di Roberto PECCHIOLI
Un luogo comune del giornalismo sostiene che la notizia è quando un uomo morde un cane. Più o meno ci è capitato davvero.
Non abbiamo riconosciuto una persona che conosciamo da qualche mese, con cui scambiamo qualche commento all’edicola dei giornali. Lo abbiamo sempre visto con la mascherina tirata sopra il naso, ma stavolta non la portava e ha salutato con un sorriso. L’inversione è compiuta: la maschera è diventata volto e la prima riflessione, dopo le debite scuse, è stata paradossale: c’è stato un periodo della nostra vita in cui vivevamo a faccia scoperta, ci stringevamo la mano e non rispettavamo il sacro “distanziamento sociale”? L’essere umano è plastico, flessibile, adattivo; arriva a credere che quella che vive è la normalità.
Qualunque sia il nostro pensiero sul virus, è evidente che il potere è riuscito a distruggere le relazioni sociali, la prossimità, la convivialità – diventata reato da denunciare – a plasmare individui solitari. Siamo perfettamente manipolabili e “loro” lo sanno. Hanno imposto per legge, o decreto presidenziale – fa lo stesso, anche i cardini e le gerarchie del diritto sono saltate – un interminabile Ausnahmezustand, lo stato d’eccezione teorizzato da Carl Schmitt. Ora sappiamo chi comanda davvero: coloro che hanno imposto di celare il volto con una maschera.
La domanda è raggelante: come si può avere una relazione con l’Altro senza vederlo in faccia? Da sempre, il rapporto con il volto umano è carico di significati e di simboli. Scriveva l’antropologa Ida Magli che mostrare i denti nel sorriso è da sempre il gesto che dimostra non belligeranza, desiderio di instaurare con il prossimo un rapporto amichevole, basato non sulla violenza, ma sulla parola, il Logos. Allo stesso modo, stringersi la mano significa riconoscere l’esistenza di una relazione, la volontà di stabilire un contatto che parte dal corpo fisico. Ci hanno espropriato brutalmente di questi gesti umanissimi e quotidiani, che tendevano ad avvicinare, azzerare le distanze, creare, anche solo per un attimo, una corrente di empatia basata sulla vicinanza.
Vietato: volti coperti, cautelosa misura della distanza fisica (che chiamano “sociale” non per caso) un brevissimo, impercettibile contatto tra i gomiti come massimo di prossimità, calore e persino coraggio. L’altro sarà contagiato, è forse un untore? E’ comunque un pericolo da evitare. Come è possibile una relazione “umana” senza il mutuo riconoscimento del volto, senza l’atto di avvicinarsi, toccarsi, stringersi la mano, sorridere o, al contrario, esprimere fastidio, ostilità, ma sempre attraverso il linguaggio del corpo e innanzitutto del viso? La maschera è fissa, cela e impedisce di scrutare l’anima oltre il volto. Non sappiamo se attraverso la maschera ci difendiamo dal contagio, ma intanto siamo indifesi dinanzi all’Altro e a nostra volta sconosciuti, imperscrutabili.
Un giorno ci autorizzeranno a togliere la mascherina, ma il danno sarà stato fatto, irreversibilmente: quella maschera ci ha fatto diventare non-persone e ci ha cambiato in profondità. Abbiamo scoperto con raccapriccio –la minoranza che riflette e ancora conosce il “Sé” – che il volto scoperto è un segno di libertà e la maschera lo è di soggezione, oltreché di paura reciproca. Nell’antica Grecia lo schiavo veniva definito l’essere senza volto, “apròsopos”, quindi senza dignità, privo di libertà, mero oggetto a disposizione del padrone. Dunque, chi sfrutta il maledetto virus ci ha reificato, ridotti a cose. Al tempo in cui era diffusa la lebbra, chi ne era affetto doveva andare a volto coperto.
La nostra società ha da tempo dimenticato o rimosso, il valore dei simboli. Giriamo a vuoto attorno a noi stessi, sempre meno interessati a interagire con l’Altro. Troppi non riescono più a cogliere l’enorme valenza simbolica della maschera, vista come un semplice DPI (dispositivo di protezione individuale); anche la parola dispositivo ha a sua volta un potente valore simbolico. Il potere, diventato biopotere, signoria estesa al corpo fisico, è a sua volta un “dispositivo”, cioè un meccanismo impersonale che ordina, organizza, impone.
L’essere umano, tuttavia, cerca un volto, una rassicurazione, un contatto, sin dalla nascita: il viso della madre è il primo elemento della relazione che il neonato intratterrà con il mondo. La ricerca della relazione e nella comunicazione durerà tutta la vita. Qualcuno ha scritto una grande quanto elementare verità: scopriamo di essere uomini quando riusciamo a fissare un volto e dire “tu”. Il neonato cerca il volto della madre, il bambino quello dei genitori, l’amante dell’amato, sino alla ricerca del volto di Dio. Possiamo immaginare un dio in maschera? Potremmo pregare e dare del tu all’Altissimo se non fossimo capaci di dare del tu al prossimo come segno di prossimità e comunanza di destino?
