di Andrea Cavalleri
La leggenda del Golem serpeggia nella cultura ebraica fin dal medioevo e narra di giganti di argilla trasformati in esseri viventi dai sapienti, tramite le conoscenze misteriche della Qabbalah.
Una sequenza di lettere alfabetiche poteva attivarli e imporre loro l’ubbidienza, che veniva sfruttata per farli lavorare come servi, svolgendo lavori pesanti e difendendo all’occorrenza i loro padroni.
Già nel nucleo di questa narrativa si scorgono alcuni tratti caratteristici che provengono dalla Bibbia e dalle sue successive distorsioni rabbiniche: l’importanza dei nomi, la potenza della parola, la superiorità dell’elezione tradotta in una inferiorità dell’altro da sé.
La fantasia, applicata alla smania di potere, coltivava le illusioni di poter carpire a Dio il segreto supremo, quello di poter infondere la vita a un essere inanimato, diventando così creatori al par suo.
Dopo alcuni sporadici “avvistamenti” di esemplari, il Golem vero e proprio nasce come favola completa nel XVI secolo, quando il protagonista, il rabbino Jehuda Löw ben Bezalel, viene in possesso dell’arcano nella sua Praga e inizia a plasmare alcuni Golem combinando i quattro elementi (tre rappresentati da lui e dai suoi due assistenti e uno, la terra, rappresentato dall’argilla con cui plasma gli esseri).
Scrivendo la parola “emet” (verità) sulla fronte delle statue di fango, queste si risvegliavano alla vita e venivano impiegate nei compiti loro assegnati; col tempo però i Golem crescevano troppo di misura diventando inutilizzabili, ecco che allora il rabbino li inattivava scrivendo loro sulla fronte la parola “met” (morto).
Gli esseri tuttavia non erano intelligenti e non parlavano, dunque per controllarli il maestro doveva inserire nella loro bocca una tavoletta di legno con incisa la parola di Dio.
Come in ogni favola che si rispetti si verifica un drammatico imprevisto: un giorno il rabbino dimentica di mettere la tavoletta in bocca al suo ultimo esemplare e questo impazzisce.
Ed ecco il Golem che fugge per le vie di Praga seminando distruzione, finché, dopo varie peripezie, il suo creatore riesce a scrivergli la parola fatale in fronte, mettendo fine all’esperimento che non ripeterà mai più.
La leggenda del Golem ha alcuni seguiti illustri nella letteratura fantastica e nel cinema, che vale la na ricordare.
Sicuramente il romanzo ottocentesco del dottor Frankenstein di Mary Shelley è una variazione sul tema.
Il giovane Frankenstein, sconvolto dalla precoce morte della madre, si dedica anima e corpo a studiare all’università i segreti della vita, finché non sarà in grado di infonderla in un essere che, pur dotato di una enorme forza fisica, si rivela immediatamente deforme e malvagio e fugge nella notte col diario del suo creatore.
Il dottore, completamente deluso, lo abbandona, senonché il mostro inizierà a perseguitarlo, costringendolo a ingaggiare con lui una guerra senza quartiere, che si concluderà tragicamente con la morte di tutti i protagonisti.
Ma è il novecento che produce i seguiti più significativi.
In “Cuore di cane” di Michail Bulgakov, l’esimio professor Preobrazenskij, medico chirurgo e biologo di fama internazionale, specialista nelle cure di ringiovanimento, conduce un esperimento trapiantando alcuni organi umani qualificanti in un cane randagio, che si trasformerà in un cittadino della Mosca comunista. Un perfetto sovietico.
L’ex quadrupede si rivela subito molto indisciplinato ma politicamente corretto e diventa presto una fonte inesauribile di guai per il suoi creatore, finché, esasperato, il professore non riesce a narcotizzarlo con l’aiuto del suo assistente e a operarlo con un procedimento inverso, che lo trasformerà nuovamente in cane.
“Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” è invece un romanzo di Philip Dick, da cui è stato tratto il grande successo cinematografico “Blade Runner”.
La trama del libro e del film hanno profonde differenze, ma ciò che li accomuna è il fatto di presentare dei golem molto ben riusciti, quanto meno sotto il profilo tecnico (più agili e più forti di qualunque umano e intelligenti almeno quanto gli ingegneri che li hanno progettati), e che, come tutti i golem, si ribellano.
