di Roberto PECCHIOLI
E’ uno di quei giorni in cui la malinconia ti prende e fino a sera non ti lascia più. Così iniziava una bella canzone di Ornella Vanoni, scritta da Giorgio Calabrese, un paroliere che rispetto ai rapper odierni merita un posto nell’antologia della letteratura patria. La malinconia è il sentimento che coglie riflettendo su una serie di avvenimenti, diversissimi e slegati tra loro, che sono il segno di un tempo bastardo.
In Cina uno scienziato è riuscito a modificare il DNA di due gemelline, aprendo la via, in un silenzio che sbigottisce, alla nuova genetica transumana, in grado di intervenire sulla natura più profonda. Un settimanale ci informa del crescente successo della bambola sessuale di aspetto umano Realdoll, destinata al piacere autoerotico dell’uomo nell’era cibernetica. Si chiama Harmony, si può modellare in distinte versioni, richiedere con accessori diversi: è un simbolo raggelante di solitudine, autoreferenzialità e conduce alla modifica del concetto di persona. Ha aspetto e forma umane, sa conversare e reagire agli stimoli. E’ l’altra faccia della modifica del DNA.
Produciamo esseri umani in provetta, programmati in ogni dettaglio secondo i desideri degli acquirenti, pardon, genitori. Perché scandalizzarsi se qualcuno assembla secondo volontà del cliente – che ha sempre ragione – pezzi di materiali vari con sembianze umane? Presso il parlamento europeo è pronta una proposta per il riconoscimento della cosiddetta “persona elettronica” dei robot umanoidi. La macchina a forma di bambola sessuale è tanto realistica da umanizzarsi nello stesso momento in cui l’uomo si spersonalizza e diventa oggetto, materia bruta. Nessuna fantascienza, nessun Frankenstein e tanto meno l’opera di folli dottori Stranamore, solo la lucida conseguenza del dominio della tecnica.
Terzo evento: in una discoteca sovraffollata della provincia italiana, ragazzini accorsi al concerto di un mediocre cantante del genere trap, Sfera Ebbasta, perdono la vita in un fuggi fuggi prodotto dalla stupidità di qualcuno – lo spray urticante – e dall’avidità di altri, il sovraffollamento del locale e l’impossibilità di organizzare un deflusso ordinato. Muoiono adolescenti per ascoltare un ragazzotto pieno di tatuaggi, aspetto da coatto, incisivi placcati in oro, autore di musica elementare e testi demenziali veicoli di modelli negativi.
Ci sono tanti modi di definire la decadenza, il più conciso è perdita degli obiettivi nella vita. La malinconia cede il passo a una disincantata consapevolezza, poiché la degenerazione è talmente grande da non essere neppure percepita. La mia generazione ha perso, cantava Giorgio Gaber all’inizio degli anni Duemila. Era la presa d’atto della sconfitta di chi si era comunque battuto. La successiva generazione, quella di chi scrive, la prima a essere cresciuta con le idee nuove, quelle del 68 e dei suoi esiti, la libertà, vietato vietare, tutto è dovuto, non ha neppure perduto, ha dato forfait, fuori gioco per rinuncia. I suoi figli possono morire per Sfera Ebbasta nella notte illuminata dalle luci psichedeliche tra smartphone, gridolini, pasticche e molti bicchieri di troppo, dopo aver cliccato “mi piace” e scattato fotografie di se stessi: l’esercito del selfie.
Una canzone con questo titolo, interpretata da un duo dal nome improbabile, Takagi e Ketra, dice: “siamo l’esercito del selfie, di chi si abbronza con l’iPhone ma non abbiamo più contatti, soltanto like a un altro post, ma tu mi manchi, mi manchi in carne e ossa.” Sì, la mia generazione è fallita e contempla le rovine cantando come Nerone dopo l’incendio di Roma. Magari aveva ragione Gaber, “ma questa è un’astrazione, è un’idea di chi appartiene a una razza in estinzione”. I ragazzini di Corinaldo, il paese di Santa Maria Goretti, martire bambina, erano accorsi in piena notte per ascoltare un tizio i cui testi sono i seguenti: “hey troia! Vieni in camera con la tua amica porca. Quale? Quella dell’altra volta; faccio paura sono di spiaggia. Vi faccio una doccia, pinacolada, bevila se sei veramente grezza, sputala poi leccala leccala.” I genitori non possono vietare, gli insegnanti non devono sconsigliare, questa è l’incultura in cui crescono i “millennials”.
