Franco Cardini
Nella settimana scorsa, l’In Memoriam era molto affollato. Pubblico pertanto con sette giorni di ritardo questo ricordo dell’indimenticabile sovrano di casa d’Asburgo che per sessantotto anni governò con mesto rigore e serena fede cristiana l’impero d’Austria, dal 1867 trasformato in impero austrungarico.
L’imperatore si spense dolcemente alle nove e cinque minuti di quella sera, il 21 novembre del 1916. Le procedure di preparazione della salma e d’imbalsamazione andarono per le lunghe e furono condotte in modo alquanto maldestro.
Dieci giorni dopo, Il 30, si presentò dinanzi alla porta della Kapuzinergruf di Vienna. Gelido, disfatto a causa dell’imbalsamazione mal riuscita, chiuso nella sua candida alta uniforme, invisibile a tutti. Il cerimoniale d’uso venne rigorosamente rispettato. Bussarono per lui alla porta, una volta. Alla domanda del padre guardiano all’interno, chi fosse a chiedere ultimo asilo, risposero per lui secondo il rito. Sua Maestà Cesarea il Kaiser Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, re Apostolico d’Ungheria, re di Boemia, di Dalmazia, di Croazia, di Slavonia, di Galizia, di Ludomiria e d’Illiria, re di Gerusalemme, arciduca d’Austria, granduca di Toscana eccetera. Non lo conosciamo, si sentì rispondere da dentro. Secondo appello: chi bussa? Francesco Giuseppe, semplicemente. Identica risposta: ancora una volta, come il perentorio Zurück! che respinge il principe Tamino alle soglie del Tempio della Saggezza nel secondo atto della Zauberflöte di Mozart. Terzo appello. Chi bussa ancora? Ein armer Sünder, “un povero peccatore”. Quello, Dio lo conosceva: e anche i fedeli frati custodi della cripta di famiglia degli Asburgo. La porta si aprì ed egli poté scendere a riposare con i suoi avi e con la sua Sissi.
Intanto, sui campi di battaglia, l’Europa stava agonizzando. Francesco Giuseppe morì in buona compagnia. Con lei. Quell’uniforme candida nella quale ormai avrebbe riposato per sempre era forse la stessa con la quale poco più di due anni prima, nel fatale 1914, egli aveva seguito a piedi, ottantaquattrenne, la processione del Corpus Domini nella sua capitale. Quel gesto di regale umiltà – uno dei tantissimi dei quali era capace – aveva commosso profondamente papa Pio X, ch’era nato nel Veneto ancora sotto il suo regno e che non dimenticava mai di pregare per il “suo” imperatore. Ma pochi giorni dopo, il 28 giugno, c’era stata la tragedia di Sarajevo: e tutto era precipitato.
Non l’aveva voluta, quella guerra. Anzi, delle tre che prima di quella gli era toccato di vedere – nel ’48, nel ’59, nel ’66 – non ne aveva voluta nessuna. Aveva trascorso la vita intera in uniforme, come si conveniva al “primo funzionario dello stato”, com’era fiero di definirsi: ma era, e sempre rimase, un uomo di pace. Già all’indomani dell’annessione della Bosnia-Erzegovina, mentre ormai si stavano presentando – nell’Austrungheria e non solo – le prime spinte oltranzistiche, aveva quasi aggredito il nipote e successore designato al trono, l’arciduca Francesco Ferdinando, con queste parole: «Hai mai visto la guerra, tu? No! Ma io l’ho vista, e perciò ti dico che prima di avventurarcisi bisogna rifletterci ancora tanto a lungo fino a trovare un mezzo per evitarla». Più tardi, prima di firmare controvoglia il decreto che avrebbe gettato il suo paese nella rovina, aveva commentato che i suoi generali e i suoi ministri la guerra non la conoscevano: ma lui sì, lui l’aveva vista in faccia a Solferino. E alla figlia Maria Valeria, una delle poche persone con cui amasse confidarsi, aveva dichiarato una volta ch’è sempre difficile trovare delle ragioni per fare una guerra, anche perché in realtà non ce ne sono mai.
Alla notizia della morte del nipote Francesco Ferdinando nell’attentato di Sarajevo, l’Imperatore non apparve in fondo né troppo scosso né eccessivamente addolorato; anzi, dalle sue immediate dichiarazioni pare quasi di capire ch’egli pensasse che le cose avevano avuto il loro necessario esito. Tutto era andato, dal ’67 in poi, contro la volontà di Dio che gli aveva affidato i suoi popoli: era stato solo nel nome e in vista della sopravvivenza della Monarchia che egli aveva dovuto accettare contro la propria coscienza tanto l’Ausgleich austrungarica prima quanto il sistema costituzionale poi. Ma la prospettiva presentatagli dall’arciduca Francesco Ferdinando, quella di una nuova riforma che aggregasse anche gli slavi, doveva sembrargli in realtà eccessiva e intollerabile. Certo, egli non avrebbe mai potuto opporsi: ma era accaduto che, proprio per mano di uno slavo, ci aveva pensato la Provvidenza. L’erede designato era adesso il ventisettenne pronipote, l’arciduca Carlo che nell’11 aveva sposato Zita di Borbone-Parma e che si presentava come un giovane serio, corretto, profondamente religioso.
