di Roberto Pecchioli
Un’immagine tra le mille del rogo della cattedrale parigina di Notre Dame ci ha commosso, un fotogramma colto dall’alto nella notte trasfigura l’incendio in una grande croce ardente. C’è in quella forma catturata nel buio di un evento drammatico, un simbolismo che lascia senza fiato. Non sappiamo l’esatta entità dei danni, né conosciamo le cause. Saremo un po’ paranoici, ma non ci fidiamo delle spiegazioni ufficiali che verranno. Gli stupidi entusiasmi di qualche islamista, prontamente rilanciati da siti quantomeno sospetti, ci lasciano indifferenti. Dà più fastidio la reazione di un personaggio televisivo spagnolo, dispiaciuto che il destino di Notre Dame non sia toccato alla cattedrale dell’Almudena di Madrid. La madre dei cretini è sempre incinta, specie in tempi miserabili.
Confessiamo che, allertati dal messaggio disperato di un amico che paventava la distruzione completa del monumento simbolo della cristianità francese, la prima cosa a cui abbiamo pensato, si parva licet componere magnis, è stato lo stupido paragone di Gigino Di Maio con il Medioevo a proposito delle giornate della famiglia. Nel Medioevo, da lunedì 16 aprile lo sa anche l’ex controllore dei biglietti allo stadio San Paolo, si edificavano cattedrali destinate a sfidare i secoli e diventare simboli potenti di civiltà, fede, cultura, scienza, memoria, bellezza. Tutte cose inutili nell’era fortunata di Internet, del consumo e dei diritti.
Poiché riusciamo a vedere un canale televisivo francese, ci siamo sintonizzati e abbiamo potuto osservare e ascoltare. Un noto architetto dal cognome italiano si è lungamente soffermato sul valore “turistico” dell’opera e sui danni d’immagine che subirà Parigi e la Francia intera. Uno sciocco di talento, immaginiamo, al quale è superfluo ricordare con Gòmez Dàvila che le cattedrali non sono state fatte per l’ente turistico. Fortunatamente, il resto degli interventi, a partire da quello di Emmanuel Macron, hanno mostrato che la Francia, tra mille decadenze, è ancora la nazione europea che più tiene a se stessa. Colpisce – un altro segno? – che la guglia crollata sia stata innalzata nel 1860, il pezzo più moderno del maestoso omaggio della Francia, una volta figlia prediletta della Chiesa, alla Madre di Dio. Abbiamo visto l’edificio bruciare per ore, ripreso da ogni lato, testimoni dell’impotenza umana dinanzi alle forze della natura.
Il pensiero è corso alla straordinaria serie di vedute della cattedrale di Rouen realizzata da un grande impressionista, Claude Monet. Ben quarantotto immagini di un altro capolavoro gotico medievale, dedicato anch’esso alla Madonna, in ogni condizione di luce, a tutte le ore del giorno, della sera e della notte, un incredibile reportage quasi televisivo. Notre Dame non è sfuggita all’attenzione dei pittori, specie di quegli stessi impressionisti tanto laici e così francesi, che coglievano l’attimo e trascuravano l’eterno.
E’ bellissimo un dipinto di un epigono del 1901, Maximilien Luce. In esso Notre Dame domina Parigi luminosa e materna, custode della vita che ferve intorno. Tutto è più piccolo, quasi minuscolo, nulla ha la stessa importanza, tutto si muove attorno a lei, i passanti, borghesi ben vestiti, domestiche cariche di frutta e verdura, una nonna che tiene per mano il nipotino e un piccolo pasticciere che cammina con un cesto sulla testa. Si riconoscono i venditori di libri usati, un omnibus, un carretto trainato da un uomo in maniche di camicia e panciotto. La vita, insomma, sotto lo sguardo di Nostra Signora che osserva e segue il movimento effimero degli esseri umani, testimone dell’eterno e memoria di una civiltà.
No, non può sparire Nostre Dame, dove aleggia lo spirito della zingara Esmeralda e del povero Quasimodo immaginati da Victor Hugo, lì fu incoronato Napoleone, in un gesto di parziale riconciliazione con la storia dopo la tempesta rivoluzionaria, lì fu proclamata santa la giovane madre della patria Giovanna d’Arco. Sorge spontaneo il paragone con l’altro simbolo di Parigi, la torre Eiffel, il gigante d’acciaio figlio della tecnica dell’orgoglioso secolo diciannovesimo, costruito non per testimoniare una fede ma per ricordare un’esposizione industriale. Chi scrive ricorda di averla toccata e di essere rimasto impressionato dal freddo del ferro scuro.
Le pietre di Notre Dame scaldano il cuore, le vetrate riempiono gli occhi e lasciano a bocca aperta. Una grandiosa sacra rappresentazione per tutti, l’abbecedario della fede che ha fatto l’Europa. Quando vedemmo la cattedrale di Chartres dai due campanili tanto diversi rimanemmo sbigottiti, in silenzio, immaginando che cosa dovesse significare quella vista per i pellegrini del passato. Notre Dame è più forte, più quadrata, sembra l’emblema della stabilità e della luce. Non deve sparire. Se conosciamo i francesi, che tanto amano ciò che è loro, la restituiranno presto all’incanto perduto.
