dì Roberto PECCHIOLI
Le interviste del Vicario di Pietro hanno smesso da tempo di destare stupore. Eppure, l’inquilino di Santa Marta ogni volta riesce ad incrementare il nostro personale indice di protestantizzazione. Come sempre, l’organo di stampa preferito da Francisco El Listo, il furbacchione, amicone dei nemici della Chiesa e della fede, è La Repubblica, a cui affida i suoi pensieri più elevati. Noi abbiamo l’onore di non essere tra i lettori del quotidiano più progressista, borghese, liberal e laico che ci sia, noi pochi felici, noi banda di fratelli. Così la lettura del Verbo bergogliano è avvenuta un po’ di fretta, a spizzichi e bocconi. Ne è valsa la pena.
Prima considerazione, un po’ per celia e un po’ per non morire: Francisco El Listo segue alla lettera il secondo comandamento: non nomina mai il nome di Dio invano. Sarebbe uno spreco, per i pensosi, riflessivi, umanisti lettori di Repubblica. Infatti, l’Altissimo e il figlio suo, fondatore della Chiesa di cui è capo visibile e custode (il depositum fidei) non fanno parte dei vocaboli utilizzati dal tifoso del San Lorenzo (de Almagro, squadra di calcio di Buenos Aires, non il santo posto sulla graticola dall’imperatore Valeriano). Viene da piangere, ma ci confortano le parole di Pietro, su cui Gesù edificò la Sua chiesa: Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna (Giovanni, 6,68).
A beneficio di Francisco El listo, trattasi di Giovanni Evangelista, l’uomo di Patmos, l’autore dell’Apocalisse, non Giovanni Senzaterra, Giovanni di Ferro della fiaba dei fratelli Grimm, e neppure, per restare nella cultura ispanofona, più familiare nella pampa, Don Giovanni. Il convitato di pietra è Dio, il nuovo idolo è, udite, udite Fabio Fazio, F.F. Facente Funzioni di profeta. L’intervista, è evidente, non è che un commento, una glossa a un articolo pubblicato da Repubblica, evangelo progressista, a firma del melenso conduttore televisivo. La notevole prestazione intellettuale del potente pensatore savonese ha incantato Francisco. Il sistema filosofico “fazista” si concentra in un ciclopico sforzo intellettuale: “i nostri comportamenti influiscono sempre sulla vita degli altri”. Trenta secoli di pensiero occidentale condensati in un apoftegma che deve aver lasciato stremato il povero Fabio, a cui avrà deterso il sudore la fidata Luciana Littizzetto, perla di continenza verbale e umorismo di classe.
In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Fazio. Infatti, il nostro collega di sofferenze sportive blucerchiate ha altresì esortato a pagare le tasse, tra gli applausi del pubblico e la rumorosa approvazione di Don Francisco, facendo balenare un’ulteriore scoperta intellettuale. Sarebbero gli evasori fiscali, par di evincere, i responsabili di tutti i mali del mondo, a cominciare dal Coronavirus. Infatti, ospedali e reparti di cura intensiva sono stati sbarrati dal nostro idraulico senza fattura e dal malvagio dentista del primo piano. Silenzio sull’evasione dei grandi gruppi finanziari, delle banche, dei giganti tecnologi transnazionali e, Dio guardi, anche di Santa Romana Chiesa, maggiore detentrice di patrimoni immobiliari del Bel Paese che ospita la Santa Sede.
Personalmente ci sentiamo sempre più soli, ogni volta che leggiamo o ascoltiamo le performance della neo Chiesa, in particolare del suo numero uno. Pensavamo però che un personaggio televisivo la cui carriera è dovuta allo schieramento a sinistra, privo di particolari doti, non potesse divenire maitre-à-penser di un Papa. Diceva Andy Warhol: a tutti spetta un quarto d’ora di celebrità.
