di Roberto PECCHIOLI
Non ci salveranno le vecchie zie. Lo sognava Leo Longanesi addirittura nel 1953, scrivendo un sapido libello interrogativo: ci salveranno le vecchie zie? Per il sulfureo polemista romagnolo la speranza era ancora lecita; cinque anni prima era stato il voto femminile a gonfiare le vele della DC nel cruciale scontro con il Fronte Popolare. Saggezza popolare delle italiane di ieri. Per Longanesi le zie – residuo di un’Italia paesana e cattolica, provinciale e di buoni sentimenti- erano maestre, “fusti di quercia, dalle radici ben solide”, “custodi dell’ordine classico”, “fedeli gendarmi dello stato”, portatrici del decoro, dei principi morali e delle norme pedagogiche. La specie delle zie era in via di estinzione già in quei lontani anni in bianco e nero, spodestata dal progresso e da nipoti dai sogni a colori. Era l’emblema di un’Italia antica dal candore provinciale, ossatura della nazione, delle cose solide e ben fatte.
Un brano desta in noi un’acuta nostalgia, la consapevolezza di aver perduto irrimediabilmente qualcosa, oltre alle zie. “Tutto, in Italia, procede nel peggiore dei modi, a giudizio del piccolo borghese, ma egli crede di potervi porre rimedio; è certo di riuscirvi spendendo di meno, lavorando di più e meglio. Le riforme le compirà lui, di persona, a sue spese, con la sua fatica. Egli crede in sé. La storia non è trascorsa invano: qualcosa hanno lasciato in lui le rivoluzioni e le guerre, le idee e i miti. La sua cultura è generica, ma egli vi crede E possedere una vocazione è la sua vera ricchezza, il suo vanto, il suo segno di distinzione. “
Le zie, le mamme e le sorelle, all’epoca, votavano DC, per il re esiliato o la fiamma di un regime sconfitto. Oggi le cose stanno diversamente: si è creata una frattura, una preoccupante breccia ideologica tra i sessi. Si è formata negli anni Settanta del secolo passato, uno dei regali del Sessantotto, della liberazione sessuale, del rovesciamento dell’etica familiare, dell’irruzione nel mondo del lavoro, della “pillola” e dell’aborto legale.
Negli Stati Uniti il fenomeno è oggetto di studio sin dagli anni Ottanta: le donne sempre più progressiste, gli uomini più conservatori. In Italia le zie di ogni età con il volto di Emma Bonino e Nilde Iotti. Usiamo le categorie progressisti/conservatori per facilità di comprensione. Destra e sinistra significano poco, specie perché bisognerebbe capire rispetto a che cosa si è dall’uno o dall’altro lato. Più concrete sono coppie oppositive come alto-basso, centro-periferia, inclusi-esclusi. Altrettanto centrali, ai fini del posizionamento ideale, sono le questioni generazionali. Chi si formò negli anni Settanta era di sinistra e rivoluzionario, nel decennio successivo il cosiddetto riflusso popolò l’occidente di riformisti e di edonisti.
Le esperienze comuni contano. La generazione X – nata tra il 1965 e il 1980- si formò in un tempo di conflitti chiari e di vittoria del modello capitalista, di crescente integrazione e prosperità; mediamente è più conservatrice. La crisi del modello globalista degli anni 2007-2008 ha orientato sul crinale progressista i Millennials, mentre pare conservatrice la generazione Z – i più giovani – benché afflitta dal timore “climatico” e convinta che l’aborto sia un diritto. Classificazioni con un fondo di verità, ma troppo schematiche.
Ciononostante, la differenza di orientamento ideale tra uomini e donne esiste in tutto l’Occidente. Donne progressiste, uomini conservatori. Forse per questo il sinistrissimo Michael Moore- gran nemico del maschio bianco eterosessuale – scrisse un libro dal titolo Stupido uomo bianco. Stupidità, razza e sesso (maschile) sono evidentemente collegati, nelle incerte sinapsi dei radicali nemici di se stessi.
