IL PROBLEMA TEOLOGICO DELL’UNIONE EUROPEA
Nella storia nulla di quanto è seminato, nel bene o nel male, si perde perché il cuore umano è sempre lo stesso.
Apprendiamo che il gotha economico tedesco, nonostante l’emergenza sanitaria mondiale in atto, si è ancora opposto all’idea di condividere il debito con l’Italia e gli altri Paesi in difficoltà per via della pandemia. Germania, Olanda e Finlandia guidano l’opposizione alla concessione di crediti senza condizionalità all’Italia, alla Spagna e ad altri Stati bisognosi della liquidità necessaria a sostenere l’economia ferma per evitare il contagio da coronavirus. Una opposizione cocciuta nonostante che tutto il mondo sia sull’orlo di una depressione globale.
«Di aprire linee di credito all’Italia attraverso il Fondo salva Stati (Mes) senza concordare condizioni ex ante non se ne parla. Di lanciare obbligazioni Ue con garanzia comune, come i Coronabond, nemmeno. (…). Le idee del ghota economico di Berlino su come sostenere i Paesi più colpiti dall’epidemia da coronavirus sono prima di tutto un corollario del concetto di solidarietà di una certa élite tedesca, inscalfibile anche all’alba di una recessione globale potenzialmente catastrofica. Idee che, almeno nella parte che riguarda gli eurobond, sembrano condivise dal ministro delle Finanze Peter Altmaier: “Quello sulle obbligazioni comuni dell’area euro è un dibattito fantasma” ha riferito … il quotidiano finanziario tedesco Handelsblatt».
Così ha riassunto l’Huffpost del 23 marzo scorso, in un articolo di Claudio Paudice dal titolo molto significativo “No Troika, no soldi”, la posizione ufficiale della Germania che, pochi lo sanno, è sempre espressione delle decisioni assunte da un Consiglio di esperti costituito da economisti in prevalenza di formazione ed orientamento ordoliberista (ne faceva parte, fino alla sua nomina nel board della Bce, anche Isabel Schnabel, colei che ha spalleggiato e suggerito alla Lagarde la dichiarazione che ha provocato, giorni fa, il collasso delle borse europee ad iniziare da quella di Milano).
Uno dei più influenti “saggi” di questo Consiglio tedesco, Volker Wieland, ha detto in una intervista «I Paesi attualmente colpiti dalla crisi dovrebbero presentare una domanda di assistenza al meccanismo europeo di stabilità … ma sarebbero vincolati a delle condizionalità (…). Ciò consentirebbe poi alla Banca Centrale Europea di acquistare titoli di Stato di singoli paesi attraverso l’Omt». Quest’ultimo è un programma, finora mai utilizzato, che consente alla Bce l’acquisto illimitato di titoli di Stato dei Paesi che non riescono a finanziarsi sui mercati e che, appunto, secondo le regole attuali, segue soltanto alla firma da parte del Paese in difficoltà di un memorandum con il Mes guidato, guarda caso, dal tedesco Klaus Regling.
Il presidente di questo “Consiglio teutonico dei Saggi”, Lars Feld, ha dichiarato che «Se l’Italia dovesse trovarsi nei guai dovrebbe richiedere un programma del Fondo Salva-Stati collegato a condizioni e riforme» ovvero, tradotto, dovrebbe cedere la propria sovranità di bilancio alla Troika e fare la fine della Grecia con la distruzione di quel che rimane del Welfare, compresa la nostra sanità in questi giorni elogiata da tutti, e la svendita dei suoi asset pubblici e privati ai mercati globali (leggasi al capitale tedesco e francese).
Un altro “saggio” del ghota tedesco, Clemens Fuest, ha ribadito da parte sua che «Se un Paese richiede l’assistenza del Mes, la Bce può acquistare titoli di Stato di quel Paese in quantità illimitata ma solo a certe condizioni».
Tutto questo mentre Berlino ha approvato un pacchetto di misure anti-crisi di ben 600 miliardi per aiutare l’economia tedesca sconfinando da ogni limite e parametro europeo. La sospensione del Patto di Stabilità, che tanto ha esaltato gli euro-idioti di casa nostra, è stata in realtà funzionale agli interessi della Germania consapevole che subirà un collasso del Pil di almeno il 5%.
