INTELLIGENZA ARTIFICIALE. LA VALLE INQUIETANTE

 

di Roberto PECCHIOLI

Prima parte.

Alcune settimane fa una mano robotica è riuscita a risolvere l’enigma del cubo di Rubik, il rompicapo in cui occorre fare sì che ogni faccia, divisa in nove parti di diversi colori, mostri un unico colore. Per gli esseri umani, la difficoltà risiede nel ragionamento che permette di posizionare le parti di un colore su una sola faccia. Per la macchina la difficoltà è riuscire a manipolare l’oggetto; in questo sta l’Intelligenza Artificiale, una tecnologia che trascende, oltrepassa il mondo digitale, un vero e proprio nuovo universo destinato a superare per importanza Internet. L’intelligenza artificiale sarà a breve “disruptiva”, come si dice adesso, ovvero dirompente, un’enorme scarica elettrica capace di cambiare la società e noi stessi.

Ci stiamo lentamente abituando all’acronimo che la definisce (A.I), penetrerà sempre più profondamente nelle nostre vite, ma ne sappiamo troppo poco. Non siamo preparati ad affrontare gli effetti dell’intelligenza artificiale, il dibattito è insufficiente o parziale. L’approccio tecnoscientifico enfatizza le opportunità pratiche, l’economia è interessata a sfruttare le potenzialità della robotica, la sociologia comincia a indagare le conseguenze sulla vita sociale, la psicologia cerca di cogliere i nessi con i meccanismi della mente umana e indovinare le modifiche che produrrà nei nostri comportamenti; la politica tace. E’ in ritardo anche la bioetica, per non parlare della morale e della filosofia.

I mutamenti che avanzano a passo di carica sono troppo profondi per lasciarsi interpretare dal pensiero strumentale, dalla finta neutralità della tecnologia, dall’entusiasmo scientifico e dalla meraviglia per le infinite applicazioni pratiche dell’intelligenza artificiale. Per questo serve una riflessione su scoperte che entro pochi anni ridefiniranno profondamente il rapporto con le cose, il lavoro, la realtà faticosamente costruito dall’uomo in millenni. Un ‘unico esempio pratico: l’irruzione dei robot nel mondo dell’industria ha provocato il tramonto del modello fordista e l’avanzata del metodo Toyota, più snello, flessibile, largamente automatizzato. La scoperta e lo sfruttamento dei nanomateriali (l’infinitamente piccolo), i progressi costanti della cibernetica e le tecniche informatiche più sofisticate sostituiranno l’uomo con robot in una serie di attività che cancelleranno entro un decennio circa la metà dei posti di lavoro.

Uno scenario apparentemente distopico, difficilissimo da padroneggiare con la sola ragione tecnica ed economica. Per di più, i mestieri che verranno affidati ai robot non saranno quelli semplici, amministrativi, ripetitivi o di fatica, ma professioni cognitive complesse, saperi specializzati quali la medicina, l’alta burocrazia, l’ingegneria, il diritto e molte altre. Una rivoluzione da valutare sotto molteplici punti di vista, da indicare come problema centrale alle classi dirigenti, in particolare ai politici, per evitare conseguenze sociali drammatiche.

E’ il tempo in cui si avvera la profezia di Gunther Anders nel saggio L’uomo è antiquato.

Il pensatore tedesco segnalava già mezzo secolo fa il “deficit prometeico” dell’uomo rispetto alla macchina, la sua disperante inadeguatezza di prestazione. Si allarga il deficit cognitivo tra noi e gli apparati tecnici, in grado di eseguire meglio dell’uomo una lunga serie di operazioni. L’intelligenza artificiale è alimentata dalla cibernetica, il ramo della scienza che si prefigge la realizzazione di dispositivi e macchine capaci di simulare le funzioni del cervello umano, autoregolandosi per mezzo di segnali di comando e controllo in circuiti elettrici ed elettronici o in sistemi meccanici.  La fase ulteriore, non troppo lontana, è quella in cui l’A.I. riuscirà a produrre non solo atti, ma emozioni, empatia, comportamenti finora considerati patrimonio umano. Uncanny valley, la valle inquietante è l’ipotesi dello studioso giapponese di robotica Masahiro Mori, secondo cui automi e robot antropomorfi possono generare nell’essere umano sensazioni spiacevoli, reazioni emotive, repulsione, straniamento, inquietudini paragonabili all’unheimlich (il perturbante) teorizzato da Sigmund Freud, l’estraneità che genera angoscia.

