LA GUERRA DEI SESSI DEL NEOFEMMINISMO

 

di Roberto PECCHIOLI

In una scuola d’infanzia di Barcellona, le maestre hanno vietato la fiaba di Cappuccetto Rosso in quanto “sessista”. Contemporaneamente, hanno trasformato la leggenda di San Giorgio in quella di Santa Giorgina. E’ ora di suonare l’allarme e iniziare una controffensiva per smascherare, bloccare e sconfiggere il nuovo femminismo, quello della quarta e quinta ondata. Supportato da tutti i cascami del post marxismo intellettuale alleato con il libertarismo, il femminismo di ultima generazione promuove una antropologia inedita fondata su un’anticaglia, la lotta di classe. Ha sostituito la lotta sociale con la guerra tra i sessi. E’ una deriva pericolosissima con due convitati di pietra, l’omosessualismo e la teoria di genere (gender), all’ombra del potere mediatico, accademico neo liberista, a cui non par vero di realizzare i suoi obiettivi distogliendo uomini e donne dalla lotta collettiva contro le ingiustizie, crimini, diseguaglianze della società di mercato.

Nessuno si oppone frontalmente al nuovo, pernicioso femminismo. Timidezza, paura delle reazioni di chi è padrone del linguaggio corrente, disinteresse da parte dei tanti concentrati sugli affari. Nello spazio impropriamente chiamato destra prevale l’avversione verso lo sforzo intellettuale e culturale. Il risultato è la prevalenza di tesi assurde e antiumane per assenza di contraddittorio. Poiché nessuna battaglia è vinta senza essere combattuta, percorriamo la Via Crucis per conoscere, spiegare e contrastare l’antropologia negativa della guerra dei sessi scatenata dalla quarta o quinta ondata femminista.

La storia del femminismo è caratterizzata da fasi definite ondate. Noi siamo convinti della giustezza delle tesi della prima, tesa a rivendicare l’uguaglianza dei diritti e delle opportunità, che ha conseguito pienamente i suoi obiettivi. Comprendiamo senza condividerle alcune tesi della seconda ondata, inaugurata negli Usa e terminata con gli anni 80 del XX secolo, imperniata sull’indagine dell’oppressione maschile ai danni delle donne.  Le fasi successive sono francamente negative, irricevibili, fondate su concetti come l’emancipazione radicale, i diritti del corpo (Jennifer Baumgardner), l’abortismo, sino alla quarta ondata, caratterizzata dall’idea di intersezionalità, l’’interconnessione di tutti i sistemi di oppressione (Kimberle Crenshaw), l’alleanza con le “lavoratrici sessuali “, le prostitute “delle quali il femminismo ha bisogno e viceversa”.

La fase presente è quella del genere come obbligo culturale, il rifiuto del fatto biologico dell’esistenza di due sessi fisiologicamente, psicologicamente e funzionalmente distinti (Judit Butler e altre). Su questo versante si gioca una partita drammatica e decisiva, in cui il femminismo è alleato con l’omosessualismo, il transessualismo e la teoria queer.  Queer significa in inglese insolito, eccentrico, fu il vocabolo usato dal padre del giovanissimo amante di Oscar Wilde per stigmatizzare lo scrittore irlandese. Ripreso dal teorico Michael Warner nell’ambito dell’attacco all’” eteronormatività ”, il termine è adesso utilizzato per ricomprendere ogni identità fluida e indefinibile dell’universo sessuale. Judit Butler afferma che femminismo e queer sono rami dello stesso albero.

Gli aspetti visibili di tali curvature ideologiche sono alla base delle ultime parole d’ordine, il “sessismo”, ovvero l’intenzione antifemminile di atti, parole, comportamenti maschili, la richiesta imperativa di leggi che puniscano la cosiddetta violenza di genere, la nascita di movimenti come #Metoo, in cui il sacrosanto rigetto per l’abuso sessuale si trasforma in odio per l’universo maschile e imposizione di una narrazione scientificamente falsa, quella dell’uomo naturalmente incline all’abuso violento.

