IL DISINCANTO DELLA STORIA IN UNA “PILLOLA”

Benché la vita mi ha portato su altri lidi professionali, la mia passione da sempre è la storia, cui unisco un forte interesse per la spiritualità sapienziale che, nonostante la storiografia non ammetta un tale orizzonte, rende possibile l’ermeneutica delle vicende storiche in sé altrimenti senza senso. Ricordo che bambino divoravo famelico di conoscenza i fascicoli, che mio padre comprava in edicola, dedicati ai “grandi della storia” editi da Mondadori.

Quella passione mi è rimasta lungo gli anni della adolescenza e della maturità e, grazie alla amicizia di storici di valore come Franco Cardini, ho imparato molte cose. Innanzitutto che il metodo storico è di per sé, naturaliter, sempre revisionista, man mano che escono nuovi documenti o si reinterpretano meglio quelli già conosciuti alla luce dei nuovi. Ma ho imparato anche che la storia è da sempre soggetta a manipolazioni e strumentalizzazione di potere. Ogni regime, anche la democrazia liberale, usa la storia per giustificare la propria teoria e prassi politica. Per questo è importante che almeno gli storici, e purtroppo non tutti lo fanno, rifiutino di mettere la propria opera al servizio del potere di turno. Ripeto: anche di quello democratico, che in questo, ed in altro, non è certo meglio degli altri.

DISINCANTO: ecco il termine giusto, per definire il ruolo della storia, come ho appreso dalla frequenza intellettuale, e talvolta personale, di valenti storici. Ciò non significa che dietro il nudo fatto, che di per sé va preso con appunto disincanto, non si possa trovare un senso più alto – lo scrivente non rigetta affatto tale possibilità – ma bisogna sempre tenere distinti il piano storico da qualsiasi altro piano. Come quello filosofico o quello spirituale che appartengono piuttosto alla filosofia o alla teologia della storia, dimensioni che hanno una dignità a sé stante ma non hanno il carattere della storicità in sé e per sé benché, se si hanno occhi per vedere (e questo dipende dalla apertura del cuore), interferiscono continuamente con la vicenda umana.

Certamente, l’obiettività assoluta nello studio della storia non è possibile, giacché ogni ricercatore si porta dietro un bagaglio di opzioni culturali, tuttavia l’onestà del ricercatore sta tutta nel tentativo di avvicinarsi quanto più possibile all’oggettività, e questo si misura, ad esempio, nel non nascondimento di tutte le fonti che portano a risultati non in linea con i propri convincimenti personali.

Partendo da questa premessa ben si può capire quanto sia urticante per me constatare quanto sia diffusa l’ignoranza della storia come trapela dai talk show televisivi, dai giornali, nei dibattiti culturali o politici, persino – va detto con amarezza – nella scuola. Troppe volte i luoghi comuni e le distorsioni, provocate dai pregiudizi ideologici, nascondono la verità del dato storico – una verità sempre relativa in quanto nella storia non si danno assoluti che appartengono casomai alla Trascendenza – e ci veicolano convinzioni errate perché fondate su una sostanziale ignoranza di quel dato.

Per questo ben vengano quelle “pillole di storia”, come questa qui postata (vedasi il video al link in calce), su un capitolo spinoso della nostra vicenda nazionale quale quello delle radici del fascismo. Una interessante pillola di storia, quella qui proposta, per capire meglio al di là dei triti luoghi comuni basati sull’ignoranza del dato storico. E, tuttavia, il video benché ben fatto non è completamente centrato. Qualche “correzione” è necessaria.

Il percorso di Mussolini fu il percorso di una intera generazione di socialisti eterodossi – gli stessi che assalirono nel 1919 la sede dell’Avanti (non erano, come si afferma nel video, né nazionalisti né reazionari ma gli aderenti al primo fascismo sansepolcrista, di sinistra) – i quali impregnati di cultura antirazionalista, vitalista, soreliana, nicciana, anarco-sindacalista, scoprirono, attraverso la prima guerra mondiale, che la nazione poteva essere un collante sociale e rivoluzionario efficace quanto e, forse, più della coscienza di classe. Questi eterodossi del socialismo erano da tempo su vie ideologiche, desunte dalle filosofie post-illuministe, che li poneva in contrasto con la cultura borghese dominante fondata sul razionalismo e l’economia di mercato.

Rappresentanti di una sinistra volontarista con la Grande Guerra intrapresero la strada che avrebbe dovuto portarli, al di là della destra e della sinistra, alla fusione politica e sociale tra nazione e classe, tra nazione e socialismo. Oggi possiamo dire che quel tentativo non ebbe gli esiti auspicati nelle originarie intenzioni ma questo è un discorso a posteriori il quale non ci esime dal dovere di capire le ragioni iniziali, in sé stesse, onde poter comprendere anche le successive e concrete dinamiche storiche.

A parziale correzione di quanto è detto nel video, va evidenziato che nel 1914, nel momento della rottura con il Psi, i finanziamenti per “Il Popolo d’Italia” non vennero a Mussolini dagli industriali. Essi arrivarono dai socialisti francesi interessati all’ingresso dell’Italia nella guerra mondiale contro gli imperi centrali: tutti i partiti socialisti europei, salvo quello italiano, avevano aderito alle rispettive patrie in guerra facendo fallire l’utopia internazionalista della Seconda Internazionale, motivo per il quale lo stesso Mussolini iniziò ad avvicinarsi all’elemento nazionale della politica. Arrivarono inoltre, attraverso Filippo Naldi direttore de “Il Resto del Carlino”, dalla massoneria democratica e repubblicana, mazziniana e di sinistra, del Grande Oriente di Palazzo Giustiniani (e non, inizialmente, da quella di destra della Grande Loggia d’Italia). La massoneria progressista era interessata, nel suo disegno volto alla costruzione di una democrazia laburista, alla formazione a sinistra di una forza interventista contro il neutralismo del Psi.

