di Roberto PECCHIOLI
Nella tempesta del Covid 19, del Grande Reset e dell’Agenda 2030 dell’ONU si perde di vista l’essenziale, ossia la rapidissima cancellazione dell’umano e del naturale. Assistiamo alla creazione di una specie post umana e all’imposizione di un “essere nel mondo” assolutamente diverso rispetto a quello della vecchia, antiquata umanità.
L’uomo diventa (definitivamente?) materiale disponibile. L’Occidente terminale nega se stesso e i fondamenti di trenta secoli di civiltà, e trascina nel suo delirio di onnipotenza “tecnica” la specie, corpo vile di un progetto dagli esiti indefiniti.
Al riguardo, spiace dover constatare l’afasia di buona parte del mondo liberale e conservatore, come sempre in tutt’ altre faccende affaccendato. Del resto, mentre Sagunto era espugnata, a Roma ci si limitava a discutere.
Per fortuna non tutto è silenzio, e ci piace ricordare un giornalista di sinistra come Fulvio Grimaldi, che parla apertamente di disastro pianificato dalle oligarchie.
La follia neoliberista della “distruzione creativa (J. Schumpeter) ha azzerato le necessità immateriali dell’uomo “che nutrono lo spirito e fondano la socialità”. Sono l’arte, lo sport, la cultura, lo spettacolo, la convivialità, tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
Giorgio Agamben parla di vita ridotta a sopravvivenza (zòe), deprivata di ogni elemento di nobiltà e grandezza, sacrificata alla mera durata biologica, l esistenza in vita. Un altro pensatore, Byung Chul Han, coreano di lingua e residenza tedesca (ex Oriente lux?) avverte che la società dominata dall’isteria della sopravvivenza (fisica) è una società di “non morti”. La prognosi si spinge più in là: nella preoccupazione rivolta unicamente alla sopravvivenza noi siamo uguali al virus, questa creatura non morta che si limita a moltiplicarsi, a sopravvivere senza vivere.
Da tutto si inferisce che è in atto una guerra contro l’uomo, ovvero contro lo spirito. Non riusciamo a immaginare un società più radicalmente materialista, più ostile alla trascendenza, al pensiero, cioè alla persona umana nella sua unità inscindibile di corpo, anima e spirito, di quella contemporanea.
Spaventa il silenzio, il mutismo della Chiesa e di parte della cultura cristiana.
Sostituito Dio con l’uomo – la cosiddetta scelta antropologica– sono venuti meno gli strumenti per reagire e persino per parlare. L’umanesimo cristiano contemporaneo diventa silente poiché non ha più nulla da comunicare all’uomo, ed è quasi altrettanto materialista delle culture dominanti, ai cui piedi le chiese si sono accucciate.
Nulla rimane perfino dell’equivoco umanesimo integrale di Maritain, che certo non escludeva Dio.
Avvertiva Chesterton che quando si sottrae ogni realtà alla dimensione soprannaturale, questa non diventa naturale, ma antinaturale. Corriamo a tappe forzate verso un homo animalis ontologicamente uguale agli altri mammiferi.
Pochi giorni fa, ascoltavamo un conoscente disprezzare l’arte perché “non dà da mangiare”. Che ne penserebbe l’antenato che nella grotta di Altamira disegnò per primo- eternizzandolo- ciò che vedeva fuori dalla caverna? Non di solo pane vive l’uomo, disse qualcuno che neppure la Chiesa forse considera più figlio di Dio.
Dante dette voce all’ansia di scoperta, all’eccedenza invincibile dello spirito umano rispetto alla nuda vita in una straordinaria terzina dell’Inferno: “considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.
All’occidentale contemporaneo non importa nulla della “semenza”, ovvero di se stesso come specie e civiltà. Prigioniero del principio di piacere, è interessato unicamente a prolungare la sua vita (non esistenza, che presuppone autocoscienza, senso del Sé).
Lo stesso Dante fa dire a Ulisse “dei remi facemmo ali al folle volo”. L’uomo ha per vocazione di volare, andare oltre come Icaro, ma la mitologia greca condanna l’assenza di limite, la hybris della creatura che si sostituisce agli Dei.
Fu il cristianesimo a risolvere la contraddizione ed è sempre Dante a tagliare corto. “State contenti, umana gente al quia, che se potuto aveste veder tutto, mestier
non era parturir Maria”.
Tutto superato: in alto, un’oligarchia decisa a oltrepassare l’uomo nel transumano, ibridandolo con la macchina. In basso, per il resto dell’umanità il destino sembra essere quello di una vita animale, senza scopi diversi dalle funzioni biologiche e dai piaceri volgari. Sostituiti dal robot nel lavoro, dai cervelli elettronici e dagli apparati artificiali nelle decisioni, assomiglieremo sempre più al leone sazio che sonnecchia e aspetta i morsi successivi della fame.