Hans-Werner Sinn, anche lui del ghota, ha ammesso, senza che nessuno dei nostri euro-entusiasti vi facesse attenzione, che le misure annunciate dalla Bce servono prima di tutto ad aiutare le banche francesi e tedesche a non subire perdite avendo esse in pancia una notevole quantità di titoli del debito pubblico italiano. Se l’Italia facesse default, a causa della pandemia, sarebbero le banche franco-tedesche a rimetterci e questo la Germania e la Francia, i dominus europei del “Patto di Aquisgrana”, non possono permetterlo e, dato che non vogliono affatto sentire parlare dell’ipotesi di creare un debito pubblico comune europeo, non resta, in caso di fallimento dell’Italia, che l’unica soluzione alla greca ovvero il commissariamento di Roma da parte della Troika. Questo significherebbe manovre austerocratiche, lacrime e sangue, a base di tagli alle spese ed aumenti delle tasse come condizione per avere accesso agli “aiuti” del Mes e della Bce. Lo stesso scenario si profilò nel 2008 per la Grecia: sarebbe bastato, inizialmente, un atto di generosità di poche centinaia di milioni di euro per salvare Atene ed invece, dato che a rimetterci sarebbero state le banche franco-tedesche, si scelse la via del Fondo Salva-Stati e del massacro sociale e nazionale imposto dalla Troika mentre le condizioni finanziarie elleniche peggioravano inesorabilmente giorno dopo giorno.
A questo punto se qualcuno crede ancora alla “solidarietà europea” ha qui di che ricredersi. In primis a ravvedersi dovrebbero essere Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri che si illudono di poter ottenere prestiti dal Mes senza condizioni. In secondo luogo ad aprire gli occhi dovrebbero essere gli ingenui adolescenti inscatolati in forma di “sardine” che pensano di risolvere i problemi con le raccolte fondi per l’acquisto di ventilatori ed il cui redivivo leader, con la sua aria da cocco di mamma, in questi giorni, ha accusato i sovranisti di non comprendere l’utilità della solidarietà europea rappresentata dall’aiuto del Mes. In terzo luogo a doversi svegliare dai loro sogni “europodi” sono anche Antonio Tajani e Renato Brunetta ossia la componente liberista del centrodestra da sempre favorevole alla subordinazione dell’Italia ai diktat francotedeschi in veste europeista. Del resto i Berlusconi, i Tajani ed i Brunetta altro non sono che i residui della classe politica della prima Repubblica, quella dei Prodi, dei Ciampi, dei Dini, dei Napolitano, dei Mattarella, degli Scalfaro, che, in nome di una servile esterofilia che nulla ha a che fare con l’ideale europeo originario, ha consegnato l’Italia, legata mani e piedi, al dominio nord-europeo. Dovrebbero tutti costoro chiedere scusa a Paolo Savona quando fu ostracizzato, nel 2018, per aver sostenuto che la Germania con l’euro è riuscita a fare ciò che non le riuscì con i carri armati per due volte nel XX secolo ovvero dominare l’Europa.
Questa, dunque, l’allarmante cronaca politico-finanziaria di questi giorni.
Vogliamo ora porci la domanda da dove viene tanto rigore tedesco? Qual è la sua fonte storica e, non meravigli, teologica.
Nella storia, dicevamo, nulla si perde ed anche questioni antiche di secoli all’improvviso possono ripresentarsi dopo aver navigato carsicamente nel tempo. Dietro l’avversione germanica verso gli italiani e gli altri euromediterranei non c’è solo la narrazione, costruita ad arte e da molti italiani – nell’autofustigarci nessuno ci batte – acriticamente fatta propria, per la quale noi improduttivi siamo avvezzi a spendere i soldi, possibilmente altrui, in donne, alcool e gozzoviglie varie. Non c’è solo la vulgata sulla nostra “furbizia” ed “inaffidabilità”. Ci sono ben più profonde ragioni storiche e religiose.
L’Europa, intesa come comune civiltà, finita la Cristianità medioevale è scomparsa dalla scena storica. Le fratture provocate dalle guerre di religione e dalla formazione di Stati nazionali “superiorem non recognoscentes” non sono mai state superate ed è per questo che, ora, si sta rivelando illusoria la speranza europeista nutrita nell’immediato dopoguerra dai fondatori della Comunità Economica Europea all’epoca della firma del trattato di Roma. Pensare di unire in modo solido e solidale popoli che hanno percorso strade nazionali e religiose diverse era una speranza che già all’epoca non faceva i conti con la durezza del disincanto storico. Tra una Europa del nord di eredità marcatamente protestante ed una Europa del sud al contrario di retaggio cattolico è difficile trovare intese in nome di una presunta comune civiltà perché, al di là di ciò che unisce, permangono le distanze provocate da quanto inevitabilmente continua e continuerà a dividerci e che influiscono fortemente anche sui modi di concepire la vita, la politica, l’economia.
