di Roberto Pecchioli
La più grande delle tragedie di Shakespeare, Amleto, si apre con l’apparizione alle sconcertate sentinelle del castello di Elsinore di un Fantasma, The Ghost, il vecchio re ucciso dall’usurpatore Claudio con la complicità della regina Gertrude, madre del giovane Amleto. Viene da paragonare lo spettro dell’immortale opera del bardo agli elettori assenti italiani e francesi. Fin troppo facile la battuta, c’è del marcio in Danimarca, e senza dubbio anche nell’Esagono transalpino e nel nostro Stivale.
Gli elettori francesi, ancora ubriacati dal fulmineo successo di Emmanuel Macron, l’uomo della massoneria e della galassia Rothschild, gli stanno regalando un successo a valanga all’Assemblea Nazionale. Solo due piccoli nei, trascurabili per il potere che vince e se la ride: Macron disporrà di una maggioranza schiacciante in parlamento (oltre due terzi dei seggi) con il 32 per cento dei voti; inoltre, gli elettori francesi che si sono recati alle urne sono stati meno della metà degli aventi diritto, la percentuale più bassa in mezzo secolo circa di Quinta Repubblica. Il dato è ancora più impressionante se pensiamo che in Francia, come in Gran Bretagna e negli Usa, alle liste elettorali occorre iscriversi, e che quindi il corpo elettorale non è formato dall’intera popolazione maggiorenne di cittadinanza francese.
In Italia, forse per non essere da meno degli amati/odiati cugini d’Oltralpe, le elezioni amministrative parziali hanno segnato un nuovo record negativo di astensionisti. Il Ministero dell’Interno parla di una partecipazione al voto del 60 per cento (circa 7 punti in meno della tornata precedente, che già segnò una diminuzione), ma il dato è ampiamente arrotondato per eccesso, giacché non comprende la Sicilia ed il Friuli Venezia Giulia, dove alle urne sono andati circa il 55 per cento degli elettori. Palermo, la più popolosa città al voto, con oltre 650.000 abitanti, ha eletto Leoluca Orlando con una partecipazione intorno al 52 per cento. Stravagante è poi il metodo isolano, che permette di vincere al primo turno superando la soglia del 40 per cento. Insomma, la minoranza vince, anche se Orlando ha comunque conquistato un robusto 46 per cento. Nell’altra grande città al voto, Genova, le cose sono andate anche peggio: di mezzo milione di aventi diritto, oltre 250 mila sono rimasti a casa, superando il tasso di astensione dei vicini francesi. Quando si dice l’imitazione…
E’ andata meglio solo nelle piccole e medie città, e nei paesi, probabilmente per la maggiore conoscenza diretta dei candidati. Ad avviso di chi scrive, prima di avventurarsi nelle consuete analisi a caldo, decretando improbabili vincitori e sconfitti, e prefigurando scenari politici nazionali, è indispensabile ragionare su un fenomeno- quello della fuga dalle urne – che sta diventando esodo di massa.
In Francia, il recente voto presidenziale è stato essenzialmente un voto “contro”. In perfetta assenza di fascismo, milioni di francesi hanno scelto Macron come male minore rispetto a Le Pen-Hitler. Un terribile peccato di disinformazione, un formidabile capolavoro mediatico e di comunicazione. Meno di un mese dopo, il soprassalto, e tutti a casa, offrendo così su un piatto d’argento un potere incontrastato a chi comanda davvero, i padroni del giovane ex dipendente della famiglia Rothschild, pupillo del super massone Jacques Attali. Complimenti al sistema, anzi, chapeau, alla francese.
In Italia, le cose si stanno mettendo allo stesso modo. La gente sta a casa, o va al mare, approfittando della stagione, e chi comanda si frega le mani: il banco vince sempre. Già molti anni or sono, discutendo con un uomo politico poi assurto a cariche governative, attuale presidente di commissione parlamentare, commentavamo i primi segni della disaffezione alle urne, e si parlava di percentuali che erano scese sotto un incredibile- oggi – novanta per cento. Quel politico- personaggio peraltro di spessore intellettuale e tutt’altro che disonesto, si dichiarò felice. Meno gente vota, meglio è, importante è mantenere il proprio bacino, adesso diremmo lo zoccolo duro dei fedeli e dei clienti, quello fu il succo, in fondo onesto nella sua chiarezza, dell’onorevole nostro interlocutore.
