di Roberto PECCHIOLI
Si parla ormai apertamente di grande sostituzione, con riferimento a un’immigrazione tanto massiccia da avere cambiato il paesaggio umano, i costumi e i valori delle nostre società. Il fenomeno è così evidente che può essere negato solo da chi è cieco o in malafede. Tuttavia siamo convinti che la grande sostituzione sia un effetto, non una causa. L’Europa – e con essa la spuria categoria di Occidente- ha oltrepassato la linea che divide la vita dalla morte. Non sappiamo- poiché i tempi delle civiltà non sono quelli dell’esistenza umana – se sia già nato Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore romano, e se sia iniziato il viaggio di Odoacre, il re barbaro che lo depose. Probabilmente sì e uno degli indizi sta nella non percezione dell’immigrazione come invasione da parte di popolazioni addormentate.
Il vero dramma non è la sostituzione, bensì la grande mutazione, un cambiamento tanto radicale, profondo, esteso del nostro essere che impedisce di riconoscersi. Crolla perfino il principio di identità posto da Aristotele: A uguale ad A. La trasformazione, nel mondo fluido, cangiante, è così maiuscola che se ci guardiamo allo specchio non ci riconosciamo più. L’estraneità diventa alienazione sino all’impossibilità di descrivere se stessi. Abitiamo un affollato deserto, e, come intuì Dostoevskij, chi vive in abitazioni miserabili produce idee miserabili.
Il panorama atterrisce. L’inverno della libertà genera indifferenza; l’uso della paura della morte per imporre restrizioni soffocanti è la prova della malvagità intrinseca del potere. Il silenzio delle religioni lascia senza fiato. Duole la sostituzione (un’altra…) della purificazione spirituale con la sanificazione materiale, simboleggiata dall’igienizzante al posto dell’acqua benedetta. La mutazione del cristianesimo, che ha abbondonato il Padre e lo Spirito Santo, è un altro fenomeno su cui si concentrerà l’attenzione degli storici futuri.
Un altro è la noncuranza della libertà, individuale, personale, comunitaria. Muta la pelle al punto che, riferendosi al desiderio crescente di ripristino degli spazi minimi di autonomia emerso nelle ultime settimane, un senatore di sinistra, Sandro Ruotolo, ha esortato – testuale- a non cedere alla voglia di libertà. Istinto vetero comunista, forse, ma la mutazione impressiona. La bandiera della libertà cade dalle mani della cosiddetta sinistra – che se ne era impadronita nel Sessantotto- e torna nel campo opposto.
Il significato di libertà è sempre più oscuro. I giovani, che ne dovrebbero essere i più fieri soldati, brillano per la loro assenza, una diserzione di cui è colpevole la generazione che ha rinunciato a educarli. L’unica ribellione si registra in una scuola romana e consiste nel presentarsi a scuola in abiti scollacciati per protestare contro un’insegnate colpevole di aver redarguito una studentessa intenta a scattare foto intime per mostrarle sulla rete sociale di moda, Tik Tok. Libero ombelico e, come Belen Rodriguez, libera farfallina. I ragazzi sono come noi li abbiamo plasmati, come il potere vuole che siano, ignoranti e remissivi nell’essenziale, permalosi nelle sciocchezze. La loro mutazione rende un incubo immaginare la società tra dieci anni. Un’altra generazione che si butta via e, avvolta nei suoi stracci, disprezza ciò che ignora, ossia quasi tutto. Nessuna lotta per rivendicare vita e futuro.
I più anziani sono asserragliati nelle loro paure. Hanno abdicato al ruolo di equilibrio e di saggezza e accusano i giovani di voler tornare a vivere. Gli impazziti guidano gli accecati, un’altra mutazione della società asociale in cui tutto è “post”, “trans”, “bi”. La mutazione della chiarezza in confusione è la stessa della verità, sostituita dalla narrazione. Nella notte in cui tutti i gatti sono grigi, l’inversione di principi, immagini e valori raggiungerebbe il ridicolo, se non fosse una cosa serissima.
