(Amici di Facebook Gog&Magog hanno scoperto e segnalato questo studio stupefacente di un isttiuto di ricerca economica finanziatp da Soros: spiega che l’austerità imposta dalle regole europee ha rovinato l’Italia, la quale è stata la sola a obbedir loro fedelmente; s’è cacciata in un cirrcolo vizioso di taglio dei salari – calo dlela domanda interna – crollo investimenti e alla fine calo dei profitti – Se lo status quo resta l’attuale, dicono, i populisti non faranno che cerscere . Rimedi? Qualcosa di simile al ritorno allo Stato imprenditore (qualcuno ha detto IRI?): ed ecco la critica: la Lega non lo vuol fare perché è neoliberista, i 5 Stelle nemmeno sanno concepirlo – del resto anche nella UE ciò è semplicemente impensabile)
Un paper dell’Inet di aprile 2019 è spietato con le politiche europee imposte al nostro Paese e gli effetti della strategia “al ribasso” sui salari intrapresa dalla nostra classe dirigente negli ultimi 30 anni.
E’ passata quasi inosservata in Italia l’uscita di un paper (PDF integrale qui), a firma dell’economista Servaas Storm, per conto dell’Institute of New Economic Thinking, un think tank newyorchese in cui George Soros ha raccolto, con un iniziale finanziamento a fondo perduto, una autentica seleçao di pensatori autorevoli ma potenzialmente “eretici” rispetto alla linea oggi dominante in materia economica.
Già dalla lettura del titolo, “Lost in Deflation: why Italy’s woes are a warning to the whole Eurozone” (“Persi nella deflazione: perché i guai dell’Italia sono un monito per l’intera Eurozona”) si comprende come mai i media italiani abbiano mantenuto un silenzio radio assoluto sullo studio (come su alcuni altri del medesimo istituto già usciti in precedenza), nonostante non arrivi certo da fonte tacciabile di simpatie “gialloverdi”.
Infatti, il documento, da un lato, traccia una analisi impietosa delle politiche economiche applicate al nostro Paese negli ultimi 30 anni, dall’altra fissa alcuni punti fermi sullo stato della nostra economia: tutti elementi che sono ben noti, ormai, a chi si informa su Internet, ma non sono ancora stati spiegati in modo compiuto al grande pubblico.
In particolare, si sottolinea che l’Italia è il paese che più di tutti si è adeguato alle ricette dell’Eurozona (p. 10):
Nessun’altra economia della zona euro è riuscita a trasformare la sua economia mista in modo così radicale come l’Italia, che per molti versi si è rivelata “più papista del Papa” (di Bruxelles). I governi italiani di diverso colore che si sono susseguiti hanno attuato una politica di deregolamentazione e riforme istituzionali, spesso con uno scarso sostegno parlamentare e senza consenso popolare, cercando di scaricare la colpa e la responsabilità su “impegni vincolanti”, oppure i “vincoli esterni” imposti dalla lontana “Bruxelles”.
Si affronta poi il tema (a tutt’oggi ancora radicatissimo e introiettato dalle nostre “classi dominanti”) della ideologia del “vincolo esterno”:
Questa strategia di slittamento della responsabilità a livello nazionale sul “vincolo esterno” ben si coniugava con la logica di il trattato di Maastricht, ossia che i mercati finanziari siano più efficaci nel disciplinare dei governi potenzialmente “irresponsabili” rispetto a trattati intergovernativi trattati o promesse dei politici (cfr. Costantini 2018). Con l’adesione alla Unione Monetaria Europea, le autorità degli Stati membri hanno limitatodi fatto la propria politica fiscale alla sola emissione di debiti in una valuta estera su cui non hanno alcun controllo. Hanno quindi accettato di sottoporsi alla loro disciplina (o, se uno vuole, ai capricci) dei mercati obbligazionari globali. Il debito pubblico, come scrisse O’Connor (1973), aumenta il potere del capitale sullo Stato: un governo che non persegue politiche favorevoli al mercato farà difficoltà a trovare un prestito. In questo modo, gli stati membri dell’Eurozona hanno rinunciato alla sovranità sulla propria politica fiscale in un modo molto più radicale di quanto suggerito dalle condizioni su deficit e debito del trattato di Maastricht (Halevi 2019).
