Li chiamano “I quattro di Visegrad”. Sono – in ordine di grandezza – Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia. Tutti emersi dall’Est comunista. Possono dividerli molte cose: l’odio alla Russia, il filo-americanismo, la “democrazia” o l’”autoritarismo”, l’adesione più o meno entusiastica alla UE, ma su una cosa sono tutti e quattro d’accordo: no all’operazione-invasione di migranti. In nome della sovranità nazionale.
I quattro di Visegrad – i loro primi ministri – si sono riuniti a Praga venerdì per appoggiare l’ungherese Orban, sostenere che ha ragione ad opporsi alla grande ondata di migranti. La Polonia è il primo della classe in “anti-Putinismo” e quindi in piena ortodossia USA_UE; ma sui migranti, diventa il più grosso e influente dei dissidenti rispetto alla dogmatica europoide dello “accogliamoli tutti”, e soprattutto, contro l’imposizione di quote obbligatorie.
“La mia posizione è che i Paesi devono prendere le loro decisioni sovrane sul livello della loro esposizione (ai migranti) e del loro impegno”, ha detto la prima ministra polacca Ewa Kopacz uscendo dall’incontro. Rendendo noto che tutti e quattro i primi ministri del quartetto di Visegrad hanno deciso di opporsi alle quote, e tutti e tre hanno espresso ufficialmente solidarietà al governante ungherese, il demonizzato Orban; non solo: gli hanno offerto assistenza per affrontare il problema (ossia come contrastare l’afflusso, cosa a cui Budapest è del resto tenuta essendo la prima frontiera dietro lo spazio di Schengen, che non ha confini interni). Dal che si può intendere: guardie di frontiera, personale doganale, o altro. I ministri dell’interno di Cechia e Slovacchia, molto concreti (e forse provocatori) hanno proposto: se Berlino li vuole, possiamo aprire un corridoio ferroviario dall’Ungheria alla Germania. Ciò, si capisce, “se ci sarà un pubblico impegno che la Germania accetterà e non rimanderà indietro i profughi siriani che sono stati registrati in un altro paese europeo”, ha specificato il ministro ceko Milan Chovanec , affiancato dal collega slovacco Robert Kalinak. Insomma, non fate scherzi di invocare Dublino e rimandarceli indietro.
Questi paesi sono i primi investiti dalla marea umana. Sono paesi piccoli, con una esigua popolazione. Quindi sono in posizione di capire benissimo – senza dargli del fascista – il collega magiaro Viktor Orban quando dice: “Adesso si parla di centinaia di migliaia, ma l’anno prossimo dovremo parlare di milioni, se non si mette fine a questa cosa….La realtà è che l’Europa è minacciata da una massa umana, possono arrivare qui decine di milioni. E noi, di colpo, ci troviamo minoranza nel nostro proprio continente. Bisogna mostrare forza nella difesa dei nostri confini”.
La Polonia, il più grosso dei quattro, ha 38 milioni di abitanti. La Repubblica Ceka è sui 10 milioni, come pressappoco l’Ungheria e e la Slovacchia non tocca i 5 e mezzo. Sicchè quando Orban dichiara che l’afflusso di questi profughi “mette in pericolo le radici cristiane dell’Ungheria”, la Polonia cattolica non trova nulla di reazionario e fuorimoda in questa asserzione, né tanto meno le due repubbliche ceco-slovacche, che – unite a forza dalle massoneria internazionali per formare un cuneo sul fianco della Germania sconfitta nel 1918 – si sono molto recentemente separate di comune accordo per difendere la loro identità storica – non da ultimo, la religiosa – che a loro giudizio impediva loro di continuare a vivere unite.
Una posizione che il sito pacifista italiano Pressenza (dietro cui pare ci sia il prete arcobaleno Alex Zanotelli) spiega così: “I paesi dell’Est europeo sono omogenei e per niente cosmpoliti come i paesi occidentali, sicché sono spaventati quando flussi grandi di persone di razze e religone diverse si manifestano d’improvviso”. Se per “omogenei” s’intende l’omogeneità etnica,storica e identitaria di ciascuno di quei paesi, è vero (anche se l’omogeneità religiosa della Cekia e della Slovacchia sono da attenuare: le massonerie unirono popolazioni cattoliche con i discendenti degli hussiti, in un’area sul limes delle antiche guerre di religione fra cristiani). Quanto al giudizio che sono “meno cosmopoliti” di noi europei dell’Ovest tanto più evoluti, è un insulto dettato da politicamente corretto (per Zanotelli & Co essere ‘cosmopoliti’, ossia senza senso di patria, è un merito) e da ignoranza: ignora con quante lotte e sangue versato questi popoli hanno difeso e mantenuto la loro identità sotto il rullo compressore sovietico, e sono pronti a difenderla contro l’omologazione burocratica di Bruxelles. Altra colpe che il sito pacifista Zanotelli addossa. “Polonia, Irlanda e Slovacchia vogliono solo profughi cristiani”: sì, quelli che l’ISIS terrorizza di più. E’ un peccato di mancato cosmopolitismo voler salvare prima loro, da parte di europei?
