di Roberto PECCHIOLI
Sono un appassionato di cinema, ma non un cinefilo, definizione troppo intellettuale per un semplice come me. A parte John Wayne e il principe di Bisanzio Antonio De Curtis in arte Totò- consegnati al mito – i miei idoli sono Clint Eastwood e Bud Spencer.
Del vegliardo attore e regista americano amo gli inizi negli “spaghetti-western” di Sergio Leone; sono un cultore dell’ispettore Callaghan (che delusione sapere che nell’originale il cognome di Harry la Carogna è Callahan …), poi dei film della maturità e delle straordinarie prove attorali e registiche della vecchiaia. Divento cattivo se toccate il vecchio Clint, ma potrei perdere il controllo e passare alle vie di fatto se qualcuno si azzarda a criticare Bud Spencer, al secolo Carlo Pedersoli da Napoli, il gigante buono di tanti film che hanno fatto sorridere e trascorrere ore liete. Immaginate da che parte sto, dopo aver letto le frasi di Giancarlo Giorgetti affidate al libro di fine anno di Bruno Vespa, puntuale come l’influenza stagionale e la nuova ondata di coronavirus.
Il potente ministro leghista, Dottor Sottile delle ex camicie verdi, riciclato in compassato frequentatore della City e dei suoi circoli riservati, ha attaccato il segretario del suo partito, Matteo Salvini. Fin qui nulla di strano: se chiedessero a me che cosa penso dell’ex Capitano, dopo la performance del 2019 in cui perse il governo e il ministero dell’Interno e le ridicole ragazzate del Papeete, dalla mia bocca uscirebbero espressioni irriferibili. Ma Giorgetti è l’eminenza grigia, l’uomo di raccordo tra quelli che contano davvero e i politici ruspanti come il buon Matteo. Per di più, non di una semplice intervista si tratta, o di voce dal sen fuggita, ma di frasi che – nero su bianco- sono state dettate a un giornalista di potere in un libro destinato a influenzare la politica alla vigilia dell’elezione del presidente della repubblica, nel pieno di un esperimento governativo al cui vertice sta un esponente di alto rango dei poteri finanziari transnazionali.
Giorgetti, dopo aver rivendicato la sua credibilità internazionale, ovvero detto con chiarezza che chi comanda sta altrove e che i politici di casa nostra sono solo fiduciari, commissari ad acta di chi sta sopra di noi e di loro, ha chiesto a Salvini- cioè al suo partito- di cambiare politica. Basta sovranismo, basta strizzare l’occhio ai movimenti sociali che salgono dal popolo, basta soprattutto frequentare cattive compagnie. Non si riferiva agli avventori del Papeete o alla signorina Verdini, figlia di Denis, pregiudicato bancarottiere (si può dire, le condanne definitive esistono) e gran frequentatore di logge. No, i brutti ceffi con cui si accompagna l’uomo dalle mille felpe sono Marine Le Pen, Orbàn e altri mascalzoni di varie nazionalità.
Premesso che anche il candido Giorgetti, ex sindaco del comune dallo sgraziato nome di Cazzago Brabbia, deve averli incontrati qualche volta – crediamo senza vomitare – e che poco ci importano le scelte di Salvini, il ministro dragoncello con me si è fatto un nemico. Poco importa, poiché non conto nulla, ma, nel mio piccolo, come Oscar Luigi Scalfaro tanti anni fa, “non ci sto”. Sostiene Pereira-Giorgetti che “il problema è se Salvini vuole sposare una nuova linea o starne fuori. Questa scelta non è ancora avvenuta perché, secondo me, non ha ancora interpretato la parte fino in fondo. Matteo è abituato a essere un campione d’incassi nei film western. Io gli ho proposto di essere attore non protagonista in un film drammatico candidato agli Oscar. È difficile mettere nello stesso film Bud Spencer e Meryl Streep.” La svolta europeista è un’incompiuta” e – seguendo l’allegoria cinematografica, “gli western stanno passando di moda. Secondo me, sono finiti con Balla coi lupi.”
E sia, ma chi balla con i lupi, quelli della City, di Francoforte e di Bruxelles è proprio Giorgetti. Buon pro gli faccia, reciti la sua parte, attento ai morsi e a non essere uno dei tanti “usa e getta” di lorsignori. Restando alla metafora western, Corvo draghiano non avrai il mio scalpo, nel senso che a votare per la Lega europoide, ripulita, di sistema e tanto buonina come Lupo De Lupis, non ci penso davvero. E con me, stando ai sondaggi, molti altri.
La verità – assai triste – è che il banco vince sempre. Hanno facilmente normalizzato i grillini, dopo averli creati e gonfiati sino all’incredibile 32,6 per cento del 2018, stanno cooptando la Lega. Intanto negano il diritto di manifestare a chi obietta sul passaporto vaccinale, lasciando liberi i rave party e le piazzate pro- Zan (nessun contagio, se la causa è gradita al sistema!). Bisogna essere europei, globalisti, liberali e liberisti, meglio se progressisti, ma all’uso possono andar bene anche i centristi e persino la destra, se resta accucciata come un cagnolino. Giorgetti, per il tramite di un megafono del potere romano, l’esperto navigatore Bruno Vespa, è stato chiaro: di gioco ce n’è uno solo, quello di chi comanda. A quello dobbiamo stare. Il popolo italiano non conta nulla e anche Matteo, se vuole continuare a godersi la vita tra locali alla moda, fidanzate ingombranti e indossare felpe anziché l’uniforme da carcerato, si accontenti di un ruolo da attore non protagonista. I processi contro di lui continuano in stile cinematografico, come dimostra la chiamata a testimone di Richard Gere.