In compenso, l’officina della cancellazione lavora a doppi turni; in Germania la legge permetterà di scegliere i parenti: via zie e nonni, largo a legami giuridici con chi ci pare. Un bel sollievo: non dovremo più invitare i cugini che non vediamo da anni e lo zio antipatico. Scherzi a parte, distruggere i legami di sangue è cancellare il vincolo con ciò che siamo, un ulteriore punto a favore dell’autocreazione, insindacabile, intangibile. La società liquida odia tutto ciò che è solido, duraturo, naturale. Tracima da ogni parte, ma i liquidi corrono verso il basso.
Paradigmatico è il caso di Sam Brinton, scienziato governativo americano, esperto di politiche energetiche. Il suo curriculum è certo impeccabile, peccato che il giovanotto rasato ami presentarsi con vistosi abiti femminili, rossetto e trucco pesante, oppure con tacchi a spillo indossati sotto completi maschili. Si definisce queer, bizzarro, fluido, senza un genere definito. Un eroe del nostro tempo, fotografato seminudo con un uomo a guinzaglio, impegnato, afferma con orgoglio, in pratiche sessuali estreme. Fa parte di una comunità omosessuale il cui passatempo consiste nel simulare rapporti in cui un partner è il padrone e l’altro un cane. Questa è la classe dirigente, il modello da imitare per i nostri figli e nipoti. Probabilmente, siamo i soli a stupirci: la mutazione è così grande che al suo arrivo Odoacre non troverà nessuno, ereditando una civilizzazione estinta.
Ci sbaglieremo, ma stiamo assistendo a un’animalizzazione dell’uomo, nel senso della regressione zoologica, dell’oblio della dignità della condizione umana, non dell’innocenza animale. La più paradossale delle speranze è riposta nella velocità dei fenomeni, che aumenta nella discesa se nulla la frena, ciò che la tradizione chiama katéchon. Meritiamo la fine, acceleriamola. Un ministro italiano, Roberto Cingolani, che si occupa, ahinoi, di transizione ecologica, ne sa più di Dio: ha affermato che il pianeta “è stato progettato per tre miliardi di persone”, pertanto oltre il sessanta per cento dell’umanità è di troppo. Cingolani e gli autonominati architetti dell’universo lavorano per noi: ci vogliono morti per il bene di Gea, la madre terra. Viviamo in un’era di elevata civiltà…
Nel 2021, le nascite, in Italia e in Europa, hanno segnato il primato negativo assoluto da quando esistono statistiche. Si stima che il numero di bambini sia la metà di quello degli animali domestici: un’altra mutazione che segnala l’imbocco della china finale. L’argomento è scivoloso: l’esercito dei buoni sparerà a palle incatenate contro l’affermazione che segue: gli amici a quattro zampe sono gli ultimi figli della società umana sterile, individualista e irresponsabile. Che perfetta grande sostituzione quella dei figli con cagnolini, gattini e furetti. E che tema impopolare, nell’imperante melassa animalista. Gran civiltà quella che consente detrazioni fiscali per le spese a favore degli animali e nega terapie agli umani. Quali magnifiche sorti di progresso vedere in parchi e giardini spazi sottratti ai bambini per destinarli alle bestiole.
Questo è uno dei punti di inflessione della nostra estenuata civilizzazione: il disprezzo di sé, l’anti umanità che si fa oltraggio della creatura uomo, del suo statuto di essere razionale e genera sterilità consapevole, l’orrore per la procreazione di figli, nuovi membri della società umana. La tendenza a non lasciare eredi si accompagna a molti fenomeni nuovi, uno dei quali è l’aumento degli animali da compagnia nell’intero Occidente. Un filosofo marxista, Santiago Alba Rico, sostiene che uno dei sintomi del declino di una civiltà è l’eccesso di preoccupazione per il benessere animale. Capitò nell’impero romano morente e torna nel lungo crepuscolo d’Occidente. Preoccupazioni non dissimili sono state espresse da Jorge Mario Bergoglio, accompagnate da irate polemiche. Assistiamo a un processo che tende a umanizzare gli animali e animalizzare gli umani. Gli animali che con noi convivono sono diventati i depositari delle più alte virtù morali “umane”: lealtà, affetto, intelligenza, bontà, tutto ciò che riteniamo perduto nel rapporto tra esseri umani. Agli uomini attribuiamo tutto ciò che definiva il naturale comportamento animale: irrazionalità, mancanza di misericordia, crudeltà.