Un elemento di enorme rilievo del femminismo dell’ultimo ventennio è la sua vicinanza con l’attivismo omosessuale nonché il rifiuto della maternità. Numerose influenti teoriche sono lesbiche; quasi tutte quelle citate, e poi Andrea Dworkin, capofila del femminismo radicale omosessuale. Una delle tesi più diffuse è che tutte le femministe possono e dovrebbero essere lesbiche. Le prime avvisaglie risalgono al 1949, ad alcune asserzioni di Simone de Beauvoir, l’autrice del Secondo Sesso, musa, compagna e complice di discutibili comportamenti privati del marxista nichilista Jean Paul Sartre. Significativo è il percorso esistenziale della psicologa Adrienne Rich, icona femminista a cavallo tra XX e XXI secolo, nota per l’affermazione che l’eterosessualità è stata imposta alle donne con la forza, sposata, divorziata e legata poi sentimentalmente sino alla morte a un’attivista donna.

Ciò che appare all’osservatore esterno, come esito delle idee uscite dai laboratori intellettuali delle università americane e dei più disparati collettivi d’occidente, è una società spappolata nel desiderio senza freni, nei diritti privi di doveri, sino al diritto legale di prescindere dalla natura: l’odium fati, emblema dell’intera postmodernità contrapposto all’antico amor fati. Questa è tuttavia la punta di un iceberg, la sovrastruttura di un cambio di paradigma esistenziale di cui occorre prendere atto. Senza comprendere che siamo immersi in una fase che possiamo chiamare tornante antropologico, non avremo possibilità di opporre un pensiero forte, alternativo e capace di energia propositiva.

Ribadiamo il rigetto di posizioni antistoriche – se ancora esistono –  tese a rifiutare in blocco le tesi femministe e l’avanzata delle donne nei ruoli sociali, concentrando la battaglia culturale sul rigetto  assoluto della guerra dei sessi, la banalizzazione dell’aborto, la tesi che il sesso, ridefinito genere, sia un costrutto culturale, la definizione dell’uomo come violentatore naturale, l’odio verso la maternità, la rivendicazione di leggi che contraddicono il principio dell’uguaglianza davanti alla legge senza distinzioni di sesso. Judit Butler è la più coerente sostenitrice del sesso/genere come prodotto sociale. Per lei, “il genere è un insieme di atti ripetuti”, un’attitudine o abitudine imposta dalla società “eteropatriarcale”, fondata cioè sul primato dei padri eterosessuali.

La crisi, il declino e l’attuale svuotamento della famiglia ha molto a che fare con il femminismo. Scrive Marcello Veneziani: “abbiamo pagato l’emancipazione femminile con la decadenza della famiglia. (…) Ciascuno valuti se il baratto è stato vantaggioso o meno, e si ponga il dubbio se una diversa soluzione – per esempio rigettare la supremazia maschile senza abbattere le differenze – avrebbe potuto comportare una più equa compensazione”. Parole sagge, ma la risposta è no, non ci poteva essere alcuna compensazione, dal momento decisivo in cui si è diffusa la pillola anticoncezionale. Unanime è il giudizio di tutte le correnti femministe: la pillola è stata un mezzo di equità e liberazione, il controllo delle nascite il primo passo verso la libertà. Un’affermazione è assai potente per il suo contenuto veritativo: tutte le politiche sono politiche riproduttive. Questo tema è essenziale. Non c’è dubbio, infatti, che il primo obiettivo di qualunque società è la sua riproduzione, ovvero la trasmissione dei suoi valori e dei suoi costrutti attraverso una serie di mezzi, il più importante dei quali è la nascita di nuovi membri.

L’atto rivoluzionario è stato separare per via farmacologica il sesso dalla procreazione. Contraccezione più la portata esplosiva dell’aborto come diritto. Non c’è dubbio che far accettare come ovvio che il feto non sia altro che un grumo di cellule di proprietà della donna, detentrice del diritto esclusivo di disporne in autonomia e di liberarsene senza limiti, remore, sensi di colpa, anzi come atto supremo di liberazione, è stata dinamite inserita nel corpo sociale. Oggi siamo al passo successivo, la separazione tecnologica (utero in affitto, tecniche riproduttive, utero artificiale) della procreazione dal sesso.