Gli effetti di tutto ciò sono stati semplicemente disastrosi, si è cacciata l’Italia in un pantano da cui l’uscita appare un’operazione ardua e complessa.
I dati economici sugli anni precedenti l’ingresso nel sistema europeo mostrano come il Belpaese avesse, con alti e bassi, costantemente “rimontato” rispetto ai partner europei: mano a mano che le “riforme” di Bruxelles vengono introdotte, questa riduzione del divario si arresta all’improvviso e l’Italia non fa che perdere quota.
Si ricordano i dolorosi dati che purtroppo ben conosciamo, sui milioni di giovani disoccupati etc., nonché il trattamento riservato dalle autorità europee nel periodo 2010–2015:
“Il rapporto debito/PIL dell’Italia è fortemente aumentato nel periodo 2010–2015 (cfr. figura 2 sopra), principalmente a causa dei seguenti fattori: il suo governo ha dovuto pagare tassi d’interesse molto più elevati, prima che la Banca Centrale Europea intervenisse dopo un lungo ritardo. Secondo Zingales(2018), il ritardo era inteso a imporre una “disciplina dei mercati finanziari”, esercitando pressioni sul governo italiano affinché riforma. “E’ stata una forma di waterboarding economico, che ha lasciato l’economia italiana devastata e gli elettori italiani giustamente arrabbiati nei confronti delle istituzioni europee” sono le conclusioni di Zingales”. (p. 13)
Ed è altrettanto doloroso sentire, ancora una volta quanto il nostro paese sia stato ligio ai criminali dettami europei:
“l’Italia ha mantenuto un significativo avanzo di bilancio primario oltre l’1,3% del PIL per l’intero periodo post-crisi 2008–2018 (ad eccezione del solo anno 2009), e, contrariamente ad ogni buon senso, il governo “tecnocratico” di Mario Monti ha fatto avanzi primari da circa 2% del PIL nel periodo 2012–2013. Per Monti, come ha ammesso in un’intervista con la CNN, la disciplina fiscale era la massima priorità, anche se questo significava che il suo governo stava “di fatto distruggendo la domanda interna attraverso il consolidamento fiscale” (Monti 2012: sperava che la UE sarebbe accorsa a salvare l’Italia con un’impegno espansivo coordinato sulla domanda. Si sbagliava). La stessa linea di austerità è stata proseguita dai successivi governi italiani, tra cui quello del PD guidato da Matteo Renzi (2014–2016).”
Il bello è che questi danni sono stati pure stimati dallo stesso Ministero delle Finanze italiano:
“le politiche di austerità nel 2012-2015 hanno ridotto il PIL italiano di quasi il 5% e gli investimenti del 10% (come riportato da Fazi, 2018). Si noti che il consolidamento fiscale in Italia durante gli anni di recessione 2008–2018 è stato eccezionale rispetto alla Francia e all’Euro 4 (cfr. figure 3 e 4). Il governo francese ha registrato disavanzi primari (senza eccedenze!) durante tutti gli anni del decennio 2008- 18, ad una media del 2% del PIL all’anno. I paesi dell’Euro-4 (dominati dalla Germania), dopo aver registrato disavanzi primari consistenti nel periodo 2009–2011, hanno avuto avanzi primari piuttosto modesti durante il periodo 2013–2018; in effetti, il disavanzo primario totale dell’Euro-4 nel periodo 2008–2018 è stato intorno allo zero. Il totale dello stimolo fiscale fornito dallo Stato francese è stato pari a 461 mld euro [QUATTROCENTOSESSANTUNO MILIARDI DI EURO] nel decennio successivo al 2008, il che è si pone in discreto contrasto con la compressione della domanda interna che veniva compiuta nello stesso periodo in Italia (227 mld di euro [DUECENTOVENTISETTE MILIARDI DI EURO). Si noti che il differenziale così raggiunto di 668 miliardi di euro [SEICENTOSESSANTOTTO MILIARDI DI EURO] è superiore al PIL reale dei Paesi Bassi del 2010.”