Se uno storico come Leo Moulin ha potuto notare che i popoli cattolici sono più aperti alla vita, sanno godere del buono che c’è nel mondo, sono maggiormente altruisti, creativi con un forte senso dell’arte e della lirica, mentre i popoli protestanti sono più cupi, rigidi, pessimisti e vedono il mondo come un luogo tetro e l’uomo come una cloaca di irrimediabile peccato, sicché la sua esistenza deve essere soltanto espiazione, le ragioni di tali differenze devono essere cercate, come indicava lo stesso Moulin, nell’eredità culturale del diverso approccio religioso. Ed attenzione perché qui entriamo in un campo, la Spiritualità e la Metafisica, che è esattamente quello che attiene, come dicevamo, al cuore umano ed alla guerra che in esso si svolge ab illo tempore.
«Lo sai bene – mi ha scritto ieri su whatsapp un amico, Guglielmo Cevolin, docente universitario di diritto pubblico, riflettendo sul problema del male – Dio non impedisce il male … ma il male non vince … e per questo è così cattivo … Sa di perdere e il male impazzisce per questo … Ne “Il Signore degli Anelli” Tolkien fa dire a Sam, il fedele amico di Frodo, “Ci sono nel mondo tante cose bellissime” … Sam parla della torta di fragole e panna, del seno della ragazza hobbit che diventerà sua moglie … E’ un modo semplice, non intellettuale, di dire che vale la pena di vivere … Vivere con le persone che amiamo è una cosa bellissima … Molti dicono in questi giorni che capiscono che la normalità è la cosa più bella del mondo … Un ammalato giovane che sta guarendo ha detto che respirare è la cosa più bella del mondo … “C’è del buono in questo mondo, nonostante tutto”, ecco la frase di Sam. “C’è del buono in questo mondo, padron Frodo. E’ giusto combattere per questo”. E’ giusto combattere per questo, vale la pena non dimenticarlo. Anche se tutto, intorno, sembra dire il contrario. Frasi semplici di Sam … Anche l’oscurità deve passare. Arriverà un nuovo giorno. E quando il sole splenderà, sarà ancora più luminoso. Le cose che sembrano piccole, non lo sono per niente, ci rivelano la straordinaria bellezza e allo stesso tempo la semplicità del bene».
Breve ma densa riflessione che sale verso vertiginose altezze e ci fa toccare con mano il dramma della dimensione umana sospesa nella scelta tra il Sommo Bene, per il Quale l’uomo è stato creato, e il male, ossia la negazione di quel Sommo Bene. Negazione che lo tenta e lo seduce. Una scelta che la pandemia e la depressione economica globale stanno riproponendo anche per quanto riguarda i rapporti tra Stati.
Se, nell’epopea de “Il Signore degli anelli”, al buon Sam viene fatto dire che “c’è del buono in questo mondo” non è un caso. In quella frase si svela tutta la profonda anima cattolica di John Ronald Reuel Tolkien perché si tratta di una affermazione che si riconnette direttamente al Genesi (1,31) «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona». In ogni altro sistema religioso il creato è considerato decadenza, imprigionamento nel male, e, in quanto materiale e “carnale”, viene svalutato come l’esito di una caduta ontologica derivata dalla scissione di una supposta uniformità, una indistinzione, primordiale. Il male è fatto così coincidere con l’essere, con la stessa creazione spirituale e materiale. Una concezione estremamente pessimista dalla quale traspare l’odio per l’essere, per la bellezza del mondo, per la bontà delle creature. Che è in ultima istanza odio verso il Creatore. Infatti se la “manifestazione” è concepita come scissione, emanazione o frammentazione di un Monos impersonale, che i miti spesso descrivono nei termini della “Notte” o del “Caos” originario, è evidente che la salvezza non sta nella glorificazione e nella trasfigurazione spiritualizzante del creato, della stessa materia, della carne, che saranno appunto trasfigurati e sublimati pur rimanendo materia e carne, ma nella fusione, nel riassorbimento, di ogni cosa nella indistinzione assoluta (qui la radice del nichilismo). Manca, in altri termini, l’idea che l’essere è partecipazione. Idea autonomamente intuita dai greci, Platone ad esempio, ma in precedenza già svelata nella Teofania mosaica del roveto ardente (Esodo 3, 3-15).
Dunque il creato, l’uomo stesso, non è impuro, non è il male, ma è dono di un Amore infinito che supera ogni nostra possibilità di comprensione. Dio si rivela nella misura in cui possiamo cogliere qualcosa della Sua Ineffabile Essenza ma resta sempre infinitamente al di là di qualsiasi nostra possibilità di comprensione. Possiamo, ed in un certo senso dobbiamo, pensarlo, perché ci ha fatti intelligenti, ma non possiamo costringerlo nei nostri schemi, nei nostri ragionamenti. Ecco perché il buono che c’è nel mondo ci dice di Lui più di qualsiasi trattato teologico o di storia delle religioni.
