di Roberto Marchesini
Il 2018 è finito e ha portato con sé alcuni anniversari tra i quali i cent’anni della fine della Prima Guerra Mondiale e i cinquant’anni del Sessantotto.
Entrambi gli anniversari, a dire la verità, mi hanno lasciato piuttosto interdetto.
Lo zombie della sinistra, ad esempio, forse per la prima volta da quando ne ho memoria, ha tentato la celebrazione della fine della «inutile strage» dopo anni di pacifismo, internazionalismo e d insulti alle forze armate durante la parata del 4 novembre. Basti citare il discorso del giovane sindaco PD del mio paese che, dopo aver declamato la lettera di un volontario, ha proseguito con queste parole: «[…] la Grande Guerra coinvolse anche indirettamente l’intera popolazione italiana, donne e bambini compresi: dopo il 1915 era infatti necessario sostenere la guerra economicamente ed ideologicamente e impedire la diffusione del disfattismo e delle posizioni pacifiste. […] Ma cosa ne è oggi di questa festa? La nostra società arida e disperata è ancora in grado di scaldare il proprio cuore per il senso di Patria? […] Con questo spirito abbiamo 4 lanciato anche quest’anno la richiesta di appendere il tricolore – simbolo della nostra identità nazionale – ai balconi!». Anche il nazionalismo vien buono, pur di «sbarrare il passo alla marea montante del populismo».
Non meno perplessità ha suscitato in me la rievocazione del Sessantotto. Ricordo il quarantesimo anniversario, celebrato con orgoglio sui media da vari esponenti dell’intelligentsia italiana. Dove sono spariti tutti, dieci anni dopo? Gli unici a ricordare l’annus terribilis sono stati gli esponenti del «tradizionalismo» che hanno dato dell’evento una lettura stantia e piuttosto inutile. Mediante la ripetizione di schemi mentali – ormai, per la verità, piuttosto logori – hanno descritto quel fenomeno come la conseguenza meccanica e necessaria di un processo culturale rivoluzionario associandolo al progressismo, al PCI, alla «sinistra». Un contagio culturale avrebbe travolto spontaneamente l’occidente, dagli USA all’Italia.
Una lettura utile decenni fa quando, in piena Guerra Fredda, un po’ di manicheismo aveva anche ragion d’essere; ma oggi?
Scorrendo i fatti, ad esempio, ci si rende conto che il Sessantotto – agitazioni studentesche di carattere violento, che ebbero ripercussioni politiche e che furono accompagnate dalla rivoluzione sessuale, dalla diffusione dell’uso di droghe e da un certo tipo di musica – partì, in Europa, nei paesi governati dal socialismo sovietico (Polonia e Cecoslovacchia). Come si spiega?
E come si spiega che questo fenomeno contagiò (spontaneamente?) il resto dell’Europa nonostante la rigida barriera ideologica rappresentata dalla «cortina di ferro»? Che mezzi avrebbe usato il «contagio culturale spontaneo», visto che quelli culturali gli erano preclusi?
E come si spiega che il Regno Unito non ebbe un Sessantotto? Certo, conobbe la decadenza dei costumi; certo, ci fu Mary Quant e la sua minigonna. La quale fece fallire certamente diversi matrimoni, ma… quanti governi?
E poi, sinceramente: davvero il Sessantotto fu un fenomeno «sovietico»? I capelli lunghi sono stati importati dalla Russia, o piuttosto dagli USA? La colonna sonora del Sessantotto fu la musica folk o i cori russi? L’Eskimo non è forse la giacca usata dall’esercito statunitense durante la guerra di Corea? E la comparsa dei marchi commerciali sui capi d’abbigliamento (prima vietati per decenza)? Le Clarks e i Jeans da dove arrivano? «Vietato vietare» è uno slogan sovietico o, piuttosto, liberista?
Infine: non è forse vero che la Russia sovietica e i partiti comunisti europei furono il bersaglio e il nemico dei sessantottini? In Polonia e in Cecoslovacchia il Sessantotto causò diversi problemi ai rispettivi regimi sovietici; in Francia durò solo un mese grazie all’alleanza tra De Gaulle (avvicinatosi alla Russia e ritrattosi dalla NATO) e il PCUS; in Germania (dove vide protagonisti gli intellettuali della Scuola di Francoforte giunti dagli USA) portò al potere il doppio agente (Stasi e CIA) Willy Brandt… E in Italia? Basti rileggersi la Poesia di Pasolini dedicata agli scontri di Valle Giulia («Mi dispiace. La polemica contro il Pci andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, cari»), o ricordare chi si prese i primi sampietrini per capire il rapporto tra il Sessantotto e il PCI. Oppure riflettere sulle conseguenze del Sessantotto sulla politica italiana. Nacque in quell’anno l’alternativa «a sinistra» del PCI: una sinistra che guardava agli USA e non alla Russia, liberista e non sovietica, aggressiva solo contro le leggi morali e religiose. Nacque il lettore di Repubblica, che non aveva voluto essere il lettore de Il Mondo o de L’Espresso; e cominciò a morire il lettore de L’Unità.
Insomma: la faccenda Sessantotto è più complessa di come viene raccontata e ricordata. Per fortuna, in questo strano anniversario, è stato pubblicato anche un libro che da ragione di questa complessità. Si tratta de Il Sessantotto. Magie, Veleni & Incantesimi SPA (Solfanelli, Chieti) di Danilo Fabbroni. Un’opera che dà ragione di questa complessità riportando una mole immensa di notizie, nomi e fatti che amplifica a dismisura l’orizzonte del Sessantotto. Non si tratta di un libro complottista: non nomina (né allude ad) alcun «grande vecchio» e, a dir la verità, non parla nemmeno di complotti. Piuttosto, fissa su carta una serie di puntini, lasciando al lettore la facoltà di unirli per far emergere un disegno. Non è quindi, un libro di facile lettura. Tuttavia aiuta a comprendere la complessità e la vastità della realtà sociale e politica nella quale siamo immersi e, di conseguenza, ad evitare manicheismi e semplificazioni eccessive.
Al seguente link si può assistere alla presentazione che Danilo Fabbroni ha tenuto presso la Domus Orobica: https://www.youtube.com/watch?v=hPVAV6-oUwU&t=112s
Roberto Marchesini