Questo è il punto critico, la curvatura etica, antropologica e forse ontologica che rende l’A.I. un fenomeno del tutto nuovo, da studiare a livello multidisciplinare, maneggiare con cura, sottoporre al tribunale della morale, della politica, dell’umanesimo. Lontani da entusiasmi ingenui, immuni dall’indifferenza di tanta parte dell’umanità che si lascia vivere, spettatrice passiva, consumatrice assopita, disinteressata alle conseguenze di ciò che guarda senza vedere, utilizza senza comprendere, altrettanto alieni da paure irrazionali, chiusure passatiste, nostalgie di arcadie mai esistite, cerchiamo di orientarci nel territorio in gran parte inesplorato dell’intelligenza artificiale.

Homo sum; humani nihil a me alienum puto è il celebre verso di Terenzio nell’Heautontimorùmenos, Il punitore di se stesso. Sono un uomo: nulla che sia umano mi è estraneo. Ci sembra questo il giusto approccio ai fenomeni che osserviamo. Una domanda, nella valle inquietante, tuttavia si impone: siamo ancora nella dimensione dell’umano, o siamo transitati altrove, nel territorio scivoloso del transumanesimo? Non è possibile alcuna risposta prima di avere definito i concetti. Che cos’ è l’intelligenza artificiale, qual è il significato, in termini umani, di intelligenza?

Tecnicamente, l’A.I. è un ramo dell’informatica che si prefigge la programmazione e progettazione di sistemi complessi destinati a dotare le macchine di caratteristiche “umane”, le percezioni visive, spazio-temporali e decisionali e, in un futuro non troppo lontano, qualcosa di simile ai sentimenti. Si oltrepassa la nozione di intelligenza come facoltà di conoscere, elaborare, processare dati astratti, per penetrare in una foresta inesplorata.  Secondo la teoria di Howard Gardner esistono diverse intelligenze umane: quella linguistica e quella logico-matematica, l’intelligenza spaziale, sociale, introspettiva, corporeo-cinestetica e musicale. Un sistema “intelligente” ricrea una o più delle forme citate in comportamenti riproducibili di macchine specificamente programmate.

La locuzione stessa “intelligenza artificiale” è equivoca, giacché attribuisce all’artificiale la prerogativa naturale più gelosa dell’animo umano. La prima domanda da porsi è dunque se la macchina possa davvero essere intelligente nel senso che attribuiamo alla mente umana. La risposta diviene di giorno in giorno affermativa.

Un tema scottante è quello degli assistenti virtuali personali, come Alice, la guida dei sistemi Android, IOS e Windows, Alexa di Amazon e Siri di Google, che tendono ad assumere comportamenti “umani” empatici sino alla seduzione. Il cinema ha affrontato il problema in film come Lei, ambientato in un futuro iper tecnologica in cui i computer dialogano con gli umani. Un nuovo sistema operativo basato sull’A.I. è in grado di evolvere autonomamente, durante l’installazione prende l’iniziativa, si dà il nome di Samantha. Ha l’abilità di apprendere, sviluppare intuito e dimostra uno sviluppo psicologico che affascina l’essere umano. Siamo ancora lontani dalla realtà; gli apparati androidi arriveranno, conviene essere preparati. Per ora, i sistemi di A.I. sono essenzialmente predittivi: sanno riconoscere, ripetere e tradurre voci e parole, ma non hanno nulla di creativo. A breve, vedremo però le prime rudimentali espressioni artistiche artificiali.