I rapporti interpersonali sono caratterizzati sempre più dalla riduzione dell’altro a oggetto di possesso e di uso. Dietro la maschera, è più semplice. Per questo il gesto capitale del potere è stato imporci una maschera: più facile distruggere le relazioni sociali, creare individui soli, isolati, singoli e single, senza radici, senza identità, fragili, indifesi ed impauriti, soggetti/oggetti perfettamente manipolabili. Il volto differenzia l’uomo dall’animale. Lo sapeva Cicerone, per il quale “quello che si chiama volto, che non può esistere in nessun essere vivente se non nell’uomo, indica il carattere di una persona”.
Luigi Pirandello, che al tema della maschera ha dedicato parte della sua riflessione letteraria, fa dire a uno dei Sei personaggi in cerca d’autore “un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre qualcuno. Mentre un uomo – non dico lei, adesso – un uomo così in genere, può non essere nessuno”. Un uomo in maschera è un Signor Nessuno il cui unico affanno è per la sua individuale sopravvivenza biologica. Attraverso il debole diaframma frapposto tra sé e il mondo della maschera/DPI, spera di vincere, almeno adesso, almeno oggi, la sua guerra contro il virus, metafora della morte.
Nel romanzo Uno, nessuno e centomila, Pirandello spiega che l’uomo si nasconde dietro la maschera per celare la propria autentica personalità. La maschera è dunque una mistificazione, un simbolo di spersonalizzazione e di frantumazione dell’io in identità molteplici, oltreché una forma di adattamento al contesto e alla situazione sociale. Nell’antichità le maschere venivano indossate solo in determinate occasioni rituali che marcavano importanti fasi di trasformazione per la comunità di appartenenza (iniziazioni o riti di passaggio). L’essere umano ha sempre avuto l’esigenza psicologica di adottare delle maschere di fronte agli altri, come ha spiegato Erving Goffman ne “La vita quotidiana come rappresentazione”. Per Goffman la libertà individuale è un’utopia e la vita quotidiana è scandita come uno spettacolo teatrale dove ognuno di noi non può fare a meno di recitare una parte.
Viviamo in un mondo di rappresentazioni nel quale interpretiamo più parti. La modernità ha introdotto nuove maschere: stili di vita e di comportamento che si esprimono in abiti, automobili, viaggi e mode.
Da un anno si è formata persino una moda delle mascherine; il cerchio si chiude, l’uomo “liquido” della postmodernità, raggiunto dalla nuova paura assoluta, sceglie maschere per ogni occasione e ora del giorno: proteggono dal virus- forse – ma soprattutto dall’Altro e permettono di non fare i conti con Sé. C’è chi ne possiede di diverse tipi e fogge, con disegni, colori e forme diverse, come per esprimere al massimo grado la natura cangiante, mutevole, liquida del tempo e dell’umore personale. Sono, in un certo modo, antidoti alla paura, feticci a cui aggrapparsi nella condizione precaria in cui l’uomo sperimenta con raccapriccio che “si sta come in autunno sugli alberi le foglie “.
Ciascuno diventa “apròsopon”, senza volto: la verità è la maschera, un’altra delle sconcertanti inversioni dell’epoca postmoderna. Chissà che non ci impongano la foto “mascherata” per i documenti d’identità. La realtà, come per Nietzsche, si trasforma in un gioco di forme illusorie dove non è possibile conoscere la verità, ridotta a rappresentazione. Per Gustav Jung, la maschera è un simbolo della dualità ombra/persona. L’ Ombra di Jung è l’aspetto oscuro della personalità che l’ego cosciente non identifica, di cui la Persona non è pienamente cosciente. L’uso della maschera finisce per alimentare l’Ombra e destituire la Persona, disconnettendola dall’incontro con l’Altro.
E’ questo un aspetto assai preoccupante del nascondimento, della distanza determinata dalla maschera: la chiusura in sé destituisce la condizione dell’uomo come essere sociale. Su questo ha lungamente riflettuto Emmanuel Lévinas, il filosofo franco lituano che ha studiato la relazione con l’Altro e la sua rivelazione attraverso il volto. L’Altro uomo, dice Lévinas, non mi è indifferente, mi concerne, mi riguarda nei due sensi della parola riguardare. In francese si dice che “mi riguarda” qualcosa di cui mi occupo, ma “regarder” significa anche “guardare in faccia” qualcosa per prenderla in considerazione.” L’uomo è protagonista di una relazione con gli altri uomini, etica prima che sociale o politica. Per Lévinas, ciò che caratterizza l’uomo è la sua “inevitabile possibilità” di rapportarsi all’Altro.