E’ davvero così, i politici, camerieri dei poteri forti discesi a sguatteri, temono l’opposizione e la rivolta, ma sono felicissimi dell’indifferenza e della disaffezione. Tanto, decidono loro, ed il sistema, più male che bene, regge e guadagna tempo. Crediamo poco ai grandi cambiamenti per via elettorale, ma certamente senza partecipazione popolare non vi può essere alcuno scossone, o rovesciamento di un sistema marcio che tuttavia è come la torre di Pisa, “che pende, che pende e mai cade giù”. Torre di Pisa e, voce di popolo voce di Dio, ladri di Pisa, che litigano di giorno e rubano insieme di notte.
Dunque, al di là dei discorsi di maniera e delle facce contrite dei nostalgici della democrazia, gli emoticon dovrebbero essere ridisegnati con i volti dei politici italiani di lungo corso, i più felici della fuga di massa dalle cabine elettorali sono proprio loro, i politicanti che devono mantenere o strappare la sedia chiamata seggio. Noi non votiamo, loro vincono più facilmente: è sotto la panca che il sistema crepa, e non sarà certo la nostra lontananza ad impaurirli.
Facciamo un po’ di conti alla buona: teniamo conto dell’invecchiamento della popolazione, accettiamo una percentuale inevitabile, ma in crescita, di disinteressati cronici, prendiamo atto delle revisione poco dinamica del censo con la questione dell’inserimento dei cittadini residenti all’estero ed avremo forse un venti per cento di astensione fisiologica. Del rimanente ottanta, una percentuale notevole, che a Genova e Palermo è risultata numerosa quanto chi ha ottenuto più voti, ha scelto una di queste tre opzioni: la politica non è una soluzione, ma un problema; sono tutti uguali, non me importa nulla; non mi sento rappresentato.
I latini, maestri di diritto, sostenevano che summum ius, somma iniuria, più leggi esistono, maggiore è l’ingiustizia. Il mercato elettorale, chiamiamolo con il suo vero nome, si è affrettato a proporre una scelta più ampia di quella degli yogurt al supermercato. Nei fatti, le marche importanti sono tre o quattro, ma sugli scaffali decine e decine di confezioni diverse, ognuna colorata e promettente, offrono al pubblico pagante dei consumatori merci diversamente uguali. La politica si è adeguata, e forse mai come nella tornata dell’11 giugno si sono visti simboli, nomi, colori, slogan tanto differenti per “vendere” prodotti politici assai simili.
Questa constatazione è lampante per chi si fosse preso la briga di scorrere i programmi che devono essere depositati insieme con le candidature, un gesto inutile, ridicolo, una foglia di fico alla quale non crede nessuno e che non viene preso sul serio da alcuno. Ciò che è impressionante per il cittadino medio, quello che di politica si occupa raramente, è la quantità di liste e candidature presentate dalle alpi a Lampedusa. In economia, la legge di Say teorizza che è l’offerta a creare la domanda, e questo è uno dei capisaldi del consumismo trionfante. In politica, la legge di Say sembra piuttosto uno specchietto per le allodole, i mille yogurt tutti dallo stesso sapore, unita alla fiera delle vanità per legioni di candidati logorroici ed inutili, che si trasforma rapidamente in falò delle vanità all’atto dello spoglio.
Alcuni dati: Gorizia ha 35.000 abitanti, ma ha potuto scegliere tra nove candidati e ben ventuno liste a sostegno. Ventuno simboli policromi, molti inventati sul momento da grafici improvvisati, e chissà la spesa per posizionarli tutti in bella vista nella scheda lenzuolo. La più viva solidarietà va al signor Franco Bertin, candidato sindaco che ha ottenuto un’ottantina di voti, meno delle sottoscrizioni necessarie per la presentazione della candidatura. Il caso della città isontina non è isolato, poiché sono centinaia i comuni in cui le cosiddette liste civiche hanno sovrastato per numero ed affollamento quelle dei movimenti tradizionali. Non di rado, si tratta di un collaudato travestimento dei partiti che ben conoscono la scarsa simpatia degli elettori, ma ci sembra il contrario di una democrazia in salute, una vera e propria febbre, il sintomo che qualcosa non va, e che, scherzavamo all’inizio, davvero c’è del marcio in Danimarca e nel Bel Paese.
