di Roberto PECCHIOLI
Nella prima parte dell’elaborato abbiamo cercato di abbozzare una sommaria cartografia del fenomeno chiamato postmodernità, centrata sulla tesi che la condizione postmoderna altro non sia che l’estenuazione, il lento esaurimento della modernità, l’altra faccia della contemporaneità, la più funzionale all’universo neoliberale. Adesso, tentiamo di indicare alcuni lineamenti del fenomeno in cui siamo immersi. Un importante critico letterario americano, Terry Eagleton, sintetizzò i limiti della condizione postmoderna, insieme con la sua diretta filiazione dalla modernità, scrivendo che “il tipico prodotto postmodernista è giocoso, autoironico ed addirittura schizoide(…). Abbraccia spudoratamente la lingua del commercio e dei beni di scambio. La sua posizione(…) è una sorta di pastiche irriverente, e la sua deliberata superficialità incrina tutte le solennità metafisiche, a volte con una brutale estetica dello squallore e dello shock.” Una fotografia impietosa ma assai reale, che prosegue segnalando il “pluralismo ripiegato su stesso, quella schiera eterogenea di stili di vita e di giochi linguistici che ha rinunciato all’imperativo di totalizzare e legittimarsi”.
Una sorta di mosaico indistinto, meglio una serie di macchie diversamente colorate simili a quelle inventate da Rohrschach per il noto test psicologico che da lui ha preso il nome: ecco la postmodernità. Affiorano alla mente due versi del poeta irlandese W.B. Yeats “Tutto cade a pazzi, il centro non tiene/ il mondo è pervaso dall’anarchia”. Una creatività generica, eccentrica ed obbligatoria prende il posto dell’arte: pensiamo al fenomeno dei “writers”, i giovani che dipingono (secondo altri imbrattano) muri di palazzi, capannoni, muraglioni, carrozze ferroviarie con soggetti incomprensibili dai colori violenti e talora sovrapposti, con curve disarmoniche e geometrie frattali. Tutto si svolge nell’universo suburbano, poiché ogni luogo è periferia.
Il primo pensatore a soffermarsi sulla natura metropolitana dei tempi nuovi fu Georg Simmel all’alba del secolo scorso, nel 1911. In “La metropoli e la vita mentale” tratteggiò l’incredibile diversità di stimoli ed esperienze cui già esponeva la vita urbana. Il prezzo dell’aumentata libertà individuale, osservava l’autore della Filosofia del denaro, si paga trattando gli altri – e venendo trattati – nei termini impersonali, oggettivi e strumentali dello scambio mediato dal denaro.
Di qui sorse l’atteggiamento blasé, divenuto icona postmoderna, il tratto tra l’annoiato, il cinico e l’indifferente inteso come scudo difensivo per tollerare l’attività febbrile e l’eccesso di stimoli. L’unica via d’uscita consiste nel coltivare un finto individualismo attraverso il perseguimento di status symbol, o segni di eccentricità soggettiva. La moda associa il fascino della differenziazione e del cambiamento alla comoda seduzione della similarità e della conformità. Quanto più un’epoca è nervosa, concluse già un secolo fa Simmel, tanto più rapidamente mutano le sue mode, poiché il bisogno della differenziazione, che ne è un agente fondamentale, va a braccetto con l’affievolirsi delle energie nervose. Ci pare questo il ritratto più preciso della condizione postmoderna, scia ed esito della modernità.
La modernità scientifica ci ha abituato alle schematizzazioni, alla tassonomia, alle definizioni, in fin dei conti alle gabbie mentali. La postmodernità ne crea di nuove, con la differenza che non è più sicura dei risultati e, come sostenne Feyerabend, il suo metodo è non averne alcuno. Ci è tuttavia utile, a fini pratici, accettare la sfida ed offrire alcuni lineamenti della condizione postmoderna, utilizzando il metodo della comparazione e dell’esposizione di coppie oppositive, come fece, con una tabella molto famosa, il pensatore e sociologo egiziano americano Ihab Hassan, il primo a tracciare una mappa del postmoderno. Il merito di Hassan è stato quello di essersi richiamato a campi diversi, quali la linguistica, l’architettura (caos urbanistico anziché il “controllo” dei modernisti) l’antropologia, la filosofia, la retorica, financo la teologia, con l’opposizione Dio Padre (modernità) e Spirito Santo (postmodernità).