E il male, allora, da dove viene? Esso non è che l’esito del rischio insito nella libertà che Dio, creandoli, ha donato agli esseri intelligenti, angeli e uomini, per provarne l’amore. Il Creatore crea per amore e nell’amore vuole essere corrisposto dalle creature intelligenti. Avendo creato ogni cosa buona, Egli non è l’autore del male perché in Lui, che è Luce Inaccessibile, non c’è ombra alcuna del male. Questo era soltanto una possibilità inerente alla stessa libertà degli angeli e degli uomini di accettare o rifiutare la propria dimensione creaturale ovvero quella di esseri dipendenti ma amati dall’Amore Infinito. Un potenziale effetto della libertà creaturale previsto dal Creatore ma da Lui non attuato. Una potenzialità tuttavia indispensabile per consentire ad angeli e uomini una libera scelta. Perché non sarebbe stata una corresponsione d’amore all’Amore se non fosse stata una scelta libera ma coatta. Sono state le creature intelligenti, non Dio, ad attuare la potenzialità del male, ad introdurre, come dice la Rivelazione, il male, e con esso la morte, nel mondo.
La scelta degli angeli caduti, ai quali la natura spirituale consentiva di prevedere pienamente tutte le sue conseguenze, è stata irrimediabile. Gli uomini sono le uniche creature terrene alle quali è stato infuso il Ruach in vista dell’Incarnazione del Verbo. Per via della sua natura anche carnale, l’uomo non era in grado di prevedere ogni conseguenza della tentazione ad auto-deificarsi anziché attendere il compimento della promessa di deificazione per la grazia spirituale che gli sarebbe stata donata dal farsi Uomo di Dio dato che l’Incarnazione ci sarebbe stata anche senza peccato d’origine perché Essa è il centro ed il fulcro della creazione. Ecco perché, a differenza di quella degli angeli caduti, la scelta errata degli uomini sin dall’inizio fu suscettibile di redenzione. Questo spiega perché il cuore dell’uomo è perennemente travagliato da un “mistero d’iniquità” che gli rende difficile attuare il bene per il quale è stato creato ed al quale è ontologicamente chiamato.
Tutta la vicenda spirituale dell’uomo si riflette nella storia, nella politica, nell’economia.
La concezione per la quale il male si identifica con l’essere, per vie che ora sarebbe lungo spiegare ma che abbiamo già sviscerato altrove, torna nella teologia pessimista di Lutero e di Calvino. In questa teologia, venute meno l’idea di partecipazione e l’analogia entis, il mondo diventa un disvalore che si oppone come “contraria specie” a Dio. Apofaticità e catafaticità vengono opposte e Dio resta del tutto incomunicabile mentre l’uomo in quanto parte del mondo è, nel suo stesso essere, nel suo stesso esistere, per natura una polarità che si oppone alla polarità divina. Pertanto, nella prospettiva in esame, solo negandosi e risolvendosi nel Nulla apofatico, che non conosce anche l’espressione positiva della Sua Bontà catafatica rivelata nella creazione, l’uomo può trovare salvezza. Ecco perché Lutero in luogo della transustanziazione parla di consustanziazione: Dio, nella sua teologia, non può entrare nella carne, non può essere realmente Presente nel creato, in un pezzo di materia sebbene trasformata. La stessa concezione luterana dell’Incarnazione è, secondo alcuni studiosi, molto dubbia ritornando in essa espressioni ambigue che già furono usate ai tempi delle eresie monofisita ed ariana. Come se la Divinità del Verbo non toccasse realmente la carne di Gesù ma rimanesse ad essa “incidentale”, “parallela”. L’uomo, nella teologia protestante, non è solo ferito dal peccato originale ma del tutto corrotto sicché la grazia non ne trasforma affatto il cuore e quindi le opere, anche se buone, sono solo manifestazione della superbia umana e non della trasformazione interiore operata dalla Grazia di Cristo che, in Lutero e Calvino, resta soltanto una sorta di coperta esteriore atta a coprire agli occhi del Padre l’impurità connaturata alla natura umana ed a placare l’ira di Dio. Laddove nella Rivelazione l’ira di Dio altro non è che il Suo Amore ferito, del quale è immagine terrena quella del padre che, offeso con il figlio, tuttavia non smette di amarlo, il “dio” di Lutero e Calvino è nella sua stessa essenza ira senza misericordia. E, attenzione!, non è Giustizia ma arbitrio dato che questo “dio” salva senza tener in conto alcuno le opere ovvero le disposizioni umane verso il bene, sicché potrebbe anche salvare il peggior criminale impenitente e condannare un sant’uomo per la superbia dei suoi presunti meriti.