Vero invece quel che dice il reportage: “Non c’è alcuna possibilità che (questi paesi=) accettino le quote. La gente è scontenta e spaventata in quanto nessuno ha una soluzione coerente da proporre. A Budapest, la gente è furiosa…il dibattito sui migranti è uno dei problemi che stanno per dislocare l’Europa”: ciò che caldamente speriamo.
Tutti a far la guerra in Siria: umanitaria, ovvio
Ma no, la cosiddetta “Europa” delle elites (quella di cui il popolo diffida al massimo grado) sta usando il povero bambino spiaggiato a Bodrun, cavalcando l’emozione che ritiene d’aver suscitato, per condurre a buon fine il più caro dei suoi progetti: farla finita con Assad.
Non è che dicono proprio così. Dicono: bisogna andare a combattere l’ISIS, così che i siriani profughi possano tornare. Ha cominciato l’ex arcivescovo di Canterbury, lord Carey: “La Gran Bretagna ha l’obbligo di schiacciare l’ISIS in Siria” con intervento armato. Cameron s’è subito accodato: bisogna far la guerra! In Siria.
E anche stavolta come ad ordine ricevuto, di colpo tutti trovano che un intervento in Siria è proprio quello che ci vuole per risolvere il problema. Hollande “non esclude più di bombardare in Siria lo Stato Islamico”; comunica Le Monde, notando (forse con un filo di stupefazione) che “fino ad ora questa possibilità era scartata, puramente e semplicemente”, tanto più che “in Siria la Francia fornisce aiuti ai ribelli moderati”.
Già, com’è strano. Nell’agosto 2012, il primo ministro francese Lurent Fabius dichiarava (secoli di alta civiltà europea dietro queste parole): “Bachar al-Assad non merita di essere sulla terra”. E aggiungeva in una intervista a Le Monde che in Siria, “Il Fronte al Nusra fa un ottimo lavoro” (ragion per cui dei civili siriani che hanno perduto di parenti per mano dei terroristi buoni, hanno denunciato Fabius per istigazione a commettere crimini di guerra).
Chissà se questo cambiamento è dovuto alla proposta, risalente a quattro giorni prima, fatta ad Obama dal generale Petraeus (l’ex capo della Cia dopo esser stato il militare delle operazioni speciali in Irak): “Per combattere Daesh, bisogna armare Al Qaeda. “ insomma usare i vecchi amici per contenere i nuovi amici? Con lo scopo finale, s’intende, di escludere Assad da ogni futuro assetto della Siria – consegnata ai qaedisti o comunque ai wahabiti – e dove far tornare i profughi, tranquilli?
http://www.thedailybeast.com/articles/2015/08/31/petraeus-use-al-qaeda-fighters-to-beat-isis.html
Di fatto, gli Usa hanno intrapreso una nuova campagna di assassinii mirati con droni contro specifici individui dell’ISIS: colpendo gente specialista di ‘guerra-propaganda internettiana”, un hacker anglo-jihadista che gli dava fastidio. Un lavoro di fino, invece della distruzione massiccia in cui gli americani sono maestri. Chissà perché.
https://www.wsws.org/fr/articles/2015/sep2015/jsoc-s05.shtml
Forse tutta questa fretta occidentale di andare a combattere Daesh, dopo averla tanto (più o meno apertamente) aiutata, ha la sua causa non tanto nella sofferenza dei milioni di profughi siriani, ed ancor meno nell’immagine commovente del piccino spiaggiato a Bodrun, ma nell’indurimento militare di Putin a fianco di Assad. Con la spedizione di forze armate ed aerei…
ma anche qui, attenzione: secondo il giornale svedese Dagens Nyether, l’importanza dell’intervento russo è deliberatamente esagerata – segnatamente dalla stampa britannica – che diffonde notizie non confermate (e probabilmente false) di soldati russi impegnati in combattimenti a fianco delle truppe di Assad. Tutto ha origine dal sito israeliano YnetNews (che è Hedyoth Ahronoth) secondo cui un contingente “forte di diverse migliaia di russi” starebbe per atterrare a Damasco. Informazioni che Mosca ha immediatamente smentito. I sei caccia mandati sono dei Mig31 già coperti da contratto: intercettori però (e non c’è bisogno di intercettare aerei del Califfato).
Come ricorda il giornale, non da oggi la Siria è teatro di un conflitto internazionalizzato: gli americani bombardano con i caccia e uccidono coi droni, i turchi fingono di combattere ISIS e debellano i curdi, Hezbollah ha i suoi combattenti a fianco di Assad, non meno che le Guardie della rivoluzione iraniane…è in questo quadro internazionale che Mosca ha inviato consiglieri militari, armamento, e intelligence satellitare al governo siriano. Siccome gli occidentali dicono che adesso è l’ISIS ad essere la minaccia contro cui combattono ed hanno tanta fretta di debellarlo, il sostegno russo al presidente Assad ne viene giustificato. O no?
A parte, si può intuire questo: in vista di una resa dei conti in Siria, si tratta di garantire che Assad e la parte che rappresenta sia presente ai negoziati eventualmente futuri. Ché non accada che, per errore, uno dei droni americani lanciati contro l’ISIS non colpisca invece il presidente che – secondo gli Usa – “Must go”, deve comunque andarsene. Che invece Putin mandi truppe di terra in un paese che sta collassando, per farsi trascinare nel pantano, è un desiderio britannico; che resterà, si crede, pio.