industria di macchinari elettrici e di macchine utensili, che già a quel tempo divennero altamente competitive per l’alto livello di qualità, quasi ineguagliato sul piano internazionale, non inferiori ai prodotti germanici. Dopo la disfatta del 1945, fu partendo da quelle industrie che il Giappone rinacque economicamente.
Negli anni ’30, il ministro cristiano ottenne il suo miracolo senza aumentare la torchia fiscale, ma con l’emissione di titoli. Il Tesoro emetteva quei titoli pubblici, e la Banca del Giappone li acquistava integralmente; abbassò il tasso di sconto e prestò largamente alle banche. Ovviamente era quella la diretta creazione di moneta; Takahashi lo fece con suprema competenza e patriottismo, puntando sulla previsione che, ripresasi l’economia, il settore privato avrebbe comprato i titoli dalla Banca del Giappone, prosciugando l’eccesso e controllando l’inflazione.
Le spese pubbliche erano declinate da 1,74 miliardi di yen del 1929 a 1,48 nel ’31 (teoria dell’austerità). Takahashi le fece risalire nel ’32 a 1,95 miliardi, a 2,2 nel ’33, e poi le stabilizzò su quel livello. Nel 1933 il Giappone era fra i pochi paesi a non soffrire della Grande Depressione, e ciò senza produrre nessuna inflazione. La svalutazione della valuta nazionale aveva stimolato una notevole esportazione, soprattutto di tessili giapponesi, in tutta l’Asia. Nel ’34 il paese, nonostante la spesa in deficit, conobbe una bilancia commerciale in pareggio, e nel 1935 addirittura in attivo.
Spese militari? Fu precisamente quelle che Takahashi ridusse quando, nel ’35, cominciarono a mostrarsi segni di inflazione. Fu anche il motivo per cui una congiura di ufficiali uccise il grande ministro. Poco male, in fondo aveva già
raggiunto la bella età di 81 anni. E la sua politica economica stava incontrando un ostacolo vero, del tutto esterno: la difficoltà per il Giappone di procurarsi materie prime. I suoi successi avevano allertato il grande capitale finanziario anglo-americano come lo avevano allarmato i successi tedeschi. Furono imposte dure sanzioni – vi ricorda qualcosa? – sanzioni sul paese demoniaco, antidemocratico, fascistoide. I “mercati”internazionali si chiusero: per il Giappone, fu reso difficile e sempre più costoso fornirsi di petrolio, ferro, carbone, rame con cui alimentare le sue industrie moderne.
Su questo blocco si scontrò anche la dittatura militare che aveva preso il potere a Tokio. Pochi sanno che i generali e gli ammiragli offrirono a Roosevelt di far uscire il Giappone dell’Asse, purché alleviasse le sanzioni; Roosevelt le aggravò, sequestrando i beni giapponesi nelle banche americane (e inglesi). Messi con le spalle al muro, con riserve di petrolio inferiori a un anno, gli ammiragli valutarono che non restava loro altro che un colpo a sorpresa, per conquistare le zone petrolifere del Pacifico.
Fu Pearl Harbour, che Roosevelt aveva tanto voluto, e la disfatta, anzi distruzione totale dell’industria giapponese, e l’inserzione finale – massimo successo del vincitore – del complesso di colpa per cui lo sconfitto deve accusare se stesso, spontaneamente, di aver peccato: contro il mercato globale, la democrazia, l’interdipendenza e il liberismo. Cose che sappiamo.
Va aggiunto che Takahashi non doveva niente a Keynes, che nemmeno conosceva; fu lui l’inventore del sistema che noi chiamiamo keynesismo, e se applicato, tirerebbe fuori dalla deflazione-depressione (secondo Corbyn) anche il Regno Unito. E’ tuttavia lodevole che oggi siano i capitalisti pensanti nella centrale ideologica del liberismo globale a compulsare il metodo, per vedere se adottarlo. “Lord Turner, l’ex capo dell’Authority per i servizi finanziari, sostiene che è perfettamente possibile creare un nuovo regime in cui la Commissione di politica monetaria della Banca centrale decide quanto stimolo permettere finanziandolo, calibrando il dosaggio nello stesso modo in cui regola l’acquisto di titoli pubblici o fissa i tassi d’interesse”, scrive senza vergogna il Telegraph.
Sì, lo faranno e potranno passare per benefattori: vedete, diranno a quella “gente” a cui hanno per vent’anni ridotto i salari predicando che era il sacrificio necessario per restare competitivi, vi rimettiamo in tasca un po’ di soldi.
La stranezza che non sarà rilevata è questa: il capitalismo riteneva necessario tagliare i salari in nome dell’efficienza, e adesso “regala” denaro – non ridurrà la famosa efficienza? Ma son domande che non si fanno. Quando Draghi ha comunicato che comprerà non più il 22, ma il 33% dei titoli pubblici emessi in Europa dagli stati, nessun economista (men che meno un giornalista) ha chiesto ad alta voce: ma scusate, non è esattamente quello che si faceva prima del “divorzio” fra Tesoro e Banca Centrale? Quando questa era obbligata a comprare la quota invenduta dei Bot, sottraendoli al mercato e quindi calmierandone i tassi d’interesse? Questo sistema fu demonizzato: i politici che hanno la mano sulla stampante sono corrotti e spenderebbero troppo in “regali” alle loro clientele, ci hanno detto; diamo questa funzione a una Banca centrale “indipendente”. Indipendente ma gestita da un addetto di Goldman Sachs. L’effetto di questo passaggio al privato ha mostrato che le banche, nel gestire la moneta, sono non meno corrotte dei politici, anzi sono criminali e stupide, se questa crisi è dovuta a loro e alla loro irresponsabilità nell’indebitare e poi vendere ad ignari i crediti (subprime) da loro contratti. Vi pare meglio? Adesso Draghi fa la stessa cosa. Non valeva la pena di tornare al sistema di prima?
No, naturalmente no. Quel che conta è che il potere di creare denaro dal nulla resti nelle mani “giuste”.
Le loro. Anche a costo di un postumo omaggio ad un vecchio e detestato “nip”. Tanto, non costa niente.