Inoltre, riappare una parola chiave: liberazione. E’ una costante di tutto il pensiero moderno, specie di quello dilagato dopo il 1968. Il femminismo si è nel tempo trasformato da movimento di rivendicazione della parità di diritti e opportunità, quindi di libertà, in elemento di dissoluzione. Liberarsi di qualcosa implica una sottrazione, una cancellazione cui succede una sostituzione di principi. Alla triade del passato, Dio, Patria, famiglia, succedettero Libertà, Uguaglianza e Fraternità, ma il risultato odierno è la fine della fraternità in nome del soggettivismo e dell’estinzione del legame comunitario; la svalutazione della libertà a liberazione; la riduzione dell’uguaglianza a equivalenza tra differenze, ciascuna enfatizzata a detrimento della dimensione comune.

La differenza femminile è rivendicata in forma agonale, rancorosa, senza riguardo per la biologia e la fisiologia. Non è più vera la cosmogonia del Genesi, maschio e femmina li creò, ma “la distinzione binaria è frutto di un sistema normativo che sancisce l’esistenza di due generi distinti e opposti”. Due affermazioni spaventano, una per la sua infondatezza, ovvero che la distinzione non faccia parte della realtà, e l’altra per la sua violenza: i generi sono distinti, ma soprattutto opposti. Preoccupa per il furore e il carico di avversione che diffonde la frase di una leader femminista: le donne hanno un’idea molto vaga di quanto gli uomini le odino. Uomini e donne sanno che non è vero, ma deprime l’inversione che sperimentiamo come elemento del pensiero e della prassi progressista: l’odio che provano loro è attribuito al nemico di cui hanno bisogno.

La carica di disgregazione sociale di convinzioni siffatte è tremenda, giacché trasferisce le differenze di visione politica e civile dal campo del dibattito a quello di un moralismo feroce. Non c’è un avversario, ma il Male, il nemico da estirpare; si torna allo scontro elementare descritto da Carl Schmitt, amico/nemico, trasferito in un’assurda guerra dei sessi. Se uomini e donne sono nemici, devono vivere separati – è tremendo il senso di apartheid per genere di certo femminismo ultimo – poiché i maschi sono istintivamente violenti contro le femmine. E’ una contraddizione: se è una costruzione sociale il genere femminile, lo è anche quello maschile, dunque è insensato attribuirgli comportamenti psicologici naturali, biologici.

Intanto, si diffondono legislazioni che trattano in modo diverso episodi di violenza a seconda se commessi da uomini o donne, in spregio dell’uguaglianza dinanzi alla legge, conquista capitale del pensiero europeo, alla quale il primo femminismo aveva inteso attribuire concretezza. Donne non si nasce, si diventa, insistono le neofemministe, pur se altre ricordano che “la nostra biologia non è stata adeguatamente analizzata”.

Un’altra idea femminista fa sorridere per la sua polemica nei confronti di una sciocchezza diffusa da Sigmund Freud, l’invidia del pene che tormenterebbe l’inconscio femminile. Non si sentiva il bisogno di teorizzare “l’invida dell’utero” di cui sarebbero vittime consapevoli gli uomini, a meno di non considerarla, come è nei fatti, la meraviglia ammirata per il mistero della fecondità. Per moltissimi, questo sentimento confuso ma vivo è alla base del rispetto profondo per la madre.

Più serio è un altro argomento femminista: metà della popolazione lavora per quasi nulla. Questa affermazione è vera, ma si sostiene entro una cornice da combattere, la riduzione di tutto a fatto economico misurabile in unità di conto. Il ruolo essenziale di madre, di educatrice, di direzione delle questioni familiari non è economicamente riconosciuto, non è circondato dal prestigio sociale che merita, appare residuale e ridicolo. Le femministe dimenticano tuttavia alcuni fatti. Uno è che la loro irruzione nelle professioni, arti e mestieri fu una scelta di sfruttamento – il primo “esercito di riserva” del capitalismo furono le donne – non di elevazione, un’altra è che occorre rifondare su basi opposte a quelle vigenti la società affinché le donne possano- se lo vogliono – armonizzare meglio il ruolo professionale e quello familiare e soprattutto scegliere liberamente se dedicarsi alla cura familiare che, nella maggioranza dei casi, è anche orientamento della vita comunitaria.