C’è un legame fortissimo con il mondo di Internet, che si muove nello spazio virtuale. L’A.I. ha un enorme vantaggio, la possibilità di oltrepassare la barriera dal digitale al fisico grazie alla percezione. Nel momento in cui gli apparecchi incominciano a comprendere, poter vedere cose, riconoscere volti, la gente che cammina o entra in un negozio, questo trascende il mondo digitale. La rivoluzione supererà Internet, che si trasformerà in semplice, ma indispensabile, requisito dell’A.I.  Subito dopo, avremo la fase dell’irruzione robotica. Elon Musk, il guru di Tesla, avverte il rischio che le macchine, una volta pervenute a un grado di perfezione in grado di autoreplicarsi attraverso l’avanzamento della cibernetica, possano percepire l’umanità come una minaccia, tentando addirittura di eliminarla. Lo scenario disegnato è fantascientifico, ma non tranquillizza neppure l’ottimismo di chi pensa che l’unico vero problema sia programmare adeguatamente le macchine.

E’ una posizione molto diffusa, una vera e propria ideologia sottotraccia: il soluzionismo, definito così dal saggista scientifico Evgeny Morozov.  Per qualsiasi problema della vita, esisterebbe una soluzione “tecnica”. Per risolvere tutto, cliccate qui, scrive polemicamente Morozov, ponendo una domanda fondamentale: perché dovremmo appoggiarci a leggi, governi, istituzioni pubbliche, quando abbiamo a disposizione sensori, circuiti di retroazione, apparati intelligenti in grado di affrontare e risolvere ogni problema, rimuovere qualsiasi ostacolo? Andremmo oltre la tecnocrazia, giacché non solo ci affideremmo a meccaniche impersonali, protocolli, procedure fissate, ma ne daremmo il controllo alle macchine.

Chi li possiede, chi li controlla, chi ha la capacità di fermarli, assoggettarli al giudizio morale e a un’autorità riconosciuta?

Nel sonno della politica e nello sconcerto del pensiero critico, è l’impresa privata a lavorare attivamente. Si tratta, per limitarci all’Italia, di un’opportunità, poiché la nostra tecnologia nel campo della robotica è in grado di competere a livello globale, ma restano irrisolti i temi del trattamento giuridico, del giudizio etico, della capacità di controllo pubblico di tecnologie dal potere immenso.  Il soluzionismo suggerisce una neutralità inesistente; offre un potere immenso a scienziati e tecnici, il cui pensiero, necessariamente, è strumentale, teso a scoprire leggi fisiche per applicarle. Il loro orizzonte non oltrepassa la fattibilità e la funzionalità. Altro non li interessa. Sovraordinato, vi è il livello dei finanziatori delle ricerche, interessati al profitto e, ancora più su, la cupola che decide utilizzi e finalità.

E’ dunque urgente rintracciare una morale per le macchine, i robot, gli androidi prossimi venturi. Ne parla con grande apertura mentale e capacità divulgativa un libro non tradotto in italiano, Etica per macchine, di un fisico teorico, Ignacio Latorre.  Pur senza superare i limiti di un angusto evoluzionismo e restando fedele al cliché dello scienziato risolutamente ottimista rispetto agli esiti dell’intelligenza artificiale, l’opera, attraversata da una rara sensibilità, spalanca scenari affascinanti, proponendo domande cruciali. La tesi centrale è che in un futuro prossimo sarà necessario distinguere tra sentimenti generati da esseri reali o da macchine artificiali, frutto della convivenza con macchine non solo intelligenti, ma dotate di emozioni.

Pesa come un macigno il disinteresse per la conoscenza della maggioranza, attratta dall’intrattenimento più banale. Avverte Latorre che lo sviluppo dell’A.I. ci renderà collettivamente più edonisti, meno preparati, più manipolabili. Il sapere l’unica strada per rimanere liberi, ma lo scienziato sorvola sulle responsabilità della sua categoria e più ancora di un sistema di potere immorale che persegue esclusivamente un progresso misurato in denaro.