Le distanze politiche tra i due sessi si allargano di anno in anno. L’ istituto Gallup analizza le differenze dal 1998; una delle domande rivolte a giovani tra i diciotto e i venticinque anni riguarda l’identificazione con il termine “liberal”, cioè progressista. Sino al 2008, la differenza tra maschi e femmine era di cinque punti. Nel 2016, la forbice era salita a dieci. Da allora le distanze si impennano sino al 2021, in cui il 44 per cento delle ragazze si dichiara progressista contro il 25 degli uomini. La breccia ideologica è enorme, nonostante l’appartenenza alla stessa generazione.
Daniel Cox, politico americano di destra, fornisce spiegazioni abbastanza convincenti. Ci sono molte meno donne sposate di età inferiore ai trent’anni rispetto a prima: solo il 15 per cento di loro oggi è coniugata, rispetto a oltre un terzo di vent’anni fa. Le nubili si sentono più unite ad altre donne e questa connessione può portarle a identificarsi in cause progressiste. Vedono le politiche pubbliche come un supporto per la loro situazione, mentre se sono sposate sono portate a proteggere anche gli interessi dei loro mariti e della famiglia. Il crollo dell’istituzione matrimoniale è quindi la vera causa efficiente.
Un’altra importante differenza è che le donne hanno superato da tempo gli uomini nella carriera accademica e chi ha un’istruzione superiore tende ad essere interessato alle idee più recenti. Nel contesto attuale, ciò rende probabile che siano progressiste. Inoltre, è frequente che le persone con laurea vivano in grandi centri, e l’ambiente urbano è più “a sinistra” rispetto alle aree rurali, ai piccoli centri e al contesto suburbano.
Le giovani donne (ma anche le loro madri) sono il gruppo sociale in cui è maggiormente caduta l’identificazione e la pratica religiosa. Non siamo certi che questo dato sia una causa o un sintomo del cambiamento, ma si tratta di un fatto di notevole rilevanza, poiché la fede religiosa è trasmessa principalmente dalle madri e dai membri femminili della famiglia. Tutto questo aiuta a capire la breccia ideologica tra i sessi, ma non del tutto. Un divario di venti punti richiede una spiegazione più complessa. Per quanto riguarda l’America, non ci sembra sufficiente il fenomeno #MeToo, il movimento contro la violenza sulle donne esploso nel 2017, che pure ha inciso sulla percezione di comportamenti prima giudicati in modo diverso. Hanno certo contribuito la polarizzazione politica iniziata con il fenomeno Trump, la cultura della cancellazione e l’ideologia del vittimismo etno-razziale e delle minoranze sessuali, ampiamente sostenuta dal femminismo radicale, in nome dell’ideologia dell’”intersezionalità”.
Senza pretendere di spiegare fatti complessi in maniera semplificatoria, siamo convinti che il tema dei diritti civili, diventato ideologia- il “dirittismo” – attecchisca assai più tra le donne che tra gli uomini. Due esempi tra tutti: la difficoltà di discutere con loro dell’aborto in maniera serena, un tema delicatissimo sempre, ma che suscita reazioni furiose al di là delle preferenze politiche e perfino delle appartenenze religiose. L’altro argomento è l’immigrazione: le donne sono più portate all’inclusione e all’accoglienza, forse un elemento istintivo, genetico. L’uomo è più territoriale, protegge tutto ciò che ritiene suo; la donna che dona la vita è più portata all’accoglienza, una forma di difesa della prole (che non ha quasi più). La breccia ideologica è reale e va approfondita. In primo luogo, la frattura non si è formata su temi di politica economica né su una minore o maggiore adesione al sistema. Tuttavia il vero crinale, al di là della sorprendente distanza ideale tra i sessi, è sui concetti. Il criterio progressismo-conservatorismo non spiega la nostra società e le sue divisioni.