Ma non è questione di arte: Notre Dame è identità e fede, non solo francese. Lo ha capito persino Jean Pierre Juncker, evidentemente sobrio, definendola “simbolo della nostra cultura europea”. Un’eredità che proviene, nonostante l’oblio dell’Europa dei ragionieri, da un evento capitato duemila anni fa in una grotta remota d’ Oriente. Ricostruire quanto è andato perduto non è un gesto dovuto alla storia, all’arte o ai visitatori in gran parte frettolosi e ignari del presente, ma un vero e proprio atto di fede, un “autodafé”, per usare un’espressione di quel luminoso Medioevo che ci ha regalato Giotto e le cattedrali, Francesco e Benedetto, e, in Francia, Bernardo di Chiaravalle, San Luigi e le cattedrali gotiche.
In Italia ci siamo riusciti con un piccolo, splendente gioiello romanico-gotico, la cattedrale di Venzone, ricostruita pietra su pietra dopo il terremoto del 1976. Simbolo della fede e dell’arte di un popolo civilissimo, quello friulano, è tornata dov’era dopo un disastro superato attingendo alla forza della tradizione.
Chissà che Nostra Signora, non l’edificio, ma lei, la Vergine, ci abbia voluto trasmettere un messaggio in quella straziante croce ardente di pietre poste da otto secoli. Lei sa da sempre ciò che intuì Antoine Saint Exupéry, un francese: l’essenziale è invisibile agli occhi. La sua cattedrale racconta una storia di civiltà, fede, cultura, bellezza e armonia invisibili a chi non guarda con il cuore. Saint Exupéry, brillante pilota di guerra, sorvolava Parigi piegata dai bombardamenti e scrisse, guardando dall’alto la folla sconvolta dalle macerie, un brano che sembra fatto per l’incendio di Notre Dame, forse incomprensibile all’uomo postmoderno, che si emoziona e passa oltre, muta d’accento e di pensier. “Le pietre del cantiere sono un mucchio disordinato solo in apparenza, se c’è, perduto nel cantiere, un uomo, sia pure uno solo, che pensa a una cattedrale.” Non possiamo non pensare alla cattedrale e all’eterno di fronte a quella croce di fuoco nella notte. Nostra Signora arde ma è ancora con noi.
di Roberto Pecchioli
Un’immagine tra le mille del rogo della cattedrale parigina di Notre Dame ci ha commosso, un fotogramma colto dall’alto nella notte trasfigura l’incendio in una grande croce ardente. C’è in quella forma catturata nel buio di un evento drammatico, un simbolismo che lascia senza fiato. Non sappiamo l’esatta entità dei danni, né conosciamo le cause. Saremo un po’ paranoici, ma non ci fidiamo delle spiegazioni ufficiali che verranno. Gli stupidi entusiasmi di qualche islamista, prontamente rilanciati da siti quantomeno sospetti, ci lasciano indifferenti. Dà più fastidio la reazione di un personaggio televisivo spagnolo, dispiaciuto che il destino di Notre Dame non sia toccato alla cattedrale dell’Almudena di Madrid. La madre dei cretini è sempre incinta, specie in tempi miserabili.
Confessiamo che, allertati dal messaggio disperato di un amico che paventava la distruzione completa del monumento simbolo della cristianità francese, la prima cosa a cui abbiamo pensato, si parva licet componere magnis, è stato lo stupido paragone di Gigino Di Maio con il Medioevo a proposito delle giornate della famiglia. Nel Medioevo, da lunedì 16 aprile lo sa anche l’ex controllore dei biglietti allo stadio San Paolo, si edificavano cattedrali destinate a sfidare i secoli e diventare simboli potenti di civiltà, fede, cultura, scienza, memoria, bellezza. Tutte cose inutili nell’era fortunata di Internet, del consumo e dei diritti.
Poiché riusciamo a vedere un canale televisivo francese, ci siamo sintonizzati e abbiamo potuto osservare e ascoltare. Un noto architetto dal cognome italiano si è lungamente soffermato sul valore “turistico” dell’opera e sui danni d’immagine che subirà Parigi e la Francia intera. Uno sciocco di talento, immaginiamo, al quale è superfluo ricordare con Gòmez Dàvila che le cattedrali non sono state fatte per l’ente turistico. Fortunatamente, il resto degli interventi, a partire da quello di Emmanuel Macron, hanno mostrato che la Francia, tra mille decadenze, è ancora la nazione europea che più tiene a se stessa. Colpisce – un altro segno? – che la guglia crollata sia stata innalzata nel 1860, il pezzo più moderno del maestoso omaggio della Francia, una volta figlia prediletta della Chiesa, alla Madre di Dio. Abbiamo visto l’edificio bruciare per ore, ripreso da ogni lato, testimoni dell’impotenza umana dinanzi alle forze della natura.