Citiamo alcune delle coppie della tabella di Hassan: progetto-caso; gerarchia-anarchia; opera finita- processo; concentrazione-dispersione; selezione-combinazione; radice/profondità-rizoma/superficie; significato /significante. Ed ancora; narrazione-antinarrazione; tipo/mutante; sintomo/desiderio; genitale-fallico/polimorfo-androgino; metafisica-ironia; leggibile-scrivibile; determinatezza-indeterminatezza; finalità- gioco; interpretazione/lettura- controinterpretazione/fraintendimento.
Su due punti dissentiamo da Hassan: egli attribuisce la trascendenza alla modernità e l’immanenza alla postmodernità. Ad avviso nostro, l’immanenza è caratteristica comune, con l’unica differenza del sincretismo avalutativo espressione del caos (calmo?) postmoderno. L’altro punto debole dell’analisi ci sembra quella dell’opposizione tra un asserito ed a nostro avviso inesistente romanticismo o simbolismo modernista, cui viene contrapposto il dadaismo postmoderno e la patafisica. In termini più comprensibili, il dadaismo fu un fenomeno artistico che assunse come punto di forza l’assenza di scopo e di messaggio , mentre la patafisica è la finta scienza delle soluzioni immaginarie, sino ad accreditarsi come studio delle leggi che regolano le eccezioni (!!). La tabella di Hassan è molto centrata nel secondo elemento della dualità, ma tende a contrapporre eccessivamente i due fenomeni, che, lo ribadiamo, sono sì distinti e distanti, soprattutto in quanto la modernità smonta, liquefa, decostruisce, ma sempre entro la cornice tracciata dal suo supposto antagonista.
Più interessanti sono le distinzioni tra creazione-totalizzazione- sintesi e i detriti postmoderni: decreazione, decostruzione ed antitesi. Il loro frutto rancido è il rifiuto di codici comuni, che comunque la modernità individuava nella scienza e nella ragione e che la contemporaneità svaluta nel soggettivismo più estremo. La linguistica e lo stesso Hassan lo chiamano idioletto, ovvero la lingua individuale, la particolare varietà d’uso del sistema linguistico di una comunità utilizzata da ogni singolo parlante. Insomma, la Babele che sperimentiamo quotidianamente, in cui ognuno sembra parlare per suo conto un linguaggio sconosciuto e mutante. Nella lingua spagnola esiste il termine “guirigay”, che designa l’incomprensibile, il borbottio informe degli idiomi sconosciuti. La postmodernità ci sembra un infinito guirigay in cui si è sopraffatti da un baccano atonale, incomprensibile, simile al rumore di certi locali affollati dove ad ogni tavolo si svolgono dialoghi separati e tutti sono costretti ad alzare il tono della voce, con il doppio effetto del frastuono e della scadente comunicazione.
Il fatto è che la modernità ha avvelenato i pozzi e tagliato definitivamente i ponti. La civilizzazione che si vanta di aver abbattuto ogni muro ne ha eretto al contrario di nuovi e possenti, il più impenetrabile dei quali è quello del progresso lineare, dell’obbligo di andare avanti, affermando il primato del nuovo e del presente, l’inclinazione a svalutare il passato sull’altare illuminista di una superata infanzia dell’umanità. Il postmoderno non sa e non può trasgredire gli imperativi del suo ascendente diretto. Si limita a destituirli del senso originario senza superarli: di qui visioni molteplici, relative, deboli, lo sguardo che, vietata come tabù superstizioso la torsione all’indietro, si volge all’interno, tutt’al più all’ombelico, nuovo traballante centro di gravità. Così si spiegano le pratiche subculturali della frammentazione, della rottura, dell’ibridazione, della dissociazione. Nessun senso di rimpianto o nostalgia per il passato, né memoria attiva, ma segno positivo di un’avvenuta maturazione dell’uomo.