La novità è l’estensione dell’operazione in atto, per il resto nulla di nuovo: panem et circenses come al tempo dei Romani.
Si è stabilita, all’ombra della tecnologia e della scienza convertite in culto obbligatorio, un’alleanza tra materialismo e individualismo che non distrugge solo la comunità e la società, ma cancella l’umano. L’uomo diventa definitivamente lupo a se stesso, o sciacallo, nello stesso momento in cui si riduce a gregge, puntino esonerato dal pensiero la cui zavorra è l’anima.
Il sacro è deriso e sfrattato da zòe. La forza del rito e la funzione dei simboli è negata, incompresa, celata dietro le luci dello spettacolo. Ancora Byung Chul Han mette in guardia da quest’ulteriore perdita. L’ ossessione narcisista, la costante ricerca del nuovo e dell’inedito, la bulimia consumistica dell’usa e getta determinano la scomparsa delle forme simboliche e delle pratiche rituali, privando l’uomo di gesti atemporali dal potere unificante.
Il silenzio, il raccoglimento, il senso di sacralità necessari allo svolgimento del rito fondano un legame tra il sé e l’Esterno, tra il sé e l’Altro, “oggettivano il mondo, strutturano un rapporto con il mondo”, creando una comunità senza comunicazione.” Alla comunità senza comunicazione, propria della società rituale, Han contrappone la comunicazione senza comunità, il baccano in cui il soggetto-atomo si ritrova a girare a vuoto attorno a se stesso in un mondo radicalmente disincantato, ossia disumanizzato.
Serve una controrivoluzione, cioè, con il vocabolario di Joseph De Maistre, il contrario della rivoluzione che ci ha condotto fin qui. La vita “pratica” (vita activa, nel linguaggio di Hannah Arendt) non esaurisce né soddisfa l’uomo, ma lo precipita in un cortocircuito in cui la mancanza di senso conduce alla noia assoluta o alla paura che si fa orrore e poi sgomento, poiché ogni paura umana è, alla fine, terrore della morte, la “mia” morte. In questo senso e dal suo punto di vista, il potere ha lavorato benissimo.
Prima ha cancellato la religione, poi l’idea di Dio, quindi la spiritualità umana, infine ha sostituito il Creatore con il creato e la creatura. Lo snodo finale è la regressione animale priva dell’innocenza e con il tarlo della fine: l’uomo è l’unico animale che muore davvero, poiché conosce il suo destino.
Ridotto a esemplare d’allevamento, ha dimenticato la trascendenza, spento la luce dell’anima e confuso lo spirito con un’equivoca emotività. La paura della morte che ci ha cambiato così a
fondo nel fatidico 2020 è connaturata all’essere umano. I popoli e i tempi che hanno mantenuto la fede religiosa sono riusciti a non farsene sopraffare. A differenza dell’individualismo materialista disumanizzato che ci ha fatto ignorare la fine dei nostri cari e a tacere dinanzi al divieto dell’assistenza e delle onoranze funebri, è la dimensione spirituale, non la coscienza comune della morte, a generare condotte solidali verso chi è fragile, empatia autentica con il malato e il sofferente, lasciati morire come cani rognosi. Dove la fede è sparita, la paura della fine si è esacerbata, eterminando panico e angoscia generalizzata, mascherate da emotività presto trasformata in fatalismo disperato, come nella lirica Aspettando i barbari di Konstantinos Kavafis. “Perché i valenti oratori non vengono a snocciolare i loro discorsi, come sempre? Oggi arrivano i barbari: sdegnano la retorica e le arringhe. Perché d’un tratto questo smarrimento ansioso? (I volti come si son fatti seri). Perché rapidamente le strade e piazze si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?“
Il rancore reciproco, la sfiducia, la lontananza guardinga sono la stazione terminale della disperazione atea. A volte essa si esprime con violenza, come lo scorpione che scalcia nell’agonia, altre volte diventa la silenziosa fuga di chi si rinchiude. Unico obiettivo: prolungare la vita-zòe di un altro po’.
Osservava Giuseppe Prezzolini che quand’anche la vita umana durasse cinquantamila anni, sarebbe sempre un limite, una frontiera irrevocabile. Da un anno, pare tramontato anche il nebuloso concetto di “qualità della vita”. Nel regno della quantità, conta la durata.
L’assalto ai vaccini ne è la prova: chi ha potere e denaro scavalca tutti gli altri:
l’unica vita che importa è la propria. Nulla conta che sia mercificata integralmente ed il corpo fisico, sotto il biopotere, sia oggetto di compravendita.