In compenso, ed è l’altra faccia del problema, non pochi sono stati i piccolissimi comuni in cui le elezioni non si sono svolte per mancanza di candidati o che hanno votato un’unica lista. I municipi sono troppi, ottomila, un numero spropositato sono minuscoli, impossibilitati ad erogare servizi minimi: ad Argentera, poche case di pietra tra le cime grigie delle Alpi Marittime, il sindaco è stato eletto con una specie di plebiscito, ma i voti sono stati 49!
Abbiamo trascorso alcune ore sul gradevole sito ministeriale dedicato ai risultati elettorali, e, lo diciamo con qualche vergogna, non abbiamo capito molto su vincitori e vinti, chi sale e scende. Specialmente nelle regioni del Sud, ma il fenomeno è in forte crescita ovunque, abbiamo verificato una proliferazione di candidature e liste che assomiglia ad un rizoma incontrollato. Nomi fantasiosi che non fanno capire nulla dell’orientamento degli schieramenti in campo, simboli le cui uniche costanti sembrano i colori vivaci, un’invasione di cuori e cuoricini, una consolante (se non si trattasse di una forma sofisticata di imbroglio) presenza del tricolore patriottico. Ma il patriottismo a tariffa, lo sappiamo, è uno dei rifugi dei mascalzoni. Tra le parole più diffuse, quelle che richiamano all’unione: uniti per Vattelapesca, unione civica e di seguito, il nome delle mille città e paesi al voto. E’ l’Italia Arlecchino, e non è certo per caso che la maschera tradizionale del teatro veneziano era servitore di due padroni. Del resto, Franza o Spagna purché se magna, è il vero motto araldico del S.P.Q.I (Senatus Populusque Italicus).
Chi ha vinto, dunque, giacché poi quella è la domanda che esce da tutte le bocche? La risposta è: boh. Premesso che nelle città più grandi si andrà al ballottaggio quasi dappertutto, quindi un giudizio serio è rimandato di due settimane, alcune considerazioni politiche sono già possibili. La più urgente riguarda una fuga dalle urne che sa di rassegnazione, o, al contrario, di consapevolezza che i prodotti sono intercambiabili. Tutti conosciamo le migrazioni da un partito all’altro. Valgono per i fratelli maggiori del parlamento, ma nei comuni il fenomeno è ancora più esteso ed irritante, tanto se ne comprende l’inconsistenza politica e programmatica e, invece, l’urgenza di costruire o salvaguardare carriere personali, tutt’al più di proteggere i bacini clientelari di riferimento.
Dal punto di vista di chi propugna forti cambiamenti, c’è una doppia delusione. Scontenti ed incazzati non si uniscono, le voci, numerose e vivaci, non diventano coro né orchestra. Vince il piccolo cabotaggio, il voto d’interesse e comunque, anche a ballottaggi eseguiti, sarà facile a tutti affermare di aver vinto. Il panorama è troppo frastagliato per essere ricompreso ad unità. La sinistra perderà qualche città, il centrodestra riprenderà alcune amministrazioni perdute nei negativi anni successivi al 2011- fine del governo Berlusconi e decomposizione dell’alleanza. Improvvidamente, specie dal PD si celebra anzitempo il funerale dei grillini, effettivamente estromessi da molti ballottaggi.
Wishful thinking, è solo un auspicio o pio desiderio, secondo noi. Il voto a 5 Stelle è essenzialmente politico, non si trova a suo agio nei meandri delle burocrazie amministrative, difficile è reclutare gruppi dirigenti che siano capaci non tanto di amministrare (di incapaci con la fascia tricolore è piena l’Italia), ma di convincere quell’Italia nascosta e di mezzo che va dove la porta la convenienza o il portafogli. Certo, liti genovesi ed insuccessi romani hanno avuto un peso, ma allora sarebbe inspiegabile la tenuta del PD, che regge perché ha in mano le redini del potere e quindi i cordoni della borsa, tanto utili allorché si tratta di eleggere sindaci. Grillo ha subito una battuta d’arresto, ma il radicamento dei suoi procede, pur se con problemi, mal di pancia, con il pessimo esempio romano e tante incongruenze. C’è da sperare che esca di scena l’insopportabile Di Maio, il ragazzetto primo della classe carino, elegantino, moderatino, maestro dell’aria fritta e dello zucchero filato. Assomiglia per molti tratti al giovane Fini, un politico multiuso in confezione infiocchettata trompe l’oeil ad uso dei più ingenui, tipo pasticceria del Corso, tutto chiacchiere, distintivo e vuoto pneumatico.