Il Dio della Rivelazione cristiana è senza dubbio Giustizia, ed infatti il peccatore deve soddisfare e riparare le offese fatte alla Giustizia Divina, ma è insieme, non contraddittoriamente, anche Misericordia senza della quale nessuno potrebbe aver speranza di salvezza dato che l’offesa alla Maestà Divina non può trovare vero ed efficace rimedio senza la Sua Misericordia. Ed è per Misericordia che Dio alla Incarnazione, originariamente prevista, ha aggiunto anche la Passione della Croce onde riparare, Lui stesso, all’offesa irrimediabile con le sole forze dell’uomo che comunque era tenuto a porvi rimedio. Solo il Dio-Uomo poteva, in quanto Uomo, riscattare, al posto degli uomini, la colpa verso Dio.
Nella lingua ebraica la parola usata per dire “colpa” o “peccato” è la stessa che indica il “debito” sottendendo, con tutta evidenza, che l’uomo, peccando, è debitore verso Dio. In quanto debitore deve soddisfare il suo debito e restituire al Creditore quanto Gli è dovuto, quanto Egli ha prestato all’uomo ossia l’Amore. Ma, attenzione, questa non è solo una concezione ebraica. Benché deformato nei termini di una caduta ontologica dall’indistinzione al distinto, dall’unità alla molteplicità, dal puro Spirito all’impura Materia, il senso di una colpa originaria esiste in tutte le culture religiose umane. Nella caduta nell’essere, intesa come frammentazione/emanazione del Monos principiale, sussiste una dimensione espiatrice – espressa nella necessità di ricomporre la perduta ed uniforme unità primordiale – che assume sovente le forme anche cultuali di un debito contratto verso la deità e che bisogna soddisfare senza esitare neanche di fronte al sacrificio umano.
Per questo nell’antichità, ed a tutte le latitudini, il debitore insolvente era considerato socialmente maledetto, uno scomunicato dal gruppo di appartenenza, e perdeva ogni diritto fino ad essere ridotto, insieme a moglie e figli, schiavo del suo creditore onde soddisfare il credito concessogli. San Girolamo, il traduttore in latino della Bibbia, ricorda in un suo scritto la scena, alla quale aveva assistito, della disperazione di un padre che era stato condannato per debiti e che doveva scegliere quale tra i suoi due figli sarebbe diventato schiavo del suo creditore. E, si badi, siamo in un’epoca della storia romana già notevolmente avanzata e molto più civile rispetto agli esordi patriarcali. Questo dimostra che le conseguenze tremende connesse all’insolvenza restavano immutate anche in età più recenti.
La “maledizione del debito”, in ambito biblico, aveva invece da tempo trovato una redenzione nella antica prassi giubilare ossia nella periodica remissione dei debiti, cui conseguiva la liberazione dei prigionieri e degli schiavi per indebitamento. Si manifestava nel giubileo la Misericordia del Dio abramitico che, secondo i mistici, sovrabbonda sulla Sua Giustizia. Nella stessa linea rivelatrice è a questa Misericordia che Nostro Signore Gesù Cristo ci ha insegnato, nella preghiera sacerdotale del “Padre Nostro”, a rivolgerci per chiedere a Dio la remissione dei nostri debiti, dei nostri peccati, ma – attenzione! – alla condizione che noi per primi rimettiamo al nostro prossimo i suoi debiti, che cioè perdoniamo settanta volte sette i peccati altrui.
Orbene questo insegnamento ha un risvolto anche chiaramente economico dato che la remissione dei debiti non va intesa soltanto come perdono dei peccati ma anche molto concretamente come liberazione del prossimo dal peso insostenibile del debito in senso monetario e finanziario. Perché nessuna economia può sostenersi se l’indebitamento non trova una qualche soluzione che, eliminando il peso del debito ossia gli interessi lucrati su di esso, liberi la capacità di sviluppo di quell’economia a vantaggio di tutti, compreso il creditore misericordioso e remittente che potrà così avere nell’ex debitore un partner con il quale condividere i frutti della produzione ossia scambiare beni e servizi. Ma è evidente che questa prospettiva, la prospettiva di un’economia libera, o quantomeno poco appesantita, dall’indebitamento, terrorizza banchieri ed usurai.