Ma chi sono io per giudicare, membro di una generazione che ha idolatrato gruppi rock i cui testi esortavano già alla droga libera e a ogni promiscuità, mentre la musica ritmata stimolava certe zone del cervello per abbatterne le difese? Proprio nelle Marche, regione al plurale specchio d’Italia, a Tolentino, c’è un parco intitolato a John Lennon, con una placca dove è inciso il testo del suo brano più famoso, Imagine, inno universale del nichilismo. “Immagina che non ci sia nessun paradiso. E’ facile se ci provi. Nessun inferno sotto di noi. Sopra di noi solo cielo. Immagina che tutte le persone vivano per oggi. Immagina che non ci sia alcuna nazione. Non è difficile da fare. Niente per cui uccidere o morire e anche nessuna religione.” L’esito del mondo vagheggiato da John Lennon e compagni è sotto i nostri occhi, Sfera Ebbasta, Fedez, J-Ax sono soltanto il precipitato senza qualità della valanga avviata mezzo secolo fa.
Nessuno mi può giudicare, cantava Caterina Caselli. Nessuno, tranne la Matrix planetaria in cui siamo entrati con sciocca allegria, che ci giudica, eccome, ci conosce talmente bene da plasmarci, inducendo desideri, gusti e scelte, e intanto ci sorveglia in mille modi attraverso gli apparati tecnici che ci rendono “comoda” la vita. Comodo scegliere una bambola umana, si paga a rate con rid bancario; i più abbienti possono scegliere il carattere –basta programmare l’algoritmo – oltreché l’aspetto fisico e la forma degli organi intimi. Nessuno, tanto meno le generazioni più giovani, esprime un giudizio etico: proibito. Essenziale è che sia tecnicamente fattibile e, beninteso, alimenti un mercato. Non stupisce l’imperiosa richiesta di dirigere la società avanzata da tecnici e scienziati. Sono loro i detentori dell’unico sapere ammesso, disinteressati a ogni metafisica, materialisti al di là di ogni idea passata. Sono gli stessi che stanno ri-generando il nostro cervello attraverso il linguaggio politicamente corretto, il dilagare del pensiero strumentale, il divieto del giudizio critico.
La cultura del 68 ha arato il terreno, il radicalismo liberale ne ha compreso e promosso l’esito individualista e consumista, la mia generazione non si è opposta, ma si è accomodata con entusiasmo, abbandonando le idealità – giuste o meno- della stagione esaurita nel 1989 alla caduta del muro comunista. Il triste soggettivismo contemporaneo è la vittoria dei peggiori tra i cattivi maestri, Freud, Marcuse, Wilhelm Reich e la sua folle pan sessualità, Max Stirner l’individualista totale. Tutto con la regia degli scaltri epigoni di Mandeville – i vizi privati rovesciati in pubbliche virtù, di Bentham l’utilitarista assoluto e gli economisti classici. Ridotto il mondo della vita a una formula matematica in grado di catalogare e prevedere tutto, lavorano alacremente per renderci burattini, schiavi felici delle loro catene. E’ tanto semplice e comodo il mondo nuovo: tutto in una mano con lo smartphone, online si fa tutto, pagare il biglietto del concerto, risolvere i compiti del liceo, consultare il conto corrente. In pratica, svolgiamo il lavoro che una volta facevano altri e disattiviamo il cervello.
Basta sforzi, la fatica di ricordare, studiare, ragionare. I più astuti diventano Sfera Ebbasta e deridono apertamente i loro fans: “Sfera Ebbasta mucha salsa (hu), euro ballano la samba (i ahh) ordino la tua ragazza (hu). Ho fumato tutto il week end, week end. Non cazzeggio faccio business, business, ho portato due tre amiche (pss pss).” Un coacervo insensato tra urla, grugniti, un linguaggio da suburra in una pseudo lingua che non è l’italiano e neppure l’inglese. Diceva Dario Fo che il padrone è tale perché sa mille parole e l’operaio trecento. Questi ne conoscono cinquanta, più gli ululati e le faccine degli emoticon, il destino è segnato: schiavi inconsapevoli. I rapper fanno affari, se ne vantano, diffondono la dipendenza da sostanze chimiche e alcool: li applaudono come modelli da imitare. Non hanno colpa, sono i nostri figli e nipoti, la terza generazione sconfitta, la prima del tutto priva di modelli positivi o almeno di alternative. E’ responsabilità nostra se vivono per abiti e accessori firmati, l’immagine, sbavano per l’ultimo modello di i-phone, se sono convinti che la libertà sia andare ai concerti, bere, gozzovigliare, esaurire le esperienze già da adolescenti, sballare e consumare.