Si acquistano i figli, gli organi (parti e pezzi staccati di uomo) si commerciano umori biologici come lo sperma, si immette nel circuito produttivo il feto umano abortito, assai ambito in certe produzioni industriali, si affitta l’utero della donna povera. Perché mai l’uomo dovrebbe essere ancora considerato un valore in sé, o, come tentava di spiegare Kant ai suoi amici illuministi, un fine e non un mezzo? Tutt’al più, è un fine (individuale) il corpo. Lo dice Ernst Juenger: “il segreto nella moderna sensibilità sta nel fatto che essa corrisponde a un mondo in cui il corpo è il valore supremo“.
Dunque, siamo oggetti: la reificazione dell’uomo.
La salute, attraverso la medicalizzazione totale della vita, è un’obbligazione scandita dagli ordini impartiti dagli esperti. L’uomo scompare anche nella perdita progressiva di autonomia: molte funzioni – fisiche e cognitive- sono delegate alle macchine. Gettiamo anche la memoria: non solo quella storica, ma la capacità prodigiosa di apprendere e trattenere le conoscenze. A che serve lo sforzo, se dentro un minuscolo apparato elettronico ci sono tutte le risposte?
Così riflettevamo in Tecnopolis (Effepi, 2019). “Arnold Gehlen1, maestro dell’antropologia filosofica del Novecento, definiva l’uomo essere che prende posizione. Una specie priva di una sicura condotta determinata dagli istinti che guidano gli animali, quindi manchevole, lacunosa, non specializzata. (…) La specializzazione nostra è la cultura, la capacità di accumulo di conoscenze, la tendenza all’azione, la volontà di potenza. Attraverso tali caratteristiche, l’uomo si “esonera”. L’esonero (entlastung) è la somma sempre aperta a nuovi addendi di prestazioni cognitive che moltiplicano le possibilità ed il padroneggiamento dell’esistenza da parte dell’uomo a patto che sussista un’apertura al mondo.
L’uomo è tanto più esonerato quanto più avanza la sua capacità di indagine sulla realtà. I suoi mezzi principali sono il linguaggio ed il pensiero astratto, le prestazioni esonerate sono le abitudini, le idee elaborate. La novità è che siamo ad una svolta della storia dell’umanità in cui la specie esonera se stessa e si affida a ciò che è altro da sé, le macchine da lei stessa costruite, sino alle nuovissime forme artificiali di vita “cosciente”.
I pericoli sono immensi, e fanno ritenere che il cammino verso l’uomo 2.0 sia irreversibile. Gli interessi in gioco, nonché le conseguenze civili, economiche, antropologiche ed esistenziali sono incalcolabili, e le derive riguardano tutti, con la possibilità che i meccanismi sfuggano dalle mani, pessime ma ancora umane, di chi è ai vertici e negli stati maggiori del progetto. Il problema è la progressiva incapacità di fare domande, ovvero di abdicare alla condizione umana. “
Dipendente dalla parola salvifica degli esperti, dagli strumenti tecnici e dal desiderio che non si sazia, alimentato dal meccanismo del cane di Pavlov, che sbava alla semplice idea del cibo,l’uomo postmoderno si esonera da se stesso, dipendente come mai prima dalla volontà altrui.
Non ha più in tasca il “suo” denaro, ma una carta fornita da qualcuno che può revocarla o bloccarla; non ha più gusti o desideri propri, prigioniero della narrazione pubblicitaria, scambiata per verità nella confusione di messaggi e nel sovraccarico di “news” contraddittorie.
A ogni avanzamento della tecnologia, egli affida una parte ulteriore di sé, delle sue capacità e funzioni biologiche e cognitive a qualcun altro, chi controlla e possiede il mezzo tecnico. Bastano le dita per pigiare sui tasti e azionare i comandi di strumenti che fanno al posto nostro ogni gesto, ossia si sostituiscono a noi.
L’automazione renderà superfluo il lavoro umano in moltissime attività. Si diffonderà, oltre a un’ulteriore dipendenza dalla macchina, la subordinazione a redditi di sussistenza, antidoto
alla rabbia sociale.
La specie umana- o buona parte di essa- vivrà lontana dal lavoro, dall’aggregazione comunitaria, dalla creatività e dalla dignità che ne deriva, in attesa dell’accredito del sussidio.
Un’ ulteriore dipendenza, aggravata dal fatto che il reddito verrà attribuito in forma elettronica e non potrà essere speso se non nei modi, nelle forme, per beni e servizi decisi dall’alto. Il rischio è di generare due umanità distinte e incomunicabili:
l’oligarchia, sempre più ricca, potente, orientata al transumanesimo e una massa sottostante,
non plebe, ma sottospecie largamente animalizzata e forse modificata – a lungo termine – dalle radiazioni e dalle sostanze chimiche contenute nei medicinali e nel cibo. L’inveramento
tecnologico degli “ultimi uomini” ammiccanti di Nietzsche.