L’illuminismo realizzato, anche nella versione debole, kantiana, subisce la sua stessa vittoria. Pensiamo alle acquisizioni della fisica, che hanno spezzato le orgogliose certezze della meccanica, ad esempio con il principio di indeterminazione di Heisenberg o il teorema di incompletezza di Godel, che, agli occhi postmoderni non fanno che alimentare l’ambiguità, la sconnessione, il gusto per il frammento, l’attimo, la citazione. Ai tempi di Roma, il dio più importante del Pantheon era Giano Bifronte. Tale divinità rivestiva un ruolo capitale nella sfera pubblica e in quella religiosa, poiché era il custode di ogni forma di mutamento, il protettore di tutto ciò che concerne una fine e un nuovo inizio. Per questo la sua iconografia è quella di un busto con due volti che guardano in opposte direzioni. Giano era per i romani il mitico sovrano dell’età dell’oro, portatore della civiltà e delle leggi. Passato e futuro, inizio e fine coesistevano organicamente nella sua figura.
Nei tempi nostri, al contrario, ogni codice comune viene delegittimato, come l’autorità, le convenzioni, le norme e le regole: unico denominatore, sovvertire, spaesare, demistificare. Estirpare le radici si può, ma per piantarne di nuove, possibilmente più forti e durature: tutte azioni espressamente vietate dal decostruzionismo, che detesta le identità e sradica anche da se stessi. Ogni cosa è ridotta alla sua superficie, all’immagine, ed è significativa la fortuna del concetto di “look”, quello che appare, distinto e distante da ciò che è, e l’utilizzo continuo di un’ironia distruttiva, prossima al sarcasmo. Un altro fondamento è la trasmutazione, nella forma dell’ibridazione, della parodia, del burlesco, nell’enfatizzazione di ogni promiscuità e confusione, nell’interesse spesso malsano per fantasie ed immagini oniriche. Tutto diventa prestazione, performance, con una dimensione di ostentata teatralità, come comprese per primo Guy Debord che intuì nella rappresentazione esibita il centro sgangherato della realtà, anzi l’unica realtà ammessa.
L’estensione dei sensi è nei nuovi strumenti della comunicazione (McLuhan) che l’umanità postmoderna vive come protesi e soprattutto sostituti dei rapporti comunicativi reali, creando linguaggi sempre diversi, ma ogni volta più vicini all’afasia: la neolingua degli SMS, l’ipertesto informatico e la multimedialità.
Come accennato nella prima parte, vengono generalmente citati come pensatori di riferimento postmoderno Martin Heidegger e Friedrich Nietzsche. Si tratta di un fraintendimento voluto, quantomeno di una interpretazione molto parziale del complesso universo di ciascuno dei due.
Di Nietzsche si pone l’accento sul nichilismo, negando o lasciando nel limbo altri elementi essenziali del suo pensiero, come la concezione ciclica (l’eterno ritorno), l’idea dell’oltreuomo e la stessa volontà di potenza. Nietzsche prendeva atto dell’esito nichilista della nostra civiltà, corda tesa tra l’assenza di valori e la diffusione di principi rinunciatari quali la sottomissione, l’umiltà, l’obbedienza al posto di idee forti, virilmente tese all’affermazione della vita, tuttavia il suo fu comunque un nichilismo reattivo, volto alla ricerca di nuove affermazioni positive, che egli chiamò trasvalutazione dei valori. In nessun caso l’autore di Zarathustra e di Al di là del bene e del male ha propugnato un nichilismo “compiuto”, ovvero l’accettazione del nulla come anti progetto esistenziale.