Lo studio passa poi a rilevare gli effetti delle cosiddette “riforme del lavoro”: un boom dei lavoratori precari e sottopagati, con riduzione delle garanzie:
“il gap salariale fra Italia è Francia è più grande oggi di quanto lo fosse negli anni ‘60” (p.18)
Le classi dominanti italiane hanno infatti preferito imboccare la via della “corsa al ribasso” sui salari, ingolosite dal fatto che potevano così prendere “tre (nemmeno due) piccioni con una fava”, ossia:
- tenere bassa l’inflazione (incubo di chi è creditore, ndr);
- aumentare il “fattore lavoro” nella crescita del PIL (invece, per esempio, di comprare un macchinario nuovo o più efficiente, mi conviene prendere lavoratori sottopagati in più),
- in tal modo si è anche ridotta — temporaneamente — la disoccupazione (riesplosa però con la crisi dell’Euro, ndr);
L’aver permesso di abbassare gli stipendi ha indotto molte imprese di competere (e vincere) in quel modo anche contro concorrenti più produttivi e meritevoli di rimanere sul mercato.
Si è però così innescato un circolo vizioso, che sta strangolando l’economia italiana in assenza di interventi di rottura: la riduzione degli stipendi, inizialmente una scelta per aumentare la quota in favore dei profitti(seppure limitata alle classi dominanti), è diventata una ineluttabilità per tutti.
Infatti, come detto, le imprese hanno iniziato a farsi concorrenza a colpi di manodopera sempre più a basso costo (facendo cioè lavorare di più e a meno, specialmente nei servizi), invece che su tecnologia e produttività: così facendo, da un lato è morta la domanda interna (che da noi è stata “il vero motore della crescita fra il 1960 e il 1992“, p.25), dall’altra sono calati gli investimenti e, infine, pure i profitti!
Le imprese si sono ritrovate a dipendere dal solo export verso l’estero, ma in una partita al ribasso…con la Cina, che però ha ben altre capacità, sia come costi ridotti sia, ormai, come capacità di investimento e di pianificazione tecnologica. Si è avuto pertanto un vero e proprio bagno di sangue.
Tra l’altro, questa situazione è stata resa ancora più drammatica dal fatto che alla obliterazione della domanda interna si è aggiunto l’allentamento dei legami produttivi fra Italia del Nord e Germania: con l’allargamento UE, sempre più imprese tedesche si sono rivolte ai paesi dell’Est Europa (cfr. Celi, Ginzberg e Guarascio, 2018), facendo quindi calare anche questa voce positiva che ci poteva tenere a galla.
In sostanza si è verificato, per l’Inet, il seguente schema:
La diagnosi è quella cui sono già giunti molti economisti o semplici osservatori anche da noi:
“L’Italia soffre di una carenza cronica di domanda. Una situazione creata da un contesto di:
(a) perpetua austerità fiscale;
(b) contenimento permanente dei salari reali;
(c) mancanza di competitività tecnologica che, in combinazione con un tasso di cambio sfavorevole (euro), riduce la capacità delle imprese italiane di mantenere le loro quote di export a fronte di una maggiore concorrenza dei paesi a bassi salari (in particolare la Cina).
Questi tre fattori deprimono la domanda, e hanno però a catena altri effetti negativi:
- riducono l’utilizzo della capacità produttiva;
- abbassando la redditività delle imprese,
- danneggiando investimenti e innovazione.
L’Italia finisce così “bloccato in uno stato di declino permanente”, caratterizzato da un progressivo deterioramento della matrice produttiva dell’economia italiana e della qualità della composizione dei suoi flussi commerciali (cfr. p. 32).
In tutto ciò, è stato tolto dal paese, con i surplus nel periodo 1992–2018, PIU’ DI UN TRILIONE DI EURO (1.000 miliardi, pari a circa i 2/3 del Pil italiano nel 2018). I francesi, nello stesso periodo, hanno invece immessonell’economia circa 475 miliardi. I paesi “austeri”, ossia Germania, Belgio e Olanda, hanno (nel loro insieme) fatto surplus per soli 510 miliardi, la META’ di quello italiano, nonostante condizioni economiche ben più positive.
Giustamente, l’economista di fronte a questi dati si chiede:
“se la Francia avesse fatto come l’Italia, cosa sarebbero ora le rivolte dei Gilet Gialli?”
