di Paolo Becchi e Giuseppe Palma su Libero, 06/07/2018
Correva l’anno 1992. Per debellare una classe politica un po’ corrotta ma capace, i poteri sovranazionali pensarono di scatenarle addosso una parte della nostra magistratura. I partiti di governo furono letteralmente spazzati via dalla scena politica nel giro di appena un anno e mezzo.
L’obiettivo era quello di consentire ai post-comunisti di andare al governo del Paese. Dopo la caduta del muro di Berlino (1989) il Pci doveva individuare una dimensione politico-internazionale ove collocarsi, e la trovò nella nascitura Unione europea. Il progetto prevedeva un percorso di continue limitazioni di sovranità nazionale che, per potersi realizzare aveva bisogno di una classe politica che se ne facesse carico. Gli uomini della Prima Repubblica, che pur firmarono il Trattato di Maastricht, avrebbero fatto resistenza quantomeno all’ingresso dell’Italia nell’eurozona. Bisognava dunque spazzarli via. E così fu.
Ma il diavolo fa le pentole, non i coperchi. La gioiosa «macchina da guerra» di Occhetto, che oggi tesse le lodi del «+Europa» della Bonino, si schiantò contro la macchina commerciale di Berlusconi, che sin dai primi segnali mostrò insofferenza all’entrata dell’Italia nella moneta unica, quantomeno nella prima fase. Il Cavaliere doveva essere messo in ginocchio. Ed ecco che gli si scatenò contro il più feroce e continuativo attacco giudiziario dell’intera storia del nostro Paese. Vent’anni di processi, avvisi di garanzia durante i summit mondiali e telecamere tra le lenzuola. Berlusconi ha reagito, anche perché economicamente ha potuto permettersi di pagare decenni di spese legali, ma alla fine ha dovuto cedere pure lui dopo il Colpo di Stato del 2011.
Poi se anni di incondizionata sudditanza all’Ue con la magistratura rossa impegnata a portare a termine la distruzione di Silvio. Punto e a capo.
STESSA STORIA
Oggi ci risiamo. Al governo non c’è più Berlusconi ma Salvini, leader della nuova Lega sovranista che terrorizza i tecnocrati di Bruxelles. I poteri forti devono in qualche modo “eliminarlo”. Ci hanno provato con il tentativo di dar vita ad un governo Cottarelli senza numeri in Parlamento, e ora ci riprovano con la Magistratura. Nel 2012 scoppiò lo scandalo dei fondi parlamentari utilizzati in malo modo dalla Lega gestita da Bossi e dal tesoriere Belsito. Le sentenze parlano di 49 milioni di euro da restituire allo Stato. Matteo Salvini è diventato per la prima volta Segretario della Lega nel dicembre 2013, e quindi è estraneo a questa vicenda. Ma i partiti politici sono associazioni non riconosciute e dei debiti ne rispondono secondo il principio dell’autonomia patrimoniale imperfetta.
In buona sostanza se gli imputati condannati non pagano, paga il partito coi suoi beni e i suoi fondi.
Nei giorni scorsi la Corte di Cassazione, depositando le motivazioni della sentenza, ha sancito il principio che lo Stato dovrà rincorrere ogni fonte che produca alla Lega-partito una qualsiasi tipologia di entrata, sino al soddisfacimento dell’intero maltolto. Un’affermazione di principio che risponde alla fallimentare logica della distruzione dell’avversario politico per via giudiziaria. In questo modo si mette in serie difficoltà non solo Salvini, ma soprattutto il secondo partito in termini di scranni parlamentari.
SENZA EQUITÀ
Si poteva seguire un approccio più ragionevole che prevedesse il pagamento del dovuto, ma allo stesso tempo la possibilità per il partito di continuare a contribuire alla vita democratica del Paese, garantendo in tal modo la funzione che la Costituzione attribuisce ai partiti politici. Il partito non è un’associazione qualunque, è il contenitore nel quale la Costituzione ha deposto la vita democratica della Nazione. La Corte di Cassazione non ha bilanciato gli interessi in gioco: da un lato l’obbligo di restituzione sancito in una sentenza, dall’altro il diritto costituzionale della Lega di avere gli strumenti idonei per poter «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (l’art. 49 della Costituzione). Questo bilanciamento la Suprema Corte non lo ha fatto. Ma Salvini non se ne cura: «È evidente che c’è qualche giudice che fa politica, ma non esiste un disegno generale. Noi siamo tranquillissimi», ha dichiarato. La Lega non si fermerà, così come l’uso politico della giustizia non ha più sul popolo la stessa forza emotiva del passato. Sono finiti i tempi di Mani pulite.
Ma occorrerà intervenire con una riforma che vieti ai magistrati di rindossare la toga dopo una qualsiasi esperienza politica. Passerà ad alcuni di loro la voglia di fare i fenomeni.