E’ semmai Gianni Vattimo il suo manipolatore armato di “pensiero debole” ad affermare la necessità di convivere con l’infondatezza e con l’assenza di scopo dell’esistenza, praticando le virtù deboli, non violenza, dialogo a tutti costi, tolleranza indefinita, per il divieto di ricercare la verità, una condotta intellettuale del tutto inutile per insussistenza di qualunque fondamento, dunque foriera di violenza e prevaricazione. Tutti concetti assai lontani dall’orizzonte del figlio del pastore luterano di Roecken.
Quanto ad Heidegger, la sua lotta titanica contro la metafisica, con i concetti di sostanza e presenza lo portò a prospettare una riappropriazione del nostro essere mortali ai fini di una più sicura comprensione della nostra “gettatezza” nel mondo. Affermò altresì l’importanza del linguaggio, la prestazione esclusivamente umana “sede dell’evento dell’essere”. Una parte consistente del suo imponente sistema di pensiero è una sorta di oscuro gioco linguistico, ed in ciò si riconosce un intento sviluppato dai postmoderni, ma alla fine della sua vita Heidegger pronunciò parole di ritorno alla metafisica, sia pure velato ed indiretto, come il famoso “solo un Dio ci può salvare “nell’ intervista a Der Spiegel divulgata dopo la sua morte.
L’esistenzialismo fondato sull’Esserci (Dasein) contiene elementi attivi e possibili esiti anti nichilistici, come dimostra la lettura che ne fa un pensatore della Tradizione come Alexsandr Dugin. Ciò significa che parte del pensiero heideggeriano può essere declinato in chiave non nichilista. Il “dasein”, esserci, è sinonimo di uomo che sta nel mondo, che ha l’esistenza come specifico modo di essere. Il “Dasein” reinterpretato da Dugin è l’intento di ricentrare idee, storia e realtà sulla complessità e la vita sociale di quell’unico soggetto pensante, l’uomo, che concretamente esiste e vive, qui e adesso, pone domande, “si rende conto”, aspira a interpretare, comprendere, giudicare, modificare, padroneggiare la totalità di ciò che vede e di cui fa esperienza. L’uomo non si trova accidentalmente in un corpo e nel mondo “come un pesce nell’acquario “.
Esistere significa per lui stare nel mondo, essere qui, “esser-ci”. Implica un legame necessario con un certo qui e ora, un determinato mondo, una precisa situazione storica, sociale, comunitaria ed individuale. Nella parola composta Esser-ci, la particella enclitica “ci” simboleggia i due caratteri dell’uomo accolti da Dugin sull’orma di Heidegger, ovvero la sua esistenza spazio-temporale (essere-qui-ora), e la sua apertura all’Essere, all’infinito, alla trascendenza, alla dimensione spirituale della vita. L’autore di Essere e tempo lottò inoltre contro la deriva tecnologica, definita “pensiero che non pensa”, smascherata come parte della guerra al mistero condotta in nome della ragione, con il fine di disanimare l’uomo e privarlo della sua funzione di soggetto attivo.
Qualche riflessione meritano alcuni critici della postmodernità, ed anche taluni sociologi che ne hanno saputo cogliere aspetti di grande rilevo. Fredric Jameson rappresenta la critica neomarxista, che ne dimostra l’assenza di profondità e la logica strumentale al neoliberalismo, unitamente alla schizofrenia, al disorientamento percettivo, al trionfo dell’apparenza e dell’inautenticità. Jurgen Habermas, l’ultimo francofortese, incarna la critica razionalista, pur riconoscendo, sulla pista tracciata da Adorno ed Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo (1947) il fallimento del progetto di emancipazione modernista, la cui razionalità formale, tecnico strumentale, ha prodotto alienazione, disagio sociale e spersonalizzazione. Habermas cade in errore, tuttavia, allorché taccia di neo conservatorismo la postmodernità. Coglie nel segno riconoscendo la propensione per la spettacolarizzazione ed il culto del nuovo. Questi temi furono affrontati genialmente da Guy Debord, che individuò nello spettacolo la struttura portante della società dei consumi, sino a generale il più immateriale dei consumi, quello dello spettacolo stesso. Debord osservò anche la pervasività dello spettacolo nella comunicazione didattica e scientifica, con prevalenza delle immagini e delle didascalie sui testi. Il sovraccarico simbolico, la perdita di centro e la decostruzione comunicativa ne sono i frutti avvelenati, creando soggetti agiti, non più agenti, parlati, non più parlanti.