Il pensiero è corso alla straordinaria serie di vedute della cattedrale di Rouen realizzata da un grande impressionista, Claude Monet. Ben quarantotto immagini di un altro capolavoro gotico medievale, dedicato anch’esso alla Madonna, in ogni condizione di luce, a tutte le ore del giorno, della sera e della notte, un incredibile reportage quasi televisivo. Notre Dame non è sfuggita all’attenzione dei pittori, specie di quegli stessi impressionisti tanto laici e così francesi, che coglievano l’attimo e trascuravano l’eterno.
E’ bellissimo un dipinto di un epigono del 1901, Maximilien Luce. In esso Notre Dame domina Parigi luminosa e materna, custode della vita che ferve intorno. Tutto è più piccolo, quasi minuscolo, nulla ha la stessa importanza, tutto si muove attorno a lei, i passanti, borghesi ben vestiti, domestiche cariche di frutta e verdura, una nonna che tiene per mano il nipotino e un piccolo pasticciere che cammina con un cesto sulla testa. Si riconoscono i venditori di libri usati, un omnibus, un carretto trainato da un uomo in maniche di camicia e panciotto. La vita, insomma, sotto lo sguardo di Nostra Signora che osserva e segue il movimento effimero degli esseri umani, testimone dell’eterno e memoria di una civiltà.
No, non può sparire Nostre Dame, dove aleggia lo spirito della zingara Esmeralda e del povero Quasimodo immaginati da Victor Hugo, lì fu incoronato Napoleone, in un gesto di parziale riconciliazione con la storia dopo la tempesta rivoluzionaria, lì fu proclamata santa la giovane madre della patria Giovanna d’Arco. Sorge spontaneo il paragone con l’altro simbolo di Parigi, la torre Eiffel, il gigante d’acciaio figlio della tecnica dell’orgoglioso secolo diciannovesimo, costruito non per testimoniare una fede ma per ricordare un’esposizione industriale. Chi scrive ricorda di averla toccata e di essere rimasto impressionato dal freddo del ferro scuro.
Le pietre di Notre Dame scaldano il cuore, le vetrate riempiono gli occhi e lasciano a bocca aperta. Una grandiosa sacra rappresentazione per tutti, l’abbecedario della fede che ha fatto l’Europa. Quando vedemmo la cattedrale di Chartres dai due campanili tanto diversi rimanemmo sbigottiti, in silenzio, immaginando che cosa dovesse significare quella vista per i pellegrini del passato. Notre Dame è più forte, più quadrata, sembra l’emblema della stabilità e della luce. Non deve sparire. Se conosciamo i francesi, che tanto amano ciò che è loro, la restituiranno presto all’incanto perduto.
Ma non è questione di arte: Notre Dame è identità e fede, non solo francese. Lo ha capito persino Jean Pierre Juncker, evidentemente sobrio, definendola “simbolo della nostra cultura europea”. Un’eredità che proviene, nonostante l’oblio dell’Europa dei ragionieri, da un evento capitato duemila anni fa in una grotta remota d’ Oriente. Ricostruire quanto è andato perduto non è un gesto dovuto alla storia, all’arte o ai visitatori in gran parte frettolosi e ignari del presente, ma un vero e proprio atto di fede, un “autodafé”, per usare un’espressione di quel luminoso Medioevo che ci ha regalato Giotto e le cattedrali, Francesco e Benedetto, e, in Francia, Bernardo di Chiaravalle, San Luigi e le cattedrali gotiche.
In Italia ci siamo riusciti con un piccolo, splendente gioiello romanico-gotico, la cattedrale di Venzone, ricostruita pietra su pietra dopo il terremoto del 1976. Simbolo della fede e dell’arte di un popolo civilissimo, quello friulano, è tornata dov’era dopo un disastro superato attingendo alla forza della tradizione.
Chissà che Nostra Signora, non l’edificio, ma lei, la Vergine, ci abbia voluto trasmettere un messaggio in quella straziante croce ardente di pietre poste da otto secoli. Lei sa da sempre ciò che intuì Antoine Saint Exupéry, un francese: l’essenziale è invisibile agli occhi. La sua cattedrale racconta una storia di civiltà, fede, cultura, bellezza e armonia invisibili a chi non guarda con il cuore. Saint Exupéry, brillante pilota di guerra, sorvolava Parigi piegata dai bombardamenti e scrisse, guardando dall’alto la folla sconvolta dalle macerie, un brano che sembra fatto per l’incendio di Notre Dame, forse incomprensibile all’uomo postmoderno, che si emoziona e passa oltre, muta d’accento e di pensier. “Le pietre del cantiere sono un mucchio disordinato solo in apparenza, se c’è, perduto nel cantiere, un uomo, sia pure uno solo, che pensa a una cattedrale.” Non possiamo non pensare alla cattedrale e all’eterno di fronte a quella croce di fuoco nella notte. Nostra Signora arde ma è ancora con noi.