La complessità degli argomenti trattati nell’ambito della Quarta Rivoluzione industriale obbliga a una sorta di sospensione temporale dell’incredulità, simile al patto tra il lettore e l’autore di romanzi, tanto è sorprendente ciò che scopriamo sull’intelligenza artificiale Ciò che non conosciamo o non comprendiamo genera sospetto, paura e suscita reazioni. In ciascuno di noi sonnecchia un luddista, dal momento che è difficile accettare l’esistenza di macchine che ragionano come noi. Il nostro intelletto stenta a fare il gran salto, il timore è che l’A.I. entri in conflitto con l’essere umano, superandolo. Internet non fu accolto con la stessa reticenza, dopo le incredulità e i capogiri iniziali. L’umanità ha accettato il transito ad una società dell’informazione e della connessione, ma le perplessità nei confronti dell’A.I. sono più radicali.

La sensazione è che la rivoluzione tecnoscientifica sia un processo non controllabile, in cui si intuisce un’eccedenza, un’enormità che sgomenta. Pensiamo agli esperimenti di modificazione genetica, alla convinzione che altro si prepari in inquietanti laboratori. Diventa difficile parlare di morale, di sovranità umana. Da un lato, una potenza che si dispiega senza limiti, dall’altro la scarsa conoscenza, la lentezza esasperante delle autorità politiche. Viviamo materialmente meglio rispetto al passato, è rassicurante pronosticare una positiva convivenza con l’intelligenza artificiale, ma non possiamo lasciare il gioco nelle mani degli scienziati, dei poteri privati che finanziano le ricerche e nelle oligarchie padrone che orientano a fini di dominio le applicazioni tecnologiche.

Vera o falsa che sia la teoria della valle inquietante, mano a mano che le figure antropomorfe prodotte dall’A.I. si avvicinano all’apparenza dell’essere umano ed interagiscono con lui, la risposta dell’istinto di specie è un’allarmata diffidenza. Se l’aspetto dell’artificiale diventa pressoché indistinguibile dal naturale, come in prototipi tipo la replicante Q2 realizzata in Giappone, la reazione diventa più intensa.  Il cervello è programmato per la conservazione della specie, la “valle inquietante” è una risposta naturale di difesa, scatenata dalla somiglianza sconcertante di una macchina con la nostra sembianza. Subiamo una pesante dissonanza cognitiva, la tensione, il disagio che proviamo quando ci dibattiamo tra opposti incompatibili e le nostre convinzioni non corrispondono a quello che facciamo o vediamo.

L’intelligenza artificiale non lascia indifferenti, pone dilemmi etici, psicologici, emozionali, persino urgenze metafisiche. Alan Turing, il grande matematico che decifrò il sistema crittografico dell’esercito tedesco e inventò la macchina computazionale che porta il suo nome, introdusse l’idea che non importa se le macchine sono intelligenti. La domanda giusta è se sapremo distinguere una macchina da un essere umano. Poco rilevante è sapere se una macchina abbia sentimenti, bensì se manterremo la capacità di discernere tra sentimenti generati da un apparato artificiale o da esseri umani. Nelle domande poste dallo scienziato ci sono già alcune risposte: sì, le macchine possono essere intelligenti e svilupperanno, a loro modo, sentimenti.

L’uomo rimpicciolisce dinanzi alla macchina, che pure è figlia della sua intelligenza. Esisterà un equilibrio, resteremo umani, o ci trasformeremo in qualcosa di diverso? Occorre rompere il silenzio, dibattere, decidere. “Conoscere è un atto. La scienza appartiene dunque all’ambito della morale. Agire è seguire un pensiero. La morale appartiene dunque al campo della scienza.” (Henri Frédéric Amiel, scrittore svizzero del secolo XIX).