IL WOKE E’ FINITO MA NON C’E’ NULLA DA FESTEGGIARE – di Valerio Savioli

Il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump ha monopolizzato l’intera narrazione Occidentale. Ad oggi, sebbene in fase di evidente difficoltà, gli Stati Uniti rappresentano ancora la principale superpotenza planetaria e il loro impatto è tuttora innegabile sotto ogni profilo: economico, culturale, militare e tecnologico.

Il declino del cosiddetto unipolarismo, ossia quella fase di predominio globale a matrice statunitense inauguratosi con il suicidio dell’Unione Sovietica e la sua conseguente dissoluzione, è un argomento di dibattito che ha preso vigore negli ultimi anni anche grazie all’emersione di nuovi e ambiziosi attori sullo scenario internazionale: la storia, infatti, non era per nulla finita, purtroppo per l’arcicitato Francis Fukuyama e relativi discepoli.

Quando si sarebbe potuto pensare che solamente gli animal spirits del neoliberismo, eredi dei ruggenti anni Ottanta, ammaliati da un orizzonte sconfinato, materiale e immateriale da depredare, avrebbero potuto partorire la fine di quell’imponderabile processo di eventi noto anche come “storia”, ecco che puntuale assistemmo alla comparsa dell’estroflessione geopolitica di questa visione del mondo, ossia quella neoconservatrice che individuava la necessità dell’avvento messianico del “Nuovo Secolo americano”.

Effettivamente, per qualche anno sembrava non ci fosse alternativa all’assioma a una moralmente doverosa espansione della democrazia, alimentata dall’ambivalenza del concetto di terrorismo e ammantata dal pretesto ipocritamente umanitario dei diritti umani. Su questo principio vennero legittimate guerre devastanti il cui fine ultimo sarebbe stato quello di portare, grazie all’esportazione della liberal-democrazia, giustizia e prosperità.

Com’è noto, nulla andò come pubblicamente propagandato, sebbene i benefici del comparto militare industriale (e politico-finanziario) furono evidenti.

A distanza di una manciata di anni la fuga dall’Afghanistan prima, utilizzata come poligono personale occidentale per vent’anni e la crisi in Ucraina poi hanno contribuito a rafforzare negli attori emergenti del panorama internazionale la convinzione che gli Stati Uniti stessero cedendo il proprio primato di superpotenza egemone e che la storia avesse cominciato nuovamente a correre.

Le ragioni del declino americano sono state individuate su due livelli: endogeno in virtù dell’evidente crisi di identità americana, frattura interna che vede contrapporsi visioni della nazione sempre più inconciliabili tra loro, ed esogena a causa di una sovraestensione che ha obbligato gli stessi Stati Uniti ad esercitare, adeguandolo, lo sforzo internazionalista di fine secolo attraverso un impegno indiretto, sostenendo lo sforzo di determinati attori regionali (proxy wars).

Il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump va letto in una cornice che tenga ben presente il dipanarsi del ruolo degli Stati Uniti nel mondo negli ultimi decenni: le dottrine internazionaliste, tipicamente riconducibili alle ultime amministrazioni democratiche lasciano il posto ad America First e Maga, dottrine che corrispondono principalmente alle necessità strategiche cogenti ed immediate della superpotenza d’oltreoceano.

Sul piano geopolitico sarà necessario attenersi ai principi di America First, i cui cardini, abbeverandosi dalla scuola d Russel Mead vengono definiti come jacksoniani, si contraddistingueranno per una nuova ridefinizione realistica degli spazi (anche multiplanetari) e un recupero deciso e riattualizzante della dottrina Monroe il cui perno ruoterà attorno a un rafforzamento degli Stati Uniti entro le principali e prossime sfere di influenza geografica (Groenlandia, Canada, Messico e Panama), senza però mai retrocedere dagli interessi globali, sebbene ridefinendo il processo di globalizzazione (americanizzazione) e delegando gli sforzi ai clientes più affidabili.

Sul piano interno, invece, si è reso imprescindibile operare una netta inversione di marcia rispetto a quanto ha dominato il soft power americano, e quindi Occidentale, recente.