Se la perfezione, per essere figli dell’Altissimo, sta nel «prestate senza sperarne nulla» (Lc. 6,35), cosa non facile da mettere in pratica dalla fragile creatura umana, tuttavia, dalla tradizione giubilare, recepita nella preghiera sacerdotale di Cristo, è nato un modo diverso di concepire il credito come attività sociale, di aiuto al prossimo, di bene civile. Non come attività autoreferenziale, annichilente delle risorse della comunità, predatoria dei beni economici e dell’esistenza del prossimo sia esso un singolo o un popolo. Di questa diversa concezione etica, giubilare, del credito sono state testimonianze, lungo i secoli, non solo le ripetute condanne ecclesiali dell’usura e non solo le articolate riflessioni teologiche sulla differenza tra prestito ad interesse ed investimento produttivo ma anche le esperienze di “credito sociale” come quella dei Monti di Pietà francescani o quella più moderna delle banche cooperative o popolari promosse dal movimento cattolico sociale. Esperienze intese a fornire prestiti a basso interesse ad artigiani, imprenditori, lavoratori, ossia, per dirla secondo il linguaggio degli statuti dei Monti francescani del XV secolo, “ai poveri meno poveri” che erano coloro i quali pur non essendo del tutto poveri, e quindi non bisognosi di ben altra assistenza caritatevole, non avevano tuttavia sufficienti risorse per iniziare o continuare una attività economica.
Questa concezione sociale del credito, concepito come attività benefica volta ad aiutare il prossimo ed a sovvenire al bene comune economico, non è però spiegabile se non riconnettendola all’idea della “bontà ontologica del mondo”, della bontà che c’è e si rivela nel mondo alla quale si riferisce il Sam di Tolkien. Idea che è propria della Rivelazione del Genesi la quale, dietro un linguaggio in apparenza mutuato dai coevi miti sumerici e mediorientali, in realtà svela la Verità originaria sull’uomo e sul mondo.
Perché solo laddove il mondo è il Giardino, buono oltre che bello, che l’uomo è chiamato a custodire nel Culto – etimologicamente il “coltivare” rimanda per l’appunto al “culto” ed alla “cultura” – l’agire dell’uomo in esso si palesa come Rito che ordina al bene, nella Luce del Sommo Bene, la realtà, compresa la realtà sociale.
Se invece il male viene fatto coincidere con l’essere, con la creazione quale decadenza dello Spirito puro nella Materia impura, allora il Giardino diventa non dono ma prigione del Sé ed il molteplice frammentazione, non partecipazione, dell’Uno. Se, pertanto, secondo la teologia pessimista di Lutero e l’antropologia negativa, che da essa dipende, di Hobbes, l’uomo è irrimediabilmente corrotto, non soltanto ferito, dal peccato perché il male se lo porta dentro connaturato alla sua natura, sicché a nulla gli serve “coltivare” il Giardino ossia ordinare la realtà al Bene, è evidente che l’agire dell’uomo nel mondo non può che volgersi all’annientamento del reale in odio ofidico alla sua bontà e quindi alla Bontà del Suo Autore.
Il debitore insolvente resta, in tal caso, un peccatore senza alcuna possibilità di redenzione, soggetto alla più severa punizione perché i suoi debiti non sono rimessi dato che l’essere stesso è peccato irredimibile. In una sorta di blasfemo rovesciamento della preghiera di Gesù, viene chiesto, nella concezione pessimista riaffiorante in Lutero, che a noi non siano rimessi i nostri peccati come noi non abbiamo intenzione di rimetterli al nostro prossimo. Chi ha orecchi per intendere non può, qui, non sentire l’eco ancestrale del “Non serviam!”.
Per il predestinazionismo luterano-calvinista si nasce già dannati o salvi sicché le nostre scelte morali non contano nulla ai fini escatologici. Il “dio” di Lutero è irrazionale, perché può salvare il criminale e condannare il giusto secondo il proprio arbitrio e capriccio. Per tranquillizzare il fedele, sconcertato dall’incertezza del suo destino finale, Calvino indicò nell’accumulazione della ricchezza, attraverso la dura e metodica (da qui il metodismo) ascesi professionale intramondana, il segno della predestinazione. Bando allo sperpero – alle spese eccessive e men che mai quelle volte ad aiutare il prossimo – perché sono segni di dannazione. Solo duro lavoro, penitenziale, per espiare la corruzione umana. Ma l’uomo non è stato creato per il lavoro-pena ma per il lavoro-gioia, come attesta il Genesi che connette la pena al lavoro solo dopo la colpa mentre prima di essa il lavoro, il “coltivare”, è gioia perché atto cultuale, rito d’amore. Lavoro-gioia che non è stato del tutto perduto dall’uomo e che egli può ritrovare ogni volta che apre il cuore all’Amore Infinito. In Calvino invece, sulla scorta del pessimismo luterano, sussiste solo la pena del lavoro perché l’esserci stesso dell’uomo è in fondo un male.