Deckart, il protagonista, è un cacciatore di taglie cui è assegnato il compito di “ritirare i replicanti” non con una parola magica, ma a suon di pistolettate, anche se un’affascinante replicante femminile lo farà tentennare e riflettere su questa sua impresa.
Nonostante l’indiscussa genialità del romanziere, questo è un caso in cui il film supera il libro e che avvia l’esplorazione dell’altra parte, cioè il punto di vista del Golem.
Senza precedente letterario è invece il film Matrix, in cui il Golem originario, “le macchine”, che sono un complesso dinamico di forza elettromeccanica e intelligenza artificiale, ha preso il sopravvento sul suo creatore e schiavizza l’umanità tramite un controllo mentale che mantiene ogni persona nell’illusione della normalità, quando al contempo è soggetta al più brutale sfruttamento biologico.
Pochi illuminati riescono a risvegliarsi e percepire la situazione e grazie all’aiuto dell’eletto, un eroe predestinato, riusciranno a condurre una vittoriosa guerra di liberazione; tale guerra sarà condotta con l’uso di molte armi e di molto kung-fu, ma avrà il suo momento risolutivo solo nella liberazione spirituale dagli ultimi residui dell’illusione.
Questo film segna un’ardita evoluzione della leggenda, in cui sia il demiurgo sia il suo Golem non sono più singoli individui ma diventano entità collettive contrapposte per genere.
L’ultima significativa versione della antica leggenda ebraica è stata concepita nel terzo millennio, proprio in questi ultimi anni, e anche se non abbiamo ancora il prodotto, disponiamo però dei trailer e conosciamo il titolo del fantasy che sarà “The Great Reset”.
La storia narra di un ristretto gruppo di plutocrati che, infastiditi dal turismo di massa che affolla i loro siti preferiti per le vacanze, decide di sfoltire e controllare l’umanità, coltivando al contempo l’illusione di ridurre in questo modo l’inquinamento e il riscaldamento globale, in modo da trovare un clima più temperato sulle isole tropicali dove vanno a svernare.
Tramite il pretesto di una pandemia letale (in realtà poco più di una influenza severa, gonfiata dall’applicazione deliberata di cure sbagliate e dal clamore artatamente provocato col martellamento mediatico) e di una successiva campagna vaccinale, essi riescono a imporre un programma di modificazione genetica volta a trasformare i corpi dei soggetti inoculati in produttori di sostanze programmate dall’esterno.
Tali sostanze potrebbero modificare a piacere la salute e il comportamento degli (ex) umani nonché influenzare i loro stati d’animo, come provato da anni di sperimentazioni condotte sotto il paravento della categoria “psicofarmaci”.
Tramite l’inserimento di microchip nel sistema nervoso centrale e un controllo da remoto realizzato tramite un sistema innovativo di onde ad alta frequenza, il gruppetto di plutocrati riuscirebbe finalmente a creare l’ultima e perfezionata versione del Golem, detto “transumano”, controllabile con un joystick, senza gli sperimentati e annosi inconvenienti dell’impazzimento, dello sviluppo di volontà propria del servitore e della difficoltà di ritiro degli esemplari sgraditi.
Per la verità la trama non è particolarmente brillante né originale, perché tutte le versioni della leggenda concordano sul fatto che il Golem sia stupido, tendenzialmente malvagio, pericoloso, debba essere controllato e, come in Matrix, possa coincidere con l’umanità quasi tutta.
Ma ciò che fa di questo fantasy un’opera unica è il suo innovativo supporto di diffusione: non romanzo, non film, ma modalità “reale”.
Molto si sta discutendo per capire se questa modalità reale corrisponda o meno a una forma particolare di teatro, ma il fatto è che il 99,9% dell’umanità dovrebbe recitare nella piece, rinunziando per sempre alla proprietà privata, alla privacy, ai viaggi e stando spesso chiusa in casa. Inoltre, sempre la grandissima maggioranza dell’umanità, dovrebbe farsi inoculare i modificatori genetici, applicare i microchip, e un gran numero di attori dovrebbe morire davvero.
Molti critici sostengono che non sarà possibile completare l’opera per l’indisponibilità del cast, e che il tutto si risolverà in un flop per la produzione.
Io tuttavia vorrei segnalare una serie di elementi discutibili non per il caso in cui l’opera restasse incompiuta (il destino della torre di Babele, eh…) ma nell’eventualità che il lavoro andasse in porto.
