di Roberto PECCHIOLI
Secondo Aristotele, “il maestro di color che sanno “, l’uomo è un’animale politico, un essere ragionevole portato dalla sua natura a vivere in una dimensione comunitaria, creare delle società, rintracciare principi generali a cui conformare le sue azioni. E’ quindi anche un essere morale. L’Occidente moderno ha ripudiato il gigante di Stagira, inventando l’homo oeconomicus, l’uomo a una dimensione teso unicamente all’utile immediato, che vive l’esistenza come scambio di beni e servizi regolati dall’interesse e da un motivatore universale chiamato denaro. Ciò dissolve la comunità, che si forma e sviluppa al di fuori e spesso contro i rapporti economici, ma disgrega altresì la società, ossia il contratto iniziale per cui l’uomo vive con i suoi simili all’interno di un sistema di principi, valori, limiti, regole.
L’homo oeconomicus non conosce alcuna morale diversa dall’utilità e dal tornaconto espresso in denaro. Suoi maestri furono Bernard de Mandeville, l’anglo olandese di inizio XVIII secolo autore della Favola delle Api, bizzarro apologo di una società in cui i vizi sono accolti come pubbliche virtù se consentono guadagno e arricchimento e Jeremy Bentham, l’inglese contemporaneo di Smith e Ricardo per il quale l’utile è il solo movente umano, inventore del Panopticon, il sistema di sorveglianza centralizzato alla base della disciplina nelle nascenti fabbriche-carceri manchesteriane.
La naturale socialità dell’uomo viene ristretta allo scambio mercantile. L’universo morale di Adam Smith si riduce alla celebre frase “non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse.” Il sistema che questi uomini hanno teorizzato è divenuto sinistra realtà. Si chiama società di mercato, in cui l’intera esperienza umana è incorporata, incatenata nella distopia dell’homo oeconomicus. Un modello matematico assai popolare presso gli economisti spiega il sistema meglio di interi libri, le equazioni di Lotka- Volterra che descrivono la dinamica di un sistema in cui interagiscono soltanto due specie: i predatori- mercati, e la prede, tutti noi.
C’è bisogno di una insorgenza contro tale modello disumano per ricostruire un’antropologia di segno opposto. Da circa dieci anni, in concomitanza con i fallimenti epocali del modello liberista finanziario innescati dalla crisi del 2007/2008, si tenta di alimentare un contromovimento. La resistenza manca di una rivolta ideale complessiva, di un nucleo morale e di una ideologia pratica da opporre all’onda liberal globalista. Si stanno tuttavia espandendo idee, valori, principi a cui viene attribuito il nome di populismo e di sovranismo con connotazioni dispregiative, poiché il potere sui significati è in mano all’avversario.
Il sovranismo muove da un nucleo di pensiero semplice ma dirompente: la rivendicazione della superiorità della dimensione politica su quella economica, dell’interesse pubblico su quello privato. Individua in una specifica istituzione, lo Stato nazionale, lo strumento più adatto per reagire alla disgregazione sociale, alla disumanizzazione, al comando impersonale della ragione economica e finanziaria.
Sovranismo e populismo sono dunque strutturalmente avversi al liberismo. Li possiamo considerare come l’espressione contemporanea di un fenomeno ciclico definito da alcuni “momento Polanyi”, la reazione della società, delle comunità, dei popoli e degli Stati al predominio asfissiante del mercato cosiddetto “autoregolato”, diretto in realtà da immensi oligopoli capitalistici transnazionali. Karl Polanyi è l’autore di uno dei saggi più importanti della prima metà del secolo, La grande trasformazione (1944), la cui influenza ha attraversato più aree culturali e politiche. Ungherese di nascita, ebreo formatosi nell’atmosfera ribollente della Vienna di fine impero e degli anni Venti, fu il fondatore di una disciplina, l’antropologia economica, che, da posizioni non marxiste, lo pose in totale conflitto con il liberalismo, di cui era profondo conoscitore per le dispute viennesi con Von Mises e Von Hajek.
La base del pensiero di Polanyi è che la grande trasformazione, il nuovo portato dal capitalismo, l’“utopia liberale” è la tendenza irresistibile alla mercificazione di ogni relazione, ed il mercato, autoregolato in ossequio alle idee di Smith e di David Ricardo, i classici ed i neoclassici suoi contemporanei, è il fine e insieme il mezzo per subordinare l’intera vita sociale alla logica dell’accumulazione. Una gigantesca operazione di ingegneria, di riconfigurazione del pensiero umano al servizio di un’oligarchia orientata al dominio. L’ipotesi, o momento Polanyi è che ciclicamente la società si rivolti, reagisca contro l’utopia liberale fattasi distopia realizzata, incubo, in nome delle enormi ferite sociali – noi aggiungiamo morali- inferte a popoli, persone, generazioni.