Il fenomeno, spiega Giorgio Agamben, va considerato nella prospettiva della specie. Un secolo fa, lo scienziato olandese Ludwik Bolk aveva previsto che “gli apparati tecnici cui l’uomo si affida in misura crescente per poter sopravvivere avrebbero raggiunto un punto di
esasperazione estrema in cui si sarebbero rovesciati nel loro opposto e avrebbero finito per
causare la fine della specie. “Altri mostrarono che l’esternalizzazione delle funzioni degli organi corporei produce la loro progressiva disattivazione per affidarle a strumenti artificiali. A ogni progresso tecnico corrisponde un regresso funzionale, che, se spinto oltre un certo limite, può mettere in questione il futuro della specie. Agamben conclude con un moto di speranza rintracciato nelle parole di un grande della Grecia classica, Euripide: “ciò che ci aspettavamo non si è compiuto e gli Dèi trovano una via per l’insperato”.
Un ulteriore problema è la rarefazione del linguaggio, la sua sostituzione con cifre e algoritmi.
Sentiamo ancora Agamben: “la verità si sposta dall’ambito delle parole e della lingua in quello dei numeri e della matematica, il linguaggio, ridotto a sistema di segni convenzionali, senza più rapporto con la verità, può diventare una prigione. Forse gli uomini non sono mai stati così inermi e passivi di fronte a un linguaggio che li determina in misura crescente.” E che finisce per essere un elemento ulteriore di disumanizzazione. Se questo è vero, la via per l’insperato invocata da Euripide è il ritorno di un umanesimo aperto alla trascendenza. E’ la tesi di Eugenio Capozzi, autore del recente L’autodistruzione dell’Occidente.
Si tratta di recuperare le radici della visione dell’uomo fondata dalla civiltà greca e romana, portata a sintesi nell’incontro dei popoli d’ Europa con il cristianesimo, educati al rispetto della persona umana e alla libertà di coscienza. Una civiltà, tuttavia, sussiste solo finché ci si sente accomunati da una medesima visione del mondo che adotta princìpi comuni e si riconosce nello stesso patrimonio simbolico.
L’umanesimo europeo, negata la matrice comune, ha sviluppato un virus potente quanto insidioso, l’odio di sé, un’autocritica radicale e distruttiva, la tendenza all’ auto relativizzazione, ossia a decostruire se stessa sino a non credere più in alcuno dei suoi principi. Prima, l’umanesimo europeo, diventato occidentale (mutazione che è stata l’inizio della fine) possedeva una fede tanto potente in se stessa da considerarla base autoevidente di una cultura universale. Da mezzo secolo, dopo il 1968, ha preso a immaginare i suoi principi come i peggiori al mondo. Il testimone inascoltato fu Joseph Ratzinger, papa Benedetto XVI. La sua definizione resta la più pregnante: dittatura del relativismo “che non riconosce nulla di definitivo e lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”. Più di recente, dall’America abbiamo importato una variante del virus demolitrice, il relativismo diversitario che per Capozzi conduce “alle estreme conseguenze la cancellazione dei fondamenti religiosi del costituzionalismo, del liberalismo e della democrazia; ha promosso il ritorno a una concezione tribale e castale dei diritti soggettivi; ha legittimato su quella base la violazione del diritto alla vita, ha degradato l’essere umano a una condizione pari a quella animale, a ospite non essenziale dell’ecosistema. Ha amplificato a dismisura l’abisso tra élites ultra-borghesi persuase di poter ambire all’onnipotenza e masse destinate a fungere da materiale per i loro progetti di dominio.”
Ha determinato altresì un passaggio sorprendente dal libertarismo edonista a un autoritarismo di ritorno, esito di una visione integralmente relativista e materialista.
Non c’è possibilità di realizzare un recupero dell’umanesimo originale se non all’interno delle civiltà europee di matrice cristiana. Non vi sono alternative, non funziona un umanesimo alternativo a quello prodotto dalla nostra storia. Ogni contaminazione o pretesa di universalismo non può che sfociare in nuovo relativismo o nel nichilismo della “cultura della cancellazione “di cui siamo testimoni sconcertati. Fuori dal ritorno al reale, dal recupero di ciò che siamo diventati nel lungo processo di stratificazione storica che ha condotto alla “scoperta” della persona umana, della sua dignità e trascendenza, l’eredità possente che parte da Omero e passa per Atene, Roma e il cristianesimo, non c’è che una rapida disgregazione. Paul Valéry, dopo la prima guerra mondiale scrisse che le civiltà, da allora, sapevano di poter morire. Sempre, si tratta di suicidio.