L’epifania, che è manifestazione di sé all’altro (questo è anche il significato dell’Epifania ebraico-cristiana del nuovo nato mostrato, “manifestato” alla comunità) avviene nel dialogo, nel “faccia a faccia”. La rivelazione di sé e il disvelamento dell’Altro a partire dal volto è il primo mezzo di comunicazione e lo strumento immediato attraverso il quale si palesa l’umanità di ciascuno. Chiamiamo volto il modo in cui ci si presenta l’Altro. Il suo segreto è nella domanda che rivolge, che è al contempo richiesta di aiuto e minaccia. Con la maschera, finisce la relazione, la richiesta di aiuto si rovescia in minaccia che diventa timore e genera ostilità, distanza, richiesta imperativa che l’Altro esca dalla nostra vita, ridotta a spazio vitale di sopravvivenza, grottesco lebensraum anti contagio.
Il volto è ciò che rimane dell’Altro una volta esauriti tutti i riferimenti al mondo esterno. E’ la manifestazione della sua trascendenza; possiede un senso autonomo che si impone al di là del contesto fisico e sociale. Il volto è qualcosa che sfugge al pensiero ed è questa sua inafferrabilità a renderlo una “traccia dell’Infinito”. In quella epifania, scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’Altro. E l’assoluto si gioca nella prossimità alla portata del mio sguardo, di un gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di rifiuto.
La relazione con l’Altro, relazione etica, è dunque parte dell’essenza dell’Io, apertura, accoglienza del volto. Ciò che caratterizza l’uomo in quanto tale è la dimensione morale, la capacità di infrangere l’egoismo e rispondere alla domanda dell’Altro, ovvero di esserne “responsabile”. L’irruzione del volto ci rivela la presenza dell’altro: la maschera lo nega. Il termine deriva dal tardo-latino masca (strega), passato ad indicare i travestimenti carnevaleschi e teatrali. Da qui l’accezione metaforica della maschera come strumento di inganno, ma insieme mezzo per vincere la paura verso tutto ciò che trascende la volontà.
Persino Dio ha dovuto togliere la maschera e, per farsi riconoscere, mostrare il suo volto diventando uomo, entrando come persona nella storia. Si è rivelato attraverso Gesù Cristo, a sua volta trasformato in simbolo: il volto del destino umano, il significato del nostro essere nel mondo nel volto del Figlio, immagine del padre.
Nel volto si gioca anche il rapporto col Potere. Giorgio Agamben dice che “il volto è anche il luogo della politica”. Ecco perché averlo celato, averne ordinato il nascondimento è un atto di potere, anzi di biopotere, senza eguali. Ne era consapevole l’arte, come mostra l’affascinante dipinto di Lorenzo Lippi, pittore fiorentino del Seicento, Allegoria della simulazione. In esso una giovane donna regge nella mano destra una maschera colorata. Gli occhi, però, sono buchi neri, vuoti, perché la maschera non è che un inganno: è il simbolo della menzogna e della falsità. Può fingere la vita, cambiare l’apparenza di un viso, nascondere o coprire la verità.
Più inquietante, criptico, è il quadro di René Magritte Gli amanti, in cui un uomo e una donna in atteggiamento apparentemente affettuoso hanno il volto coperto da un lenzuolo. Impossibilità di comunicare, indifferenza al volto dell’Altro? Il bacio è destinato a rimanere sospeso. I due, connotati soltanto dagli abiti, non sono riconoscibili e il lenzuolo bianco rende impossibile concretizzare il desiderio. La vita come relazione resta una tensione, un’aspirazione che non si realizza per il conflitto tra ciò che è visibile e ciò che è nascosto, uno degli elementi più profondi del tema della maschera.
Giorgio Agamben avverte: uno Stato che decide di rinunciare al proprio volto, di coprire con maschere in ogni luogo i volti dei propri cittadini ha cancellato ogni dimensione politica. Nello spazio rimasto vuoto, privo di facce riconoscibili, sottoposto a un controllo senza limiti, si muovono individui isolati a cui è sottratto il fondamento immediato e sensibile della loro comunità, che possono solo scambiarsi messaggi diretti a un nome senza più volto.
Il volto è davvero il luogo della politica, della sfida a viso aperto e scoperto alla tirannia che ci ha derubati anche della nostra faccia e ci pretende individui senza volto, dignità, identità, libertà. Il tempo apolitico non vuole vedere in giro persone: le distanzia, le maschera, le copre, sostituite da statistiche e cifre. La maschera, come il tiranno, fa paura proprio perché si presenta senza volto, tanto nega quanto apparentemente afferma. Non è fatta solo di quanto dice, ma anche di ciò che esclude. Per questo il tiranno ama le maschere, a differenza del bambino e dell’uomo semplice che ne ha paura.
Scrive la poetessa russa Anna Achmatova: “Fin da piccola temevo le maschere/perché sempre mi era parso / che un’ombra di più/ fra di loro, senza faccia né nome/ s’intrufolasse. “