Oggi sappiamo che Max Weber sbagliava nel ritenere il calvinismo come responsabile della nascita del capitalismo, che invece era già nato nel XV secolo italiano. Ma certamente il calvinismo, insieme alla rottura luterana dell’analogia entis che ha emancipato il mondo e quindi anche l’economia dalla sfera della Santità sacrale, ha contribuito a che il capitalismo prendesse la piega individualista ed antisociale, ancora trattenuta alla fine del Medioevo dall’etica cattolica e dai vincoli comunitari, che ha poi effettivamente preso. Posta la premessa predestinazionista protestante, la povertà diventa ipso facto segno di dannazione. Il povero è tale per colpa sua (idea che poi sarebbe ritornata in continuazione nella polemica liberista sulla disoccupazione “sempre volontaria”), dannato per una colpa irredimibile. L’indebitamento, che della povertà è insieme causa ed effetto, assurge pertanto, anti-biblicamente, a macchia indelebile della quale il portatore deve subire le conseguenze nella continua mortificazione terrena prima che inizi a subire quelle oltremondane in termini di pena eterna.
La Germania, essendosi formata intorno alla propria identità “prussiana” – sappiamo bene che esiste anche un’altra Germania, quella cattolica, “bavarese”, ma essa è minoritaria ed è stata sconfitta ed assorbita dalla prima –, nasce quale nazione, anche se avrebbe raggiunto l’unità statuale più tardi, nella matrice originaria del luteranismo anti-romano. Un “marchio” che l’ha accompagnata per tutta la sua storia moderna, sotto qualunque regime politico. Tra l’avversione moralistica contro gli euromediterranei della Germania attuale e l’accusa nazista per la quale il diritto romano è materialista e la cattolicità portatrice dell’“infezione ebraica” corre un filo rosso ben individuato, a suo tempo, da Carl Schmitt, ancora cattolico, quando parlava, agli inizi del XX secolo, del “complesso antiromano” dei tedeschi.
Non può dunque meravigliare che i “saggi” del Consiglio economico tedesco si siano espressi nel modo che abbiamo visto contro ogni ipotesi di aiuto creditizio incondizionato all’Italia ed agli altri Paesi euromediterranei in crisi di liquidità nel fronteggiare la pandemia da coronavirus. Essi sono nati e si sono formati nel clima spirituale e culturale luterano che costituisce l’identità nazionale profonda della Germania. Per essi l’alto debito pubblico dell’Italia è il segno della immoralità degli italiani, della tendenza a vivere al di sopra delle loro possibilità, del furbesco pressapochismo mediterraneo, della loro scarsa produttività per mancanza di rigore professionale e di voglia di lavorare. A nulla serve ricordare ai “saggi” che l’epidemia di coronavirus ha colpito maggiormente la Lombardia ed il Veneto ossia le regioni più produttive dell’Italia, la cui attitudine alla laboriosità si deve alla spiritualità ed alla moralità sociale infusa nella popolazione prima, nel medioevo, dai benedettini e poi, ai tempi della Riforma Cattolica Tridentina, dalla predicazione popolare di grandi santi ad iniziare da Carlo Borromeo. Niente da fare: gli italiani non sfuggono, neanche per i membri del “Gran Consiglio” germanico, al cliché che li vuole per forza canore e chiassose cicale parassite che vorrebbero scaricare sulle parsimoniose formiche tedesche i debiti accumulati per fare la “bella vita” senza lavorare.
Gli italiani e gli euromediterranei, nel retroterra mentale dei “saggi” del Consiglio economico tedesco, sono predestinati alla dannazione economica mentre i tedeschi e gli europei del nord – nel club vengono tuttavia ammessi anche i francesi emendatisi del cattolicesimo grazie all’illuminismo –, così produttivi, così austeri e risparmiatori, così attenti a non fare spese eccessive, sono i predestinati alla salvezza. Una predestinazione che, dietro le apparenze meramente politiche del pur aggressivo mercantilismo tedesco, svela il persistere di un neanche tanto vago suprematismo razzista che si rivela nella rivendicazione del primato tedesco nell’eurozona e nella Ue nei termini dell’egemonia economica sugli altri popoli europei sotto forma di surplus commerciale (conseguito però grazie ad una moneta unica che, meno pesante del vecchio marco ma più pesante della vecchia lira e senza più il rischio del cambio, ha avvantaggiato le esportazioni tedesche e compresso le nostre). Questo sotteso spirito egemonico si evince facilmente nel fatto che tutti i posti chiave dell’architettura istituzionale e finanziaria tra Bruxelles e Francoforte sono in mano ai tedeschi o a loro stretti alleati come i francesi, gli olandesi o gli Stati baltici.