All’indomani dell’attentato l’Imperatore si schierò con il primo ministro, l’ungherese István Tisza, dichiarandosi contrario a qualsiasi tipo di azione di rappresaglia contro la Serbia: anche perché essa avrebbe comportato con ogni probabilità un intervento russo e quindi una guerra di più ampie e terribili proporzioni. Ma tutti gli altri ministri, a cominciare da quello degli esteri Leopold Berchtold, erano dell’avviso che ai serbi si dovesse impartire una lezione indimenticabile. Naturalmente, si confidava nell’appoggio della Germania: ma proprio di ciò l’imperatore non era certo, e lo comunicò senza mezzi termini al capo di Stato Maggiore Franz Konrad von Hotzendorf, il quale a proposito dell’alleato non nutriva invece alcun dubbio.
Nel medesimo giorno dell’inizio della guerra contro la Serbia, l’imperatore firmò un proclama diretto a tutti i suoi popoli: “Sarebbe stato il mio più ardente desiderio dedicare gli anni che ancora mi sono concessi a opere di pace e a risparmiare ai miei popoli i pesanti sacrifici e gli oneri della guerra. La Provvidenza ha deciso altrimenti. Le macchinazioni di un avversario pieno di odio mi costringono a impugnare la spada per tutelare l’onore della mia Monarchia, per difendere il suo prestigio e la sua posizione politica, per assicurarne la stabilità dopo tanti anni di pace”. Al suo bellicoso capo di Stato maggiore rivolse parole altrettanto dignitose, ma meno ottimistiche: “Se la monarchia deve perire, che perisca almeno in piedi”.
Se all’immediata vigilia del conflitto il sovrano era sembrato preso da una sorta di abulico fatalismo, come se tutti i suoi ottantaquattro anni gli fossero arrivati addosso d’un balzo tutto assieme, ora egli sembrava, se non rinvigorito, per lo meno divenuto più lucido e determinato: quasi più sereno. È vero che la fedelissima Maria Valeria lo giudicava come avvolto da un velo di stanchezza che ormai lo separava dal mondo e ch’egli stesso si giudicava ormai diventato insensibile alle gioie e ai dolori: ma era come se ormai solo la guerra lo interessasse; era come se la sua stessa tarda età lo facesse sentire già fuori dalla vita e che, senza passato e senza futuro, solo il giudizio immediato delle armi avesse conservato per lui un qualche valore. Intanto la guerra stava al di là della sua volontà valorizzando l’elemento germanico in un ‘Austria che si andava sempre più appoggiando alla potente fraterna potenza vicina; e. se gli ungheresi restavano fedeli a quella Monarchia che per tanto tempo avevano pur avversato, gli slavi davano segni di volersene andare, come fecero i nazionalisti “cechi”, cioè boemi, che ormai stavano preparando la loro repubblica e molti dei quali disertavano per passare al nemico.
Alla seduta del Consiglio dei ministri del 7 luglio, il sovrano non disse una parola. Del resto, era un capo di Stato costituzionale. Si limitò – visto che quasi tutti erano d’accordo su misure ispirate a durezza e il suo primo ministro, che condivideva il suo disagio, era in difficoltà – ad abbandonare in silenzio la seduta per far rientro nella sua residenza di Ischl. Il giorno dopo, giunse da Berlino il messaggio che i bellicisti aspettavano: l’ambasciatore Heinrich von Tschirschky comunicò che, in caso di una qualunque «complicazione europea», il suo governo si sarebbe schierato al fianco di quello austrungarico.