Che fare?
In conclusione alla diagnosi di questa situazione sconfortante e più simile a una crisi esistenziale che solo economica, lo studioso fornisce un proprio abbozzo di prognosi, anche a fronte delle ricette proposte dal governo gialloverde.
E’ evidente che misure di immediato intervento sulla domanda interna siano necessarie, quali potrebbero essere quelle proposte sinora (flat tax, reddito di cittadinanza) ma, in sostanza si tratta di un aiuto “su una gamba sola”, dei pannicelli caldi che non vanno ad affrontare le radici strutturalidel dissesto come esposte sopra.
L’Inet, con chiaro influsso keynesiano, invoca quindi un “approccio a due gambe”: all’intervento di stimolo fiscale (che può essere variamente strutturato) si deve affiancare anche un ritorno dello Stato-imprenditore, che definisca e governi un processo di lungo termine per il rinnovo o riconversione delle strutture produttive e il rilancio degli investimenti tecnologici, in un quadro, pertanto, di relativa maggiore, e non minore, regolamentazione dell’economia e del mercato del lavoro.
Si tratta però di una prospettiva che il Governo attuale non appare in grado né di concepire né di implementare:
- nel caso della Lega, perché resta di impianto neoliberista e quindi contraria a un rinnovato ruolo dello Stato;
- nel caso dei M5S, perché privi di una linea progressista chiara.
A parziale discolpa del Governo gialloverde, tuttavia, pure il paper deve riconoscere che le “due gambe” dell’approccio proposto (=enormi investimenti a debito) sarebbero brutalmente azzoppate…dall’Unione Europea.
“Qualsiasi strategia di sviluppo razionale “a due gambe” è incompatibile il rispetto delle regole macroeconomiche dell’Unione Monetaria e il mantenimento della calma dei mercati finanziari, che svolgono il loro compito di disciplinare i debiti dell’Eurozona (Costantini 2018; Halevi 2019). Questo è chiaro da quello che è successo quando il governo M5S-Lega ha proposto un piano di bilancio espansionistico per il 2019. L’impatto totale del piano di bilancio inizialmente ammontava, secondo le stime, all’1,2% del PIL nel 2019, 1,4% nel 2020 e 1,3% nel 2021 — e anche questa ridottissima espansione di bilancio ha scatenato forti risposte negative della Commissione Europea e aumenti per i rendimenti obbligazionari italiani. (p. 45)
Ma perché, qualcuno si potrebbe chiedere, l’istituto di Soros si rivela “più gialloverde dei gialloverdi”? Anzitutto perché è la lettura condivisa dagli economisti, ma nelle ultime righe del paper traspare, forse, la motivazione. Se le dinamiche sopra descritte appaiono risalenti, ormai croniche e implacabili e c’è poco da incolpare il Governo: non è possibile, nel sistema europeo attuale, fare partire alcun autentico piano di rilancio per l’economia italiana.
Il punto critico è, però, che questo status quo, mortale per il nostro paese, non è nemmeno stabile: si riporta in conclusione il timore di Blanchard, secondo cui il ciclo “meccanico” di aggravamento del debito in cui è stata costretta l’Italia, crea il potenziale per crisi fuori controllo, con un esito potenziale di una “uscita involontaria” , che sarebbe la morte dell’Eurozona (e, aggiungiamo noi, dell’intero progetto europeo).
Inoltre, anche nell’ipotesi in cui vi sia una mera prosecuzione dell’attuale status quo, ossia una stagnazione sempre più pronunciata, si assisterà ad un sempre maggiore rafforzamento delle forze anti-europee e anti-establishment.
In assenza quindi, di un radicale cambiamento delle politiche europee (che è stato più volte invocato dallo speculatore ungherese), il “mondo Soros” ha notevoli preoccupazioni:
- se si prosegue così, avanzano i populisti (e non solo in Italia);
- potrebbe andare pure peggio: se per accidente dovesse esplodere una crisi, potrebbe saltare l’intera costruzione europea, che sinora si è rivelata un ottimo strumento “centralizzato” per imporre progressivamente un certo tipo di politiche care alla Open Society.
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