Giorgetti è formale: non si possono unire Bud Spencer e Meryl Streep. Abbiamo capito, sei un gran maestro (minuscole, minuscole, non si sa mai…) di politica e di vita. Meryl Streep è una magnifica attrice, eclettica protagonista di decine di film. Ha vinto tre premi Oscar e rappresenta assai bene il “generone” liberal americano. Sostiene, come è dovere ben retribuito di un membro dello star system cinematografico, le cause progressiste, a partire da quelle LGBT. Sta, insomma, dalla parte giusta, al caldo nella sua villa con servitori, seduta su un monte di denaro frutto di un indiscutibile talento artistico. Non sarà “il diavolo che veste Prada” ma non fa sognare, non rende felici. Tutt’al più, ammiriamo il suo versatile talento. Io l’ho amata solo ne I ponti di Madison County, ma per la storia d’amore intensa, breve e matura con Clint Eastwood, entrato improvvisamente nella sua vita di provincia.
Usando il suo nome, evocando il mondo di cui la Streep è parte, Giorgetti ha chiarito da che parte sta. A Salvini la scelta: o la felpa e la vita spericolata di chi – più male che bene – cerca di rappresentare le pulsioni e la volontà di cambiamento di molti italiani, oppure un ruolo defilato, giacca e cravatta, borsa 24 ore e un trolley di marca, al servizio dei Capi, quelli di cui Giorgetti è diventato agente monomandatario. Basta film western, non arriverà più il Settimo Cavalleria; solo pensosi polpettoni carichi di “impegno civile”, rispetto per le minoranze, politicamente, etnicamente, culturalmente corretti, con l’imprimatur della nuova Inquisizione, non più santa, ma laica, democratica, progressista, antifà. Applausi fuori scena al cardinale Giorgetti, il Richelieu varesotto, ma io sto con Bud Spencer.
Innanzitutto, meglio Carlo Pedersoli – al diavolo l’improbabile nome d’arte dell’ex nuotatore olimpico – di Meryl Streep, algida signora delle scene di un mondo lontano ed estraneo. Meglio Napoli di New York e, vivaddio, meglio i cazzotti del vecchio Bud dei ricami intellettuali di certo cinema. Lo so bene che il mondo è complicato, che quasi nulla è come sembra, ma volete mettere la soddisfazione di vedere- almeno per l’ora e mezzo dello schermo – i mali del mondo e i cattivi sconfitti a pugni e schiaffoni da un omone barbuto di poche parole? Bud Spencer è stato l’adulto- bambino che dormicchia in tutti noi, il buono e mite che diventa irascibile quando incontra il male. Fu una folgorazione, quella del regista dei film di Trinità con Terence Hill (altro eroe positivo assistito dal fascino della bellezza) di chiamare Bambino il suo personaggio. Strani banditi che aiutavano la gente e non ammazzavano i nemici, limitandosi a stenderli a mani nude.
Bud Spencer è stato Piedone, commissario disarmato che ripuliva Napoli e il mondo dalla criminalità senza sparare un colpo, svelava complicità indicibili, odiava la droga e finiva con una tavolata a base di spaghetti. Era tutt’altro che razzista: di solito adottava un bambino sfortunato del Terzo Mondo incontrato nell’avventura. In altri film, fu prete missionario nemico dei potenti creoli, difensore degli indigeni sfruttati, poliziotto senza cattiveria ma con un gran senso del bene e del male. Coltivò frutta per sfamare una tribù in Banana Joe; organizzò safari in Africa caricando a salve i fucili dei clienti perché amava gli animali e stava con gli ippopotami.
Non tradiva gli amici e neppure la famiglia, aveva un’idea precisa del bene e del male e, sempre, da attore e nella vita, è stato dalla parte del bene. In un film, Lo chiamavano Bulldozer, guidò un gruppo di ragazzi italiani a sconfiggere a rugby gli spocchiosi marines americani della base di Livorno, in un altro aiutò un bimbo a difendere un terreno che diventò miniera di petrolio picchiando i malvagi solo dopo aver inforcato gli occhiali. Sempre, agiva con semplicità, mosso da un senso immediato di giustizia. Nei quartieri spagnoli di Napoli gli hanno fatto un monumento. Un altro è a Budapest. Chissà se capiterà a Meryl Streep.
Carlo-Bud aveva anche una sua bella filosofia di vita. In un’intervista del 2014, a ottantacinque anni, disse: “non temo la morte. Dalla vita non ne esci vivo, disse qualcuno: siamo tutti destinati a morire. Da cattolico, provo curiosità, piuttosto: la curiosità di sbirciare oltre, come il ragazzino che smonta il giocattolo per vedere come funziona. Naturalmente è una curiosità che non ho alcuna fretta di soddisfare, ma non vivo nell’attesa e nel timore. C’è una mia canzone che racchiude bene la mia filosofia: Futtetenne, ovvero fregatene. E ridici su.” Due anni dopo, morì dicendo grazie alla sua famiglia e a chi lo curava. Sì, io sto con Bud Spencer. E tu, Matteo ammaccato, non dare retta al guardaspalle di Mario Draghi: meglio un ruolo da Bud Spencer che una vita da attore non protagonista, maggiordomo dei poteri forti costretto a dire sempre yes, sir.