Siamo infatti convinti che l’entusiastica celebrazione della fine del (capitalismo) woke sia prematura e che manchi di una corretta identificazione del fenomeno.

Spesso e volentieri il woke (le cui radici originarie, soprattutto razziali, sono da rintracciare nella canzone di Lead Belly Scottsboro Boys: «I made this little song about down there. So I advise everybody, be a little careful. Best stay woke, keep their eyes open») viene inteso quasi esclusivamente come quel profluvio di imposizioni riconducibili all’universo, culturale e lobbistico, LGBTQ+ capace di condizionare l’intero mondo di Hollywood, passando per la pubblicità, arrivando a influenzare persino le imprese istituzionali (DEI) e private (ESG).

Quello che, per una serie di motivazioni e connivenze, viene omesso è che il woke è la coda lunga del cosiddetto «politicamente corretto», un processo, come lo conosciamo noi oggi, gemmato nelle accademie degli Stati Uniti e deflagrato grazie alla cultura sessantottina ma la cui origine sarebbe da rintracciare in epoche ancora più lontane che toccano l’Età dei Lumi, fino a lambire una determinata visione gnostica.

È nell’opera L’Uomo Residuo. Politicamente corretto. Cancel Culture. Morte dell’Europa (Cerchio editore. 2023) che abbiamo tentato non solo di ricostruire la genesi del politicamente corretto e le sue articolazioni storiche che ci hanno portato in dote la Cancel Culture e il woke ma in cui abbiamo tentato di delinearne gli scopi ultimi e sottaciuti, riconducibili a un vero e proprio stravolgimento antropologico e spirituale a cui abbiamo dato una definizione: Uomo Residuo.

La tracotanza insita in questo stravolgimento ha trovato ampi spazi al termine della Seconda guerra mondiale, specificatamente in Occidente dove l’utilizzo congiunto, e sapientemente guidato dal nuovo paradigma capitalista, gradualmente sempre più finanziario, con la partecipazione dell’intero vettore ideologico nascente del politicamente corretto e l’uso politico della psicanalisi ha fornito nuovi ed efficaci strumenti al crescente comparto della pubblicità e al suo uso commerciale e politico, come lucidamente esposto dal padre delle cosiddette public relations e nipote di Sigmund Freud, Edward Bernays.

L’Uomo Residuo è il risultato dei dogmi del dispositivo totalitario del politicamente corretto che, grazie al beneplacito dei grandi interessi finanziari e inverando le principali caratteristiche di una religione civile, ne impone un credo e una ritualistica sostenute dalle cornici ideologiche sia della Scuola di Francoforte che del post-liberalismo, basandosi sugli insindacabili pilastri di multiculturalismo, relativismo assolutistico, geopoliticamente corretto, scientismo e liberalizzazione edonistico-sessuale.

Il risultato è il passaggio dall’homo consumens dell’immediato dopoguerra e del “miracolo economico”, in cui la classe media del capitalismo produttivista ricopriva un senso anche geopolitico, all’Uomo Residuo, inteso come fine (da intendersi teleologicamente) della storia: il capitalismo post-produttivista che esordisce in coincidenza con la fase neoliberista (primi anni Settanta), in cui si assiste al graduale retrocedere del primato della politica nei confronti di quello economico, necessita di una nuova forma di terminale umano in cui individualismo, edonismo e relativismo sono perfetti ingredienti anche per un sistema politico che per procedere agli stessi interessi finanziari sovranazionali, tramite sapienti escamotage ideologici e colpevolizzanti, ne ha svilito le principali caratteristiche maschili, gradualmente ridefinendole e mettendole in competizione con l’altra metà del cielo (il sesso femminile) con lo scopo di ottenerne un solo, unico e innocuo genere, quello neutro e privo di qualsivoglia capacità e contezza ontologica. In seguito, ha destrutturato l’istituzione famigliare e smontato il concetto di autorità, favorito l’immigrazione, intesa principalmente ad abbassare il costo del lavoro e portato il relativismo ad intoccabile categoria assolutistica, sapientemente declinata nell’unica rivendicazione possibile: quella degli sconfinati diritti civili, ottenendo la parcellizzazione conflittuale della società ad uso e consumo dei dispositivi di controllo vigenti (capitalismo della sorveglianza).