Oggi è entrata in crisi la globalizzazione nella forma della privatizzazione del mondo, della decostruzione degli Stati, dello smantellamento delle protezioni sociali, ma anche dell’attacco contro ogni principio etico, spirituale, civile dei popoli frutto della concezione aristotelica ereditata dal pensiero cristiano, dell’uomo come essere socievole governato dalla legge naturale.
Dalla fine del Settecento, l’introduzione di nuove tecnologie capaci di accrescere enormemente la produttività delle economie permise l’abbandono dei controlli statali propri della precedente epoca mercantilista, dando vita all’ideologia del mercato autoregolato. Per Polanyi, lo strumento di tale operazione fu la trasformazione in merce del denaro, della natura e del lavoro umano. Questo portò alla costruzione di un mercato comprendente lavoro, terra, moneta, un esperimento unico nella storia umana, dai costi sociali enormi. Le conseguenze costrinsero i governi a iniziare la marcia indietro verso mercati regolati attorno alla metà del XIX secolo (primo momento), culminati con l’avvento del welfare state a seguito della grande crisi del 1929 (secondo momento).
La tesi di Polanyi era che le economie preindustriali si basavano sull’interazione tra l’uomo, la natura, la sua cultura. L’economia era una parte del tutto, inclusa, incorporata nell’esperienza complessiva della civiltà. La grande trasformazione è l’esito del rovesciamento di quell’equilibrio, con la conseguente egemonia della ragione economica. Polanyi chiama utopia il mercato autoregolato (in termini ricardiani “perfetto”, unico, grande quanto il pianeta) in quanto il suo esito è l’annullamento dell’essenza stessa della società. La marcia non si è arrestata, la violenza del sistema si è abbattuta su Stati, nazioni, esseri umani senza alcun riguardo o freno.
La crisi del 2008 dischiude l’opportunità di animare la reazione di un’umanità espropriata e ridotta a merce nelle mani di una cupola criminale negli intenti, negli atti, negli obiettivi. Si impone un terzo “momento Polanyi”, in cui il sovranismo e il populismo diventino soggetti attivi per lo sviluppo di grandi movimenti sociali. I rischi sono grandi, giacché, come insegnava Antonio Gramsci, la crisi consiste nel fatto che il vecchio muore, ma il nuovo non si afferma e in questo interregno si verificano i più svariati fenomeni morbosi. Morboso per il marxista Gramsci è qualsiasi movimento che non abbia il suo sbocco in una società collettivista. Al contrario, noi oggi assistiamo al desiderio dei popoli di riavere un’identità. Non è solo il dissenso economico a gonfiare le vele populiste.
Parte della comunità si sente ferita per motivi più profondi dell’esclusione economica. Il mercato misura di tutto è per vocazione cosmopolita, indifferente ai principi spirituali. Nega ogni appartenenza, spezza qualunque legame comunitario, disprezza ogni relazione non basata sullo scambio misurabile in denaro, riconosce il prezzo ma ignora il valore. Il “momento Polanyi” del XXI secolo monopolista e tecnocratico dovrà tendere ad una riumanizzazione integrale. Il principio unificante di un vasto fronte d’opinione è il rifiuto del mercato sovrano e della privatizzazione del mondo. A nulla valgono le idee timide di chi si limita a deplorare le conseguenze senza combattere le cause.
Serve una visione alternativa all’individualismo economico che identifichi la democrazia come prevalenza dei diritti delle comunità e restituisca significato ai bisogni rispetto all’opaco principio di piacere, orizzonte di un sistema che vende desideri soggettivi, diffonde precarietà esistenziale e destituisce ogni anelito etico, comunitario, spirituale. Il fronte deve essere vasto, articolato, differenziato. Il “momento Polanyi” vive di fasi; la presente è quella costitutiva, in cui si procede per negazioni, si individua il nemico, la distopia liberista del mercato globale. L’ipotesi sovranista è probabilmente la risposta più organica, ma non può esservi preclusione nei confronti di istanze identitarie, solidariste, ambientaliste, socialiste non marxiste.