Il neofemminismo odia gli uomini per il fatto di essere tali, condividendone i tratti peggiori, individualismo, corsa al successo, cinismo. Ma il vero odio, praticato con furia e condito di disprezzo, è nei confronti della donna stessa in quanto madre, garante della famiglia, della continuità e della trasmissione dei valori, maledizioni imposte dal maschio, ostacoli all’emancipazione individuale. La pretesa finale è consegnare l’intero progetto educativo a istituzioni pubbliche e funzionari/e addestrati nell’ideologia.

L’ideale dell’ideologia neofemminista converge con l’obiettivo omosessualista, l’esaltazione della relazione sterile in un solo genere. Le battaglie sono spesso condotte in comune, a partire dall’attacco al diritto dei bambini ad avere un padre e una madre e vivere con normalità le rispettive identità sessuali in formazione. L’aborto, al di là di ogni giudizio di merito, scatena un doppio sentimento negativo negli uomini: li umilia, giacché non hanno diritto di parola sull’espulsione di un essere, il preteso “grumo di cellule”, il cui patrimonio genetico è per metà il loro. Alimenta inoltre la diffusa irresponsabilità maschile, lasciando la donna sola con le proprie scelte, specie se prevale la vita e il bimbo nasce, con il diritto a un padre presente non ridotto a supporto economico.

Il nuovo femminismo usurpa la rappresentanza, gli interessi e la volontà della donna, esattamente come i marxisti si arrogavano l’esclusiva sul proletariato e i liberali delle libertà. Delle due grandi ideologie, condivide tutto, specie la riduzione della relazione uomo donna alla dimensione economica. Ciò avvicina tale rapporto alla prostituzione – per molte il matrimonio (eterosessuale!) è prostituzione legalizzata – escludendo o lasciando sullo sfondo l’amore, la condivisione e l’impegno reciproco.

Si tratta di un pensiero magico o isterico per la sua contraddittorietà: nega con tutte le forze le differenze sessuali dalle quali è ossessionato. Un intellettuale spagnolo, Pio Moa, nel 1989 pubblicò un saggio intitolato La società omosessuale, in cui sosteneva la tesi, allora ardita, oggi evidente, che il fondo del femminismo è l’abolizione delle differenze naturali, fisiche e psichiche, trattate come un fatto culturale manipolabile estraneo alla biologia. Per questo Moa definì il neofemminismo ideologia omosessista, separatrice, interessata utilizzare la democrazia contro la democrazia, la propria rivendicazione di libertà contro la libertà altrui, chiedendo a gran voce e poi imponendo un’agenda culturale e legislativa sottilmente totalitaria.

Nessuna controffensiva potrà raddrizzare il piano inclinato, se non si ripartirà da due verità neofemministe per cambiarne la direzione. E’ vero che le donne che vivono la condizioni di madri, mogli, impegnate nella cura familiare non sono riconosciute economicamente e socialmente. Questo deve cambiare per giustizia e per necessità sociale. E’ altrettanto vero che ogni politica è innanzitutto riproduttiva, ma ciò non attiene alla sfera sessuale o ai rapporti di forza tra sessi, bensì alla sopravvivenza di qualunque società. Senza trasmissione biologica, avvizzita da un greve materialismo, isterilita dal rigetto del passato e disinteressata a qualunque futuro diverso da quello soggettivo, ogni civilizzazione muore.

L’ideologia femminista, come la teoria del genere e l’omosessualismo, trova un limite invalicabile nella scomparsa biologica a medio termine, una biodiversità perduta tra le tante. A chi consegneranno le loro idee, la loro sterile visione del mondo, se l’orizzonte è abortismo, soggettivismo assoluto, guerra dei sessi, avversione sociale? E’ la morte per eutanasia attiva, donne e uomini, omo ed etero uniti nel medesimo destino: diventare un pallido ricordo, oggetto di stupore per chi verrà al nostro posto. Avevano tutto, sapevano tutto, perché si sono estinti?