Pur sforzandosi di tapparsi le orecchie, come fanno i nostri euro-italioti, è difficile se non impossibile non sentire, come Paolo Savona, riecheggiare ancora oggi il prussiano “Gött mit uns” all’insegna di uno sbandierato “destino manifesto” tedesco intorno al quale si è formato il nazionalismo germanico grazie alla rottura luterana dell’unità universalistica della Cristianità romana medioevale. Per i tedeschi, anche se non vestono più la divisa della Gestapo, la Germania è ancora “über alles”.
Al momento della fine della prima guerra mondiale, le potenze vincitrici imposero alla Germania riparazioni di guerra tanto ingenti che essa sprofondò in una grave crisi economica. John Maynard Keynes, all’epoca membro della delegazione inglese a Versailles durante le trattative, abbandonò i lavori diplomatici protestando contro la cecità dei suoi connazionali e dei francesi e denunciandone successivamente il bieco spirito di vendetta in un’opera rimasta famosa “Le conseguenze economiche della pace”. Tuttavia Hitler prese il potere non per le conseguenze dell’inflazione del 1920, provocate dalle riparazioni di guerra imposte alla Germania, ma per quelle della deflazione del 1930, che provocò sei milioni di disoccupati, seguita al grande crollo borsistico americano del 1929. Ma senza dubbio lo spirito di vendetta franco-inglese dell’immediato primo dopoguerra alimentò il revanscismo tedesco che si nutrì, non a torto, dell’evidenza punitiva del comportamento dei vincitori contro una Germania che si era arresa con gli eserciti ancora fuori dei propri confini nazionali. Il revanscismo aiutò il nazismo ad imporsi.
Imparata la lezione, nel secondo dopoguerra, gli angloamericani, per evitare che l’intera Germania finisse nell’orbita sovietica dopo che la metà orientale aveva seguito quella sorte, non si fecero condizionare dal rinato spirito di vendetta di Morghentau, già consigliere di Roosevelt, il quale suggeriva di ridurla ad un Paese agricolo, privandola di tutte le infrastrutture industriali, ma pensarono bene di rimettere ai tedeschi occidentali non solo il debito della prima guerra mondiale, non ancora del tutto onorato, ma anche quello maturato per le riparazioni del secondo conflitto mondiale. Questo atto “misericordioso”, le cui finalità immediate erano senza dubbio geopolitiche, consentì alla Germania dell’Ovest non solo la ricostruzione postbellica ma anche quella ripresa economica che l’avrebbe annoverata tra le prime economie del mondo e l’avrebbe portata a primeggiare in Europa.
Certamente gli angloamericani non intendevano applicare l’etica giubilare, le loro finalità come detto furono politiche, e tuttavia è innegabile che, involontariamente, si trattò di una remissione dei debiti come quella che viene chiesta nella preghiera sacerdotale del “Padre nostro”. Una remissione che ebbe i suoi effetti positivi pacificando gli antichi nemici ed avviando non solo la Germania ma l’intera Europa verso migliori assetti socio-economici. I governanti tedeschi dell’epoca giurarono che mai, neanche in futuro, la Germania avrebbe dimenticato l’aiuto in quell’occasione ricevuto dai vincitori. Eppure, passata qualche generazione e diventata ricca, la Germania non ha esitato, per salvare le proprie banche che avevano indebitato i greci onde consentire loro di acquistare i prodotti di esportazione tedeschi, a sottoporre, dietro il paravento eurocratico, la Grecia al trattamento che invece le fu risparmiato all’indomani della seconda guerra mondiale.
Sinceramente, memori della Sapienza evangelica, temiamo per la Germania e ci permettiamo di consigliare ai suoi “saggi” la rilettura di questo passo del Vangelo di Matteo:
«… il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello» (Mt. 18, 21-35).
La Germania di oggi è come il servo, di un’altra parabola (Mt. 24,48-51), al quale fu data la consegna di provvedere ai suoi compagni e che, invece, iniziò ad angariarli visto l’apparente ritardo del suo Dominus. Sappiano, però, i tedeschi che, come da Lui promesso, il Padrone non tarderà a tornare e che la sorte riservata ai servi malvagi è quella di essere esiliati là dove “sarà pianto e stridore di denti”. Chi ha orecchi per intendere intenda.
Luigi Copertino