L’appoggio degli industriali non arrivò nel 1914 ma dopo ossia nel 1920-21, durante il biennio rosso, allorché i fascisti dimostrarono essere gli unici ad opporsi agli scioperi ed alle occupazioni delle fabbriche ma – ciò evidentemente era ininfluente per gli industriali preoccupati soltanto di sgombrare i luoghi di produzione – solo perché vedevano nelle agitazioni guidate dal Psi il vecchio internazionalismo cui essi opponevano il loro socialismo nazionale. Il Psi infatti aveva fatto l’enorme errore di non comprendere la forza rivoluzionaria della piccola borghesia, reduce dalle trincee, mossa dal mito nazionale ma disposta ad una alleanza sociale anticapitalista con il proletariato. Mussolini fu l’unico socialista a comprendere – come spiegò nell’articolo “Trincerocrazia” pubblicato il 15 dicembre 1917 su “Il Popolo d’Italia” che di lì a poco da “quotidiano socialista” sarebbe diventato “quotidiano dei produttori” – che dalla guerra era nata una “nuova aristocrazia” sociale, composta dai “milioni di lavoratori che torneranno al solco dei campi, dopo essere stati nei solchi delle trincee, [e che] realizzeranno la sintesi dell’antitesi: classe e nazione” in nome di un “socialismo anti-marxista e nazionale”. I “lavoratori” che tornavano dalle trincee non erano solo gli operai ma tutti i produttori qualsiasi lavoro facessero. Sicché per il futuro duce diventava necessaria una alleanza tra i ceti produttivi. Egli si stava riferendo al “produttivismo” fondamento della piattaforma programmatica del socialismo francese, con il quale aveva intensi rapporti. Era una formula – già perorata dal giovane Marx nell’articolo “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” – volta alla alleanza tra imprenditoria reale e lavoratori contro il capitale finanziario, parassitario, anonimo ed internazionale che già allora dominava sull’economia dei popoli (va detto, di sfuggita, che, al netto delle differenze di epoche e di circostanze nel ripresentarsi talvolta dei corsi e ricorsi storici, un percorso analogo oggi lo sta percorrendo Marco Rizzo nel passaggio dal Pc a Democrazia Sovrana e Popolare, e questo spiega la sua empatia per chi proviene dalla destra sociale, erede della vicenda del socialismo nazionale iniziata più di un secolo fa, come Gianni Alemanno).

La piccola borghesia, in particolare la giovane piccola borghesia, che aveva interessi e idee contrarie a quelli del grande capitale, costituiva agli inizi del XX secolo la base sociale della sinistra eterodossa che fu matrice del fascismo movimento. Tuttavia, alla fine della prima guerra mondiale la piccola borghesia trovò chiusa la strada a sinistra – a causa della cecità del Psi che sulla scia della Rivoluzione d’ottobre viveva del mito dell’internazionalismo e nell’aspettativa di una rivoluzione impossibile in Italia, paese più avanzato della Russia del tempo dove la rivoluzione fu soltanto l’esito di una difficile modernizzazione che sarebbe continuata con i duri metodi di Stalin – scivolando, per le idee antiparlamentari di cui era portatrice, verso la destra nazionalista.

L’appoggio degli industriali, che arrivò solo in questo momento tardivo rispetto alla fondazione il 23 marzo 1919 dei “Fasci di combattimento”, contribuì a questa virata verso la destra, non però la destra liberale ma quella nazionalista. Ne nacque, per usare la terminologia defeliciana, il “fascismo regime”, molto diverso dal “fascismo movimento”. Il regime fascista fu un precario compromesso tra fascisti e fiancheggiatori di destra, ossia nazionalisti, monarchici e conservatori, che durò vent’anni in una continua tensione tra il fascismo movimento, ossia il fascismo di sinistra erede della sinistra nazionale, e il blocco sociale retrivo, “sabaudo-cavouriano”, che, con disappunto della sinistra risorgimentale di matrice mazziniana, governava l’Italia dall’unità. Un blocco sociale che, comunque, negli anni trenta fu costretto a subire il dirigismo modernizzatore del regime.

Il precario compromesso si risolse con il golpe del 25 luglio 1943 allorché i fiancheggiatori di destra si sbarazzarono di Mussolini non solo per l’esito disastroso della guerra ma anche perché da anni ne temevano il latente e mai rimosso socialismo che sembrava talvolta riemergere. Una storia, dunque, molto più complessa da quanto appare nel video consigliato che comunque è un buon elemento di conoscenza di questa vicenda nazionale. Una pagina che va conosciuta per amore della storia, senza apologie o contrapologie, senza nostalgie fasciste o antifasciste. Per approfondirla si leggano gli insuperati lavori storiografici di Renzo De Felice, Emilio Gentile, Giuseppe Parlato, Francesco Perfetti, Zeev Sternhell, solo per fare qualche nome illustre. Buona visione.

Luigi Copertino