Ma, come abbiamo detto, la fine della storia si rivelò essere una favola per illusi dal portafoglio rigonfio e il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca dimostra plasticamente la necessità di cambio di regime che non tralasci l’aspetto antropologico.

L’Uomo Residuo, infatti, non è proliferato solo in Europa, patria definitiva del post-storicismo, dell’assenza di qualsivoglia proiezione strategica imbevuta dall’ultimo orizzonte di un nichilismo di matrice prettamente occidentale ma ha cominciato a minare le fondamenta dello stesso impero a stelle e strisce: è infatti negli Stati Uniti che, attraverso un’inarrestabile tribalizzazione, si è assistito all’ormai inconciliabile scontro tra visioni del mondo diametralmente opposte e al depauperamento qualitativo della stessa classe dirigente, alla furia iconoclasta, alla migrazione interna culminata con la creazione degli one-color State, ossia di Stati in cui dalla contea all’ufficio del governatore si tingono di rosso repubblicano o blu democratico, minando la compattezza nazionale e avvicinandola a una nuova guerra civile. La crisi americana proviene anche dalla concezione che gli stessi americani hanno della loro medesima nazione: redimersi dalle colpe di un passato atavico ed oppressivo o riprendere le redini del Destino Manifesto? Espiare le colpe di un razzismo (rigorosamente bianco) sistemico e smontarne le basi sociali o realisticamente riprendere il timone della Nazione Indispensabile?

Le elezioni di novembre 2024, con la sapiente consapevolezza degli stessi apparati strategici nazionali, hanno dimostrato che gli Stati Uniti sono ancora, sebbene sempre più precariamente, in cima alla collina e o si pensano imperialisti o cessano di esistere e il ripiegamento dell’intero apparato oligarchico-finanziario non è (solamente) figlio di un riposizionamento opportunistico ma risponde a quelle necessità di interessi nazionali che prendono il nome di America First e Make America Great Again.

Ma quindi il woke è morto? Il woke, inteso come propaggine edonistica e liberalizzatrice dei costumi sessuali, è già pesantemente ridimensionato, il politicamente corretto, inteso come vettore apicale di tutti gli strumenti statunitensi che tendono a modellare antropologicamente il terminale umano necessario a perpetrare il modello economico e politico vigente è invece in piena forma.

È proprio nella variegata composizione di questa presidenza, capace di assommare gli interessi dell’America profonda e del suo forgotten man e le velleità sconfinate di un complesso tecnologico-finanziario-militare, che ritroviamo quello che potrebbe essere in nuce l’Uomo Residuo 2.0: il nuovo paradigma dominante, grazie alle rampanti innovazioni tecnologiche, avrà sempre meno bisogno del cosiddetto “esercito industriale di riserva”, è infatti in questa cornice che va inquadrata la lotta all’immigrazione clandestina della nuova amministrazione americana, nazione in cui, tra l’altro, la razza bianca rischia a breve di non essere più la maggioranza relativa, aspetto concreto ma sottaciuto per timore di essere etichettati come suprematisti, tuttavia spesso e volentieri accarezzato dal linguaggio (ipocritamente) magico degli esperti nostrani e non solo, i quali del woke hanno da tempo cominciato a temere l’eccesso che ne minerebbe la loro rendita di posizione.

Con tutta probabilità, il politicamente corretto assumerà un altro dogma: il tecnologicamente corretto, inteso come dispositivo utile a ridefinire un Uomo Residuo 2.0 la cui ibridazione umo-macchina si declinerà esclusivamente nel principio di efficienza e competitività che prenderà il posto del principio della liberalizzazione sessuale, postulato la cui fluida inutilità la si riflette in un capitalismo woke sempre più esangue (“Get woke, go broke!”) ma anche nell’annosa crisi di reclutamento militare americana, linea rossa inammissibile per un impero la cui carne deve continuare ad essere da cannone.

Sì, il woke è agli sgoccioli ma non c’è nulla da festeggiare.

Valerio Savioli