In questo senso la lezione di Karl Polanyi può costituire un punto di incontro, a partire dalla storicizzazione del liberismo. Il capitalismo finanziario padrone di tutto non è un fenomeno naturale, un’evidenza esistenziale alla quale rassegnarsi, ma un impianto ideologico orientato a una precisa visione del mondo. Oggi si fa legge, diritto positivo (non a caso ha screditato ogni teoria giuridica fondata sull’esistenza di leggi naturali) improntando gli ordinamenti costituzionali degli Stati, superandoli con la prevalenza dei trattati, degli accordi e delle organizzazioni transnazionali: è l’ordoliberismo a cui non ci si può opporre se non attraverso una rottura radicale, tesa a smascherare la riduzione della democrazia a procedura, luogo di ratifica di decisioni assunte altrove.
Polanyi fu un convinto antifascista, fedele all’interpretazione dei fascismi come degenerazione difensiva del capitalismo. Tuttavia un brano della sua “Essenza del fascismo” consente interessanti riflessioni: “Dopo l’abolizione della sfera politica democratica resta solo la vita economica; il capitalismo organizzato (…) diventa l’intera società. Questa è la soluzione fascista.“ Depurata dall’ultima proposizione, sbagliata e ingenerosa nei confronti di un’idea che enfatizzava invece la dimensione spirituale e comunitaria dell’uomo, diffidava della riduzione mercatista innalzando il ruolo dello Stato e il valore etico del lavoro, si tratta della precisa descrizione della fase neoliberista che stiamo vivendo. Il capitalismo, attraverso la mercificazione di tutto, la riduzione a prodotti muniti di cartellino del prezzo, la privatizzazione totale dei mezzi di produzione e dei beni comuni, la fine dello Stato sociale, l’omologazione di gusti e identità, dissolve la società in una fusione per incorporazione: un temibile totalitarismo dal quale proteggerci.
Centro della Grande Trasformazione è il capovolgimento dell’idea liberale secondo cui la società di mercato costituisce un approdo “naturale” delle società umane. L’estrema artificiosità di un sistema in cui l’economia è sottratta al controllo sociale, celata dalle giustificazioni dell’economia politica classica, diventa evidente nei momenti di passaggio. La società di mercato è un interminabile caso patologico della storia, una lunga eccezione destinata a chiudersi con una crisi violenta. Il mercato autoregolato è un’istituzione che annulla la sostanza naturale della società, fino a distruggere l’uomo e il suo ambiente: un’aberrazione. Un meccanismo controllato, regolato e diretto solamente dai mercati, tendenti a diventare il luogo di formazione di ferrei monopoli privati; un mondo che si regge sull’aspettativa che gli esseri umani si comportino in modo da raggiungere il massimo guadagno monetario, in cui anche il lavoro, la terra e la moneta formano oggetto di mercato e tutto ha un prezzo gli appare come una costruzione utopica in contrasto con la natura umana.
Il bersaglio di Polanyi è la pretesa di trasformare un’ideologia economica in una categoria naturale universale, mettere il mondo alla rovescia, attraverso il “fanatismo” e il “fervore ideologico” degli economisti liberali. Il suo capovolgimento della razionalità naturale del pensiero liberale, la sua riduzione a utopia negativa avviene sulla base di una concezione della natura umana non individualistica, ma sociale, politica in senso aristotelico. Il mondo ridotto a mercato è percorso “da una veloce corrente di mutamento che inghiotte il passato senza neanche incresparsi alla superficie”. Seguendo Max Weber di Economia e società, egli evidenzia altresì il contrasto tra l’orientamento tradizionale e quello razionale in economia, per cui, in nome della presunta scienza economica,” la compassione fu allontanata dai cuori e una stoica determinazione di rinunzia alla solidarietà umana in nome della massima felicità per il numero massimo di persone acquistò la dignità di una religione secolare” (l’etica “more utilitario demonstrata” di Bentham).
Molto efficace è l’analisi del ruolo dell’alta finanza nella costruzione della società di mercato, le sue relazioni riservate con le banche centrali e commerciali, l’influenza sui governi e sulla diplomazia internazionale. Illuminante è lo spietato ritratto della famiglia Rothschild. Polanyi fu forse il primo studioso a comprendere la decisiva influenza dell’emissione monetaria. In un’analisi di cui possiamo rilevare sorprendenti analogie con il presente, egli pose al centro della crisi economica che scosse l’Europa tra la fine del XIX e l’inizio del XX, prodromo della guerra mondiale, il crollo improvviso del sistema monetario a base aurea, fondato cioè sulla convertibilità in oro del denaro cartaceo.