Importante è anche l’apporto di Michel Foucault, che intuì, sul modello utilitarista del Panopticon di Bentham (ciò che vede tutto), il progetto sottilmente totalitario dell’ossessione del controllo e della trasparenza. Dietro le quinte dell’insicurezza e della liquidità sociale, afferma Foucault, si cela un preciso progetto di controllo, sorveglianza, punizione dei devianti. Un totalitarismo soffice, di tipo nuovo, intuito anche dagli inventori di distopie letterarie come il Grande Fratello di Orwell, che attraverso la ripetizione ossessiva di slogan afferma continuamente un modello di società gerarchico e piramidale.” Il Grande Fratello vi guarda” diventa così la metafora di un mondo decomposto ad arte, in realtà assoggettato ad una disciplina del tutto inedita, introiettata per ripetizione e scambiata per libertà grazie al controllo della comunicazione in forma di spettacolo.
Importante è l’analisi sociologica di Marc Augé, che ha teorizzato la presenza (e l’incombenza) di quelli che ha denominato “nonluoghi”, ovvero, autostrade, aeroporti, centri commerciali, ma potremmo aggiungere le impressionanti distese di parallelepipedi diversi solo per i colori delle insegne che caratterizzano le grandi vie d’accesso alle aree urbane (capannoni industriali, spesso abbandonati, locali commerciali adesso detti show room, ipermercati). Si tratta di ambienti tendenzialmente uguali, sottratti a qualunque identità o relazione con l’ambiente circostante, luoghi di transito pensati per un uomo generico, passivo, senza volto o storia. L’incontro nei nonluoghi è privo di relazione, estraneo alla partecipazione; vi si sperimento uno spazio ristretto fino alla simultaneità, una individualizzazione dei destini che si vive esclusivamente come momentanea, fastidiosa prossimità. Augé li contrappose ai “luoghi antropologici”, che contrassegnano l’identità di chi li abita, rammentano la storia comune e sorreggono le relazioni in funzione di una appartenenza condivisa.
Interessante anche l’apporto di Michel Maffesoli, il quale ha individuato il nomadismo come stile di vita postmoderno, diverso e distinto dal “pellegrino” della modernità, che si muoveva comunque verso qualcosa in un orizzonte non ancora del tutto destituito di senso. Il nomade non ha alcuna identità fissa, si modifica e traveste a seconda di luoghi e situazioni, ignora il senso dello spazio, vive esclusivamente nel tempo (“reale”, istantaneo come quello delle connessioni informatiche). Il nomade di Maffesoli ha un’ulteriore caratteristica, priva di valore anche i cosiddetti “alti luoghi”, ovvero quegli spazi di socialità e condivisione dove si svolgono i grandi eventi collettivi, chiese, parlamenti, palazzi di giustizia, accademie. La confusione postmoderna è tale che viene meno la stessa riconoscibilità degli alti luoghi. Sull’altare del funzionalismo e del profitto è oggi estremamente difficile individuare la funzione di un edificio dalla sua forma. Un ospedale non è diverso da una scuola, il luogo dove si amministra la giustizia degli uomini è spesso indistinguibile da un centro direzionale. Imbarazzante è il destino dei nuovi luoghi di culto, sia per le forme, in genere cubiche sino alla follia della chiesa di Foligno progettata dall’archistar Fuksas, sia per l’assoluta assenza di richiami ad una dimensione ulteriore, verticale o trascendente.