La mutazione fa sì che l’animale domestico sostituisca i legami sociali e familiari che conferivano senso all’ esistenza. Gran parte dell’animalismo contemporaneo è una forma sofisticata di misantropia. L’animale è l’alibi positivo che rivela l’odio di sé e la ricerca di un’inattingibile purezza al di fuori dell’umanità, indizio della perdita di speranza, della dissoluzione dei vincoli collettivi. I beniamini a quattro zampe sono i supplenti della solitudine, il balsamo alle nostre carenze affettive, un sintomo in più dell’edonismo, dell’individualismo e dell’egoismo di matrice neoliberale.
La grande mutazione fa sì che importi solamente “io”, unica sovranità nel mondo che comincia e finisce nella soggettività, senza passato né futuro, condivisione e comunità. Esiste solo il “mio” piacere nel presente perpetuo. L’animale domestico- senza colpa– accentua l’isolamento, diventando un simbolo del fallimento dei vincoli affettivi intraumani. A differenza degli umani, gli animali non parlano. Colpisce rilevarlo, poiché una specie di ideologia-Disney fa credere che abbiano un linguaggio. Non è proprio così: comunicano, certo, sentono, ma non hanno storia, non conoscono il pensiero astratto. Non hanno, per questo, né doveri né diritti, ma natura, alla quale deve andare il nostro rispetto.
Li esaltiamo in quanto ne abbiamo il controllo, e rispondono, nel vuoto esistenziale che riempiono, a un’altra mutazione, la smania di gestione, di appropriazione: alla fine fanno ciò che noi vogliamo. Finiremo come Nietzsche alle soglie della follia, quando abbracciò un cavallo maltrattato come gesto di bontà dinanzi alla barbarie. Dovremmo tornare ad abbracciare i nostri conspecifici, amare la creatura umana e non esigere dall’animale ciò che non può essere, un figlio sostitutivo. Il bisogno di dare amore, tuttavia, resta. E’ un atto d’amore quello che non riusciamo più a compiere, riconoscere le ragioni dell’altro, mettersi in ascolto. Non accade e la mutazione dell’uomo fragile, debole, irresoluto, passa anche per la mancanza di empatia e volontà.
L’umano europeo è invecchiato al di là dell’anagrafe e assume tutti i difetti dell’età, come rinchiudersi in se stessi, non tentare di capire ciò che avviene, facilitati dalla solitudine, dal fatto che non si vive più in un contesto di generazioni diverse che nonostante tutto si amano e sostengono. Un romanziere spagnolo, Azorìn, scrisse che la vecchiaia è perdita della curiosità. In questo senso, sono vecchie tutte le generazioni, divenute afasiche, paghe della versione “ufficiale”, conformiste, indifferenti. Una mutazione assai cara al potere, che sta eseguendo esperimenti sociali di cui nemmeno ci accorgiamo.
Non ci incuriosisce capire perché un pugno di miliardari decidono le nostre abitudini alimentari, pretendono che ci cibiamo di insetti e prodotti artificiali di cui possiedono i brevetti. Nessun interesse a comprendere, ad esempio perché tentino di allontanarci dal vino, elemento di cultura per molti popoli, pretendendo di indicare sulle bottiglie che è cancerogeno. Non è certo per diffondere la temperanza; perché non pongono la stessa avvertenza sui forni a microonde? La mutazione che più colpisce è la docilità verso il potere. Ci hanno messo la museruola e ci tengono al guinzaglio. Non è una novità. Nuovo è offrire il collo alla catena, accarezzare la mano dell’aguzzino. Che la mutazione abbia modificato irreversibilmente la nostra specie? Disse il romantico Novalis: si può diventare solo in quanto si è già.