Gli eventi dell’estate del ’14, il tragico Totentanz che di ultimatum in ultimatum e di mobilitazione in mobilitazione coinvolse tutta l’Europa e quindi – con l’ingresso nel conflitto del Giappone e degli Stati Uniti – il mondo intero, configurarono una situazione del tutto nuova: il processo di globalizzazione, avviato con le scoperte e le conquiste che dal XVI secolo in poi avevano gradualmente sottomesso l’intera ecumène all’Europa, giungeva con la prima guerra mondiale al suo fatale compimento, che si sarebbe del resto prolungato con la seconda e quindi con le successive crisi che, dall’Estremo Oriente asiatico attraverso le successive tappe in Asia, in Africa e in America latina, sarebbero sfociate nei drammi delle migrazioni e del terrorismo: esiti ultimi del resto dello “scambio asimmetrico” che fin dal Cinquecento ha caratterizzato l’economia-mondo e del conseguente, progressivo, gigantesco processo di concentrazione della ricchezza e d’impoverimento delle masse subalterne del pianeta. Ma, se per le avanguardie rivoluzionarie marxiste come quella russa era evidente che la guerra fosse l’esito necessario della tensione tra paesi imperialisti soggetti all’egemonia delle élites capitalistiche e colonialiste, nessuno tra i governi europei – nonostante l’inasprirsi delle rivalità e il moltiplicarsi dei motivi di scontro – sembrò al momento rendersi conto dell’abisso nel quale tutta l’Europa stava precipitando e al fondo del quale stava l’irreversibile e irrecuperabile perdita del suo ruolo egemonico sul pianeta. Fino a pochissimi anni prima era sembrato che la terra fosse ormai unita stretta nei legami dei mezzi di comunicazione che grazie al vapore e all’elettricità stavano unendo i punti più lontani di essa: ora, mente il petrolio e l’aviazione stavano per sconvolgere economia, finanze, comunicazioni e tecniche militari – ma era ancora troppo presto per rendersene conto –, si credette di esser giunti alla definitiva resa dei conti; e non si comprese che quello era, viceversa, l’avvìo di una nuova fase di crisi che non si sarebbe conclusa nemmeno con la fine della seconda guerra mondiale e che invece proprio in questi nostri tempi si debba definitivamente affrontare.
Alla fine del ’15 le sorti del conflitto erano oscure ed incerte. Nel novembre i due imperatori alleati s’incontrarono per l’ultima volta, a Schönbrunn: un Guglielmo ingrigito e un Francesco Giuseppe che si andava ormai consumando come una vecchia esile candela. Entrambi avevano l’impressione, largamente rispondente alla realtà, di essere stati ormai messi da parte dai rispettivi governi e Stati maggiori: in questi ultimi si fronteggiavano due personaggi tutto sommato mediocri, l’austriaco Konrad che anzitutto voleva l’umiliazione dopo dell’Italia dopo il suo voltafaccia e il tedesco Erich von Falkenhayn che avrebbe invece preferito sistemare il fronte balcanico in modo da conseguire una congiunzione, attraverso la Serbia conquistata, con le alleate forze ottomane.
Il ’16 non si aprì in modo positivo: tra il maggio e il giugno, la nuova offensiva austrungarica contro le linee italiane fallì; alla fine della primavera si ebbe una controffensiva russa tra Polonia e Galizia; il18 agosto, ottantaseiesimo compleanno dell’imperatore, la Romania – che a suo tempo si era avvicinata alla “Triplice”, ma che ormai mirava a strappare all’Ungheria la Transilvania e che considerava d’altronde la Bulgaria, alleata degli imperi centrali, come il suo grande nemico – scelse l’alleanza con le potenze dell’Intesa. Era un tradimento in tono minore, rispetto a quello italiano: ma ormai altrettanto atteso. Oltre all’andamento del conflitto, Francesco Giuseppe era deluso e prostrato per il comportamento mediocre dei politicanti che egli era costretto a far avvicendare nel suo governo: per fortuna l’erede al trono, Carlo, per il quale il sovrano provava un affetto che non esitava – contrariamente alle sue abitudini – a dimostrare, si stava comportando bene. Ovviamente, per un riguardo dovuto all’erede al trono, quando tutta la compagine austrotedesca passò sotto il comando del feldmaresciallo tedesco Paul von Hindenburg il corpo d’armata italiano ch’egli comandava fu esentato da questa forma di subordinazione.
Il 20 novembre, a Schönbrunn dove ormai si era trasferito da tempo, l’imperatore si lamentò esplicitamente del suo stato di salute: da tempo la sua vecchia bronchite era degenerata in polmonite ed era molto debole. La fedele figlia Maria Valeria si allarmò e i medici, chiamati immediatamente, espressero un parere ormai disperato. Nonostante ciò egli volle alzarsi, indossare l’uniforme e sedere alla scrivanìa: l’aiutante di campo gli guidò la mano mentre vergava la firma su una domanda di grazia, quella d’un’infelice infanticida ch’era stata condannata alla pena capitale. Fu uno dei suoi ultimi atti sovrani.
Al mattino successivo, di nuovo in piedi e al lavoro in uniforme, ricevette l’erede al trono e prese i sacramenti; aveva la febbre molto alta. Cercò verso mezzogiorno di sorbire una tazza di brodo, cercò di lavorare ancora, tornò a letto verso le sette di sera. Come sappiamo, avrebbe concluso due ore dopo la sua giornata terrena.
FC
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