In primo luogo va detto che questo fantasy non potrà mai essere un grande successo, perché, se tutti recitano, dov’è il pubblico?
Si potrebbe dire che il pubblico coincide con la produzione (il gruppo ristretto di plutocrati), ma loro conoscono già tutti i particolari, hanno dovuto seguire per anni passo passo l’elaborazione dei copioni, i preparativi, i progressi in corso d’opera, e quindi, superata la breve euforia della “prima”, sai che noia!
E poi che senso ha una recita globale, che i pochi spettatori non potranno mai vedere nella sua interezza?
Sì, potrebbero vedere l’effetto complessivo attraverso i media, ma allora che differenza ci sarebbe stata nel produrre un film?
In secondo luogo si riscontra una criticità nella gestione del prodotto.
La produzione infatti rivendica la proprietà esclusiva di “The Great Reset”, tuttavia essi ci hanno messo i soldi, ma sanno ben poco di come si possa attuare.
Poiché la rappresentazione dipende strettamente da una serie di ritrovati innovativi, sono i tecnici ad essere in possesso delle chiavi di realizzabilità del fantasy.
I moderni demiurghi non si sobbarcano più lo studio l’approfondimento , il rischio, il lavoro pesante, per quello ci sono gli specialisti; loro organizzano delle riunioni in cui ascoltano lo stato di avanzamento dei lavori, a Davos oppure in lussuosi hotel a cui appongono il logo “Bilderberg”, ma poi, per lo più, si limitano a ordinare delle pizze al Comet Ping Pong e andare a festeggiare nelle loro ville da mille e una notte.
Chi garantisce ai produttori che i tecnici non li facciano recitare a loro insaputa, che non somministrino anche a loro le sostanze geneticamente mutanti e non li riducano a schiavetti obbedienti?
Infine ci sono un paio di argomenti già sollevati dagli illustri precursori di quest’ultimo capitolo della saga del Golem.
Sull’utilità di un essere artificiale è Bulgakov a esprimersi in modo insuperabile, come appare nel seguente dialogo tra il professor Preobrazenskij e il suo assistente Bormentàl:
P – Ho lavorato sull’ipofisi per cinque lunghi anni… ma ora mi pongo la domanda: a che pro? Per trasformare un simpaticissimo cane in una schifezza che fa rizzare i capelli?
B – Professore, e se trovasse il cervello di uno Spinoza?
P – Ma perché farlo? […] perché fabbricare artificialmente gli Spinoza quando una qualsiasi donnetta è capace di sfornarne uno in qualsiasi momento […] è la stessa umanità che ci pensa e […] genera ostinatamente , ogni anno dalla gentaglia più triviale, decine di geni eminenti, abbellendo così il globo terrestre.
Insomma la riprogettazione funziona finché c’è da migliorare un arredamento, il motore di un camion, la resa di una coltivazione, ma quando si vuole ri-progettare l’umanità non solo si compie un lavoro difficile, ma inutile.
E per finire lascio la parola al grande letterato JL Borges, che ha intitolato al Golem una sua famosa poesia, in cui narra di Leon Giuda avido di saper ciò che Dio sa e che al termine delle sue indagini infine pronunciò il Nome ch’è la Chiave, dando vita così a pupazzo d’argilla.
Credendo di aver compiuto una grande opera
Gli sciorinava il rabbi l’universo
(Qua è il mio piede; là il tuo; questa è la soga)
e in capo agli anni ottenne che il perverso
spazzasse bene o mal la sinagoga.
E, sconsolatamente, l’aspirante demiurgo registra che:
in onta all’eccelsa magia, fu inetto al verbo l’apprendista umano. Né dava segni di intelligenza, dato che gli occhi meno d’uomo che di cane e ancor meno di cane che di cosa, tenevan dietro al rabbi….
Sì, aveva uno schiavo, ma non poteva avere un amico. Che noia, che barba, che noia!
Alla fine il Golem produce sempre delusione nel suo creatore, perennemente destinato a essere diviso tra il desiderio di essere servito e il bisogno di relazionarsi con un pari grado, con un aiuto che gli sia simile.
E così conclude lo scettico Borges:
Nell’ora dell’angoscia e luce vaga,
sul suo Golem lo sguardo soffermava.
Chi ci dirà le cose che provava
Iddio, mirando il suo rabbino in Praga?