Come ha intuito Cox, le linee che separano sono altre, e rimandano alle tre coppie citate all’inizio. Alto-basso è la prima. Le preferenze politiche tra chi appartiene a classi sociali alte si è rovesciata ovunque. Lo dimostra con dovizia di argomentazioni Luca Ricolfi nel saggio La mutazione. I ceti abbienti- al di là dei sessi- votano a sinistra, le classi medie e basse a destra. Gli uni hanno generalmente lauree, master e diplomi, gli altri possiedono un’istruzione meno elevata. Istruzione, non cultura: gran parte dei laureati e di chi sfoggia titoli post universitari sono specialisti, non persone colte. Più degli altri vivono in città, poiché è nei grandi centri urbani che sono richieste le loro competenze. Sono meno radicati di tutti gli altri: apolidi a loro agio ovunque poiché la loro patria è il denaro, il successo. Hanno scarso interesse per la famiglia e sono poco interessati ai diritti sociali: non ne hanno bisogno. Dunque, la frattura, la breccia ideologica che abbiamo constatato tra maschi e femmine è accompagnata da altri epifenomeni: il titolo di studio, la residenza, il radicamento territoriale, l’identità familiare e spirituale, il lavoro. La vecchia destra e la vecchia sinistra non corrispondono più al nuovo caleidoscopio sociale. Alto-basso e poi centro-periferia: l’universo rurale, ma anche quello dei pendolari, di chi vive faticosamente il suo rapporto con lavori lontani, sgradevoli, faticosi. E ’ il ritratto dei gilè gialli francesi.
La vera breccia è tra esclusi e inclusi, vincenti e perdenti della postmodernità. Sempre più sono perdenti gli uomini, che svolgono i lavori più duri e faticosi (guardate le statistiche sugli incidenti e i morti sul lavoro). Perdente chi vive in piccoli e medi centri con pochi servizi, non ha potuto terminare gli studi o si è dovuto adattare a occupazioni inferiori alla qualificazione, precario, malpagato. I progressisti sono spesso i “primi”, benché la coscienza infelice li porti a simpatizzare per gli “ultimi”, categoria rappresentata soprattutto da immigrati e minoranze sessuali. I “conservatori” (mai parola fu meno adatta) sono soprattutto gli esclusi e, tra gli inclusi, chi vive una situazione di rischio. Lavoratori autonomi e loro dipendenti, sottoposti agli scossoni del mercato. Infatti, insieme con i “primi”, gli inclusi e vincenti, l’altro grande serbatoio “progressista” sono i ceti garantiti: dipendenti pubblici, di aziende sindacalizzate o sottratte al mercato. A rigore, se utilizziamo i termini conservatore e progressista, li dovremmo riassegnare. La società del rischio, gli esclusi e in generale i penultimi – a cui nessuno pensa benché siano milioni- che cosa hanno da conservare? E quale progresso, cioè cambiamento, dovrebbe volere chi sta bene, gode di opportunità, titoli di studio e alto reddito, vive nel centro delle città e si gode lunghe vacanze, spesso ogni fine settimana? I vincenti – uomini e donne- sono i veri conservatori. Vediamo dunque come le categorie della sociologia e i termini che descrivono la società, le sue preferenze e le idee, sono inappropriati e rovesciati. Torna la contrapposizione sui valori fondanti della società. L’identità personale, civile, sessuale, il ruolo della famiglia e della comunità, l’adesione o meno a valori spirituali, la posizione sui “diritti”. Individuali, soggettivi, ma specchio della società nel suo insieme. In questo senso, ci sembra più significativa la divisione politica e valoriale scoperta tra i sessi. E’ in quell’ambito che la società ha cambiato pelle: le zie che ci salvarono e le donne che rappresentavano la spina dorsale della società, perno della famiglia, dispensatrici di vita e di cura, sono ora la punta avanzata di quello che chiamiamo progresso. Per alcuni versi, è un bene. La specifica sensibilità femminile, la diversa visione delle cose arricchiscono il mondo. Ma siamo certi che la società sia migliorata? Le donne sono per natura conservatrici: non può essere altrimenti, danno e difendono la vita, sanno crescere e educare figli e familiari, sono il sale e il cemento di ogni comunità. La breccia ideologica che le vede contrapposte ai loro uomini, ai loro stessi figli, all’intero universo maschile, è la più innaturale e la peggiore vittoria di un sistema folle e disumano. Nel conseguire la parità, hanno imitato i peggiori difetti maschili. Uguale sorte- capovolta- è toccata al perdente per antonomasia della modernità, il maschio normale, oggi detto eterosessuale. Forse per questo, disprezzato, escluso, si ritiene “conservatore”. Facciamo un passo avanti: colmiamo la breccia ideologica, diventiamo rivoluzionari. Questo sarebbero le zie, se ci fossero ancora.