Negi Stati Uniti, fu Christopher Lasch a bollare il narcisismo esasperante dell’uomo postmoderno, unito alla sua deresponsabilizzazione, che chiamò ribellione delle élite, nonché alla presa d’atto che le classi alte postmoderne sono a loro agio soltanto nei nonluoghi, e si sono costruite una sorta di identità mimetica e rovesciata nell’assenza di storia e nel rifiuto della memoria.
La nostra convinzione è che la condizione postmoderna assomigli ad una macchina priva di pilota. Il pilota moderno è screditato, ma la proibizione di guardare alla storia è più forte che mai. I due grandi materialismi che si sono contesi la scena da due secoli, quello liberale e quello marxista, hanno un orizzonte ristretto in comune. Guardando in un’unica direzione, vedono le stesse cose, ovvero la superficie, abbagliati dal mito ormai incapacitante del progresso. Espulso Giano Bifronte, hanno contribuito in parti uguali a quello che Weber chiamò il disincanto del mondo, oltreché ad una visione esclusivamente strumentale ed economica della presenza dell’uomo nel mondo. La distruzione creatrice si è trasformata in fregola di cambiamento, ossessione, compulsione per il nuovo, che genera instabilità, insicurezza, fibrillazione sempre meno controllabile.
L’universalismo comune ha generato un culto per la tecnica e la tecnologia superstizioso e totalitario non meno delle vecchie credenze spazzate dal fuoco dei tempi nuovi. Anche gli Stati, come dimensione pubblica tendenzialmente volta al bene comune, sono stati screditati, ma soltanto loro possono restituire un senso alternativo a quello basato sul denaro, definendo spazi ed interessi pubblici condivisi. Ci vorrebbe un “reincantamento”, una insorgenza comunitaria, ma i pozzi sono stati sigillati, le vie di fuga ostruite. Lo comprese benissimo il Marx del “Diciotto brumaio di Luigi Napoleone”, allorché, preoccupato degli “spiriti del passato”, ordina di liberarsi di “tutte le superstizioni”, giacché la rivoluzione non può prendere la sua poesia dal passato, ma solo dal futuro. Dunque, l’imperativo fu distruggere ogni mito o valore non riconducibile al progresso materiale. Musica per le orecchie del liberalismo contemporaneo, ormai padrone del campo, che invera esattamente le convinzioni marxiste. Cambiano soltanto i rapporti di produzione.
Tornare a Giano, dunque, alla capacità di vivere nella storia, nei cicli di passato, presente e futuro, sapendo tornare sui propri passi quando la via è sbagliata. Ma per esprimere un giudizio di valore, occorre restituirsi alla verità, quanto meno alla sua ricerca attiva ed orientata. La modernità ha fallito, la postmodernità confusionaria si accontenta di bagliori o della tecnica, il cui unico obiettivo è funzionare. L’automobile “serve” per spostarsi, il telefono per comunicare, il farmaco per curare una malattia. Tutto qui. Modernità, la madre, e postmodernità, la figlia un po’ squinternata scambiano i mezzi con i fini e disprezzano sino alla derisione un concetto che Saint Exupéry esprime nel Piccolo Principe: l’essenziale è invisibile agli occhi. Ma ciò che non si vede, neppure con i potenti microscopi inventati dall’ Homo sapiens, non esiste.
Ci sembra tutto qui l’insuperabile dilemma postmoderno: non più homo viator, esploratore dell’ignoto, pellegrino della verità, ma un nomade vestito di stracci costosi e variopinti, senza meta per disperazione, che ha smarrito la trascendenza, un’ipotesi che non può figurare nelle tabelle, negli algoritmi e nei modelli matematici. Capì tutto con largo anticipo Chesterton; “Quando la gente smette di credere in Dio, non è vero che non crede in niente, perché crede in tutto.” E’ il manifesto e l’epitaffio della condizione postmoderna, credere a qualunque cosa, ma solo per un attimo, per poi correre via senza meta.
Roberto PECCHIOLI