S’io fossi foco, arderei lo mondo ad ogni intervista di Francisco El Listo, ma se fossi Papa, allor sarei giocondo, ché potrei parlare di Dio dalla tribuna più ambita, quella dei mezzi di comunicazione avversari. No, silenzio e disciplina fiscale. Detriti di sinistrismo da Casa del Popolo di Scandicci, tra una bevuta e una partita a tressette. Dottrina no, peccato no, ma zoppica anche sulla profezia, tanto popolare negli alati pistolotti in clericalese stretto, parente prossimo delle fumisterie verbali da Sessantotto maldigerito. Forse è profetico chiudere le chiese, ciò che non fecero durante le pestilenze, ma all’epoca credevano in Dio, e unirsi al coro di chi raccomanda l’igiene delle mani e la disinfezione. Invitano a vivere in ambiente sterile. E’ un segno: sterile come la parola stanca di una Chiesa in uscita, sì, ma dalla storia e dal cuore della gente, intenta a chiudersi precipitosamente in sacrestia.
Nei Cori della Rocca, Thomas Stearns Eliot, il maggior poeta del Novecento, si chiede: è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa, o è la Chiesa ad aver abbandonato l’umanità? La risposta di Don Giussani è tagliente. La Chiesa ha cominciato ad abbandonare l’umanità perché ha dimenticato chi era Cristo, ha avuto vergogna di Cristo, di dire chi è Cristo. Eh sì, chi si vergogna, chi si nasconde, a cominciare dal fastidio di presbiteri e monache a indossare l’abito della loro condizione, dà il segno certo della sconfitta, di aver assorbito, fatto proprie la lingua e le parole altrui.
Lo stesso Eliot fa dire a un uomo, nei Cori, che all’uomo moderno servono meno chiese e più osterie. Missione compiuta, pressoché senza resistenza. The waste land, la terra guasta, è il titolo del capolavoro di Eliot, in cui si condensa tutto il dolore e la mestizia per un tempo irriconoscibile. Anche i papi non sono più quelli di una volta, che cercavano di portare anime a Dio, non chiamavano proselitismo l’apostolato e non si vergognavano del nome di Dio, di Gesù e dello Spirito santo. “Dove il mio Verbo non viene pronunciato, / nella terra delle lobelie e delle flanelle da tennis / il coniglio s’intanerà e il pruno tornerà a far visita, / l’ortica fiorirà nell’aiuola di ghiaia, / e il vento dirà: Qui vi furono dei dignitosi senzadio: / loro unico monumento la strada d’asfalto / e un migliaio di palline da golf smarrite” Ancora Eliot.
Infine la dolorosa scoperta: “La nostra epoca è un’epoca di virtù moderata / e di vizio moderato / in cui gli uomini non deporranno la Croce / perché mai se la caricheranno. / Eppure nulla è impossibile, nulla / agli uomini di fede e di convinzione”. Appunto, a loro, solo a loro. Dicevamo di un crudele transito al protestantesimo. Ci si sente come Lutero nel suo viaggio a Roma. Si è portati a concludere che è assai meglio, per la saldezza della fede e la salvezza dell’anima, stare lontani da questa chiesa stanca, impiegatizia. Sola gratia, sola fide, sola scriptura, così cerchiamo di reggere nella sconfortante ultima ridotta dopo due millenni di grandezza e di miseria, mai però di indifferenza.
Su Repubblica è andato in scena, una volta di più, il Papa a-teo. Alfa privativa, Papa senza Dio, non ateo, per carità. Non ci permettiamo di giudicare i sentimenti di Jorge Mario Bergoglio, ma a-teo, lontano da Dio, un Dio sbiadito, fuori scena, Godot che non arriva mai. Peggio di Godot, che era atteso, evocato, sperato ogni sera nell’appuntamento di Vladimir e Estragon. Resta la fortezza interiore, la preghiera, la tenace speranza. Lo sapeva già il Fondatore, nel Vangelo di Luca: quando tornerà il Figlio dell’uomo, troverà ancora la fede sulla terra? (Lc. 18-8). Soprattutto, chissà se troverà qualcuno a proclamarla, se il Vicario abbandona la partita per discutere di tasse e immigrazione con interlocutori che non hanno neppure la fosca grandezza dell’ateo, ma l’indifferenza irridente dell’Homo Deus, salvo rinchiudersi in casa con mascherina e disinfettante per terrore del contagio.