Sul centro destra, che dire? Torna competitivo, non è una Ferrari, ma se la gioca nuovamente. Come, ed a che prezzo? Se a trazione liberale ed europeista, è indistinguibile dal PD, se sovranista ed anti immigrazione perde il gradito sostegno di quei settori dei poteri forti interessati all’impresa, alla globalizzazione, alla diminuzione delle tasse per le persone giuridiche ed al dumping assicurato dalla precarizzazione di massa e dall’esercito di riserva dell’immigrazione. La sinistra sociale, non pervenuta, tra comici campi progressisti, vecchi fusti imbolsiti come D’Alema e Bersani e la sbornia dei nuovi diritti individuali, l’innamoramento per gli stranieri e l’indifferenza per la sorte di nuovi e vecchi poveri. Per dirla con Hegel, hanno dismesso la dialettica servo-signore per indossare la livrea gaia, multiculturale ed animalista (ma Berlusconi incalza, con i suoi agnellini ed il cagnolino Dudù).
Il quadro, insomma, non è consolante, e forse la miniera inesplorata è nascosta in quell’immensa prateria di italiani che non ci stanno più o non ce la fanno più. La moderazione, la corsa al centro consentono di guadagnare il consenso di chi sta bene e giocarsela in futili ballottaggi. Ma c’ è un mondo là fuori, una giungla da esplorare, con la speranza, i rischi e le difficoltà del caso.
Possibile che nessuno alzi la testa, che tutti siano d’accordo, oppure l’essenziale è davvero invisibile agli occhi, secondo la bellissima definizione di Saint Exupéry? L’essenziale è raccogliere la bandiera di cambiamenti forti, decisi, autentici salti di marcia. Questo è il messaggio di quel terzo abbondante di italiani che non vota, simile per numero agli esclusi del mercato e della globalizzazione, ma è anche il messaggio di ampi settori che votano Lega, Fratelli d’Italia, Grillo, sinistra radicale e perfino destra radicale, che ha battuto un piccolo colpo, una sorta di esistenza in vita.
Manca il fronte, è assente l’idea in comune, la scintilla. Occorre farla scoppiare, o vinceranno ogni volta i furbi, gli allineati, i politicamente corretti. Agli altri, che sono la maggioranza numerica, ma il nulla politico, non resterà che consolarsi con l’aglietto, alla romana, mentre i finti buoni, i falsi moderati, i riflessivi e i conformisti continueranno i loro affari travestiti da ottime intenzioni, retorica, vuote quanto giudiziose enunciazioni.
Più che mai, dalle urne vuote di Francia ed Italia, emerge la lezione di Gaetano Mosca e Roberto Michels sulla ferrea legge delle élites, oggi trasformate in semplici oligarchie. Cento organizzati l’avranno sempre vinta su mille, diecimila sbandati privi di un progetto e una guida. Le classi politiche, poi, non si sostituiscono, ma si cooptano con maggiore o minore velocità a seconda dei momenti storici. Lo strappo, la spallata, sembra allontanarsi, intossicata dalla palude. Gli assenti, tuttavia, hanno sempre torto, pur avendo ottime ragioni. Soprattutto, non fanno la storia. Il timore è che abbiano rinunciato anche alla cronaca, se non creano nuovi e grandi movimenti sociali. Solo allora si potrà andare alla riscossa, ed allora ben poco importerà di ballottaggi, faccine e faccioni di ambiziose nullità, centro, destra, sinistra e dintorni, parti in commedia di un unico copione.
Ad oggi, il messaggio è ancora in negativo, e resta quello descritto in poesia da Eugenio Montale in Ossi di Seppia: “Questo soltanto oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.” Ecco perché, in molti, perdiamo per rinuncia, e, in politica come nella vita vincono bande di mascalzoni “uniti per Roccacannuccia”. Il nome d’arte dei fatti loro.
ROBERTO PECCHIOLI