“Quasi nessuno capiva l’importanza la funzione politica del sistema monetario internazionale”, osservò, aggiungendo che per gli economisti liberali la base aurea era un’istituzione esclusivamente economica, di cui rifiutavano di riconoscere la natura di meccanismo sociale. Dopo il massacro del 1914/1918, una nuova drammatica crisi si abbatté sul mondo, e la sua origine, una volta di più, andava ricercata nei meccanismi imposti dall’adesione al vangelo liberale. “La classe media era impoverita, i pescicani della finanza accumulavano fortune rivoltanti. Entrava in scena un altro fattore sconosciuto, la fuga dei capitali, e la moneta diveniva il cardine della politica nazionale.” Non vi è chi non veda le analogie con il nostro tempo, la prova che le crisi sono un elemento interno al sistema, non la sua patologia.
Il sistema finanziario ha preso le sue contromisure. Più abile di tutti gli altri attori politici, culturali ed economici, è riuscito a concentrare nelle sue mani il potere, privatizzando l’emissione monetaria. E’ come se la proprietà del sangue che scorre nel nostro organismo fosse di qualcun altro, dotato del potere di sottrarcelo a piacimento, e ci avesse convinto che la circolazione corporea deve essere determinata dalle sue decisioni: è il monetarismo, dogma della scarsità, l’ideologia delle banche centrali e dei mercati finanziari. Polanyi sembra comprenderlo con grande lucidità allorché parla di una sorta di governo economico mondiale pensato dopo il 1918: “l’unica alternativa era l’istituzione di un ordine internazionale dotato di un potere organizzato che avrebbe trasceso la sovranità nazionale “. Va ricordato che il pensatore ungherese scriveva oltre settant’anni fa e si riferiva alla situazione successiva al primo conflitto mondiale. Gli anni dal 1920 al 1939- inizio della guerra del sangue contro l’oro – sarebbero divenuti il periodo del contro movimento avverso all’ideologia e alla prassi neoliberale.
Se accettiamo, pur contestualizzata storicamente, la validità dello schema della Grande Trasformazione, dobbiamo affermare che viviamo uno snodo decisivo per un nuovo “momento Polanyi”. In tale ottica emerge il valore della proposta sovranista all’interno di un ampio schieramento di oppositori del mercatismo monopolista. Il sovranismo non si limita a rivendicare il ruolo centrale dello Stato – e di istituzioni pubbliche come enti territoriali, libere federazioni, confederazioni – e a contrastare la prassi liberista in campo finanziario, giuridico, tecnologico. Lavora per recuperare la dimensione comunitaria, identitaria e spirituale dei popoli non meno che per riportare nelle mani dei popoli la sovranità economica e finanziaria sequestrata dall’ordoliberismo, strangolata dalla privatizzazione dello strumento monetario a favore del sistema delle banche centrali, braccio secolare dell’alta finanza.
In Italia una prima proposta riguarda la possibilità di fondare una banca pubblica, riconosciuta dall’art. 123 del Trattato di Funzionamento dell’UE, un istituto a cui la Banca Centrale Europea ha l’obbligo di fornire moneta alle medesime condizioni delle banche centrali nazionali, privatizzate e indipendenti in base al Trattato di Maastricht. Un’ulteriore progetto sovranista tende a restituire alla costituzione nazionale il primato su ogni altra fonte del diritto, attivando meccanismi di controllo di costituzionalità delle norme dell’Unione (direttive e regolamenti) e dei trattati internazionali. Occorre altresì sottrarre agli appetiti speculativi alcuni beni comuni, a cominciare dall’acqua e dalle reti di telecomunicazione, patrimonio indisponibile della nazione sotto il diretto controllo dello Stato.
Il campo di battaglia è immenso, l’avversario potente. Non siamo tuttavia disarmati culturalmente o privi di idee. Conta riconoscere il carattere ciclico e sistemico delle crisi interne che il liberismo globalista alimenta e di cui approfitta per completare la sua opera di spossessamento dei beni e poteri pubblici e spoliazione di imprese e cittadini. Siamo percorrendo un tornante complesso di un’ulteriore grande trasformazione. Per difenderci, serve l’apporto di idee nuove ma è altrettanto importante riconoscere il valore di esperienze del passato. Cogliere il “momento Polanyi” per sconfiggere la distopia mercatista, riumanizzare il mondo, rovesciare un tavolo di cui i predatori non ci lasciano che miseri avanzi.
ROBERTO PECCHIOLI