Conoscono due chiese, la discoteca e il centro commerciale, ma nessuno ha proposto loro un diverso stile di vita, ideali o principi. I loro padri e madri, noi, non sono né diversi né migliori. Non sappiamo neppure proteggerli da se stessi, per viltà e manifesta incapacità. Accettiamo per primi e senza battere ciglio tutto e il suo contrario. La famiglia è polverizzata, il matrimonio deriso tranne se omosessuale, gli “orientamenti sessuali” entrano nelle costituzioni e nei trattati internazionali, si vive e si muore da soli. Il certificato di esistenza in vita è diventato il selfie, io al centro di tutto, il Colosseo, San Pietro, le piramidi sono la “location” (nella neolingua si dice così…) in cui troneggia la mia persona, atomo “speciale” tra miliardi di identici. Ha vinto la scienza nella forma della tecnica applicata, disumanizzandoci in alleanza con chi ha pagato il conto, l’economia e la finanza padrone. Simili ai bimbi di Hamelin trascinati nel fiume dal pifferaio traditore, ci siamo offerti prigionieri di una ragnatela di impulsi elettronici al servizio del principio di piacere.
Uno scrittore inglese di fine Ottocento, resistendo all’ottimismo radicale del suo tempo, si espresse così, ai primi sintomi della febbre che adesso dilaga: “odio e temo la scienza a causa della mia convinzione che essa, per molto tempo se non per sempre, sarà il nemico spietato dell’umanità. Distruggerà tutta la semplicità e la delicatezza della vita, tutta la bellezza del mondo, ripristinerà il barbarismo sotto la maschera della civilizzazione, rattristerà le menti degli uomini e indurirà i loro cuori”. Si chiamava George Gissing e nemmeno immaginava il paradiso della connessione perpetua e della libertà assoluta. Ai suoi tempi non si viveva da soli e non si moriva da soli, si credeva ancora in Dio, si amava la patria e si rispettava la famiglia, che non era diventata ancora tradizionale, o allargata, nucleare, monogenitoriale come nelle infinite formule della bassa sociologia corrente.
In Inghilterra tuttavia, già si teorizzava l’evoluzionismo (elegante copertura pseudoscientifica del rampante liberalismo), il razzismo biologico, si cominciava, attraverso la letteratura distopica e i circoli riservati delle élite imperiali, a parlare di droghe per tenere buone le masse, denatalità imposta, procreazione “scientifica”, ingegneria sociale, eugenetica ed eutanasia. E’ da allora che l’uomo europeo e occidentale ha cominciato a credere alle peggiori sciocchezze dei lumi e della ragione sovrana. Espulsa la filosofia, abolita la metafisica, derisa la religione, l’umanità uscita dai millenni oscuri della sua infanzia – parola di Immanuel Kant – diventava giudice e creatrice di se stessa. La scienza si è convertita in tecnologia al servizio del Denaro promettendo le meraviglie che effettivamente ha prodotto, ma ha perduto il suo rapporto con il giusto, il bene, il limite.
Si è concluso un processo il cui inizio risale al tempo di Francesco Bacone (la conoscenza è potere) e Cartesio, che separò il pensiero (res cogitans) dalla materia (rex estensa). Ne è simbolo l’invettiva del giurista italiano Alberico Gentili, che con la frase silete theologi in munere alieno, tacete teologi sulle cose che non vi riguardano, inaugurava il diritto come disciplina autonoma estranea all’etica. Espellendo dal campo della legge il pensiero spirituale nel 1588 Gentili dava inizio al processo di secolarizzazione che il XX secolo ha concluso e il XXI contempla tra le macerie. La secolarizzazione è l’abbandono di ogni comportamento moralmente orientato attraverso il declino del sacro nel cammino che la modernità chiama progresso.
Tacete, tecnici e scienziati, vien voglia di gridare invano, ma la mia generazione ha perso perché ha smarrito gli argomenti, i principi, le proposte alternative. Si è gloriata di un progresso falsamente avalutativo, che si giustifica da sé, afferma la propria validità in quanto produce scoperte materiali e consente all’uomo, cioè alle oligarchie dominanti, un dominio sulle forze della natura che scatena orgoglio, arroganza, avidità. La natura non è più qualcosa che ci avvolge e trascende, da rispettare e riconoscere, ma una gabbia dalla quale fuoriuscire. I tecnici sono gli unici sapienti poiché padroneggiano le leggi fisiche della natura. Poco importa se il risultato è la riduzione dell’uomo a materiale zootecnico, a plebe desiderante dei nuovi ritrovati dell’industria, un animale ammaestrato ad amare ogni cambiamento e novità, a detestare ogni vincolo o prescrizione che allontani la soddisfazione immediata degli impulsi.
Che importa se l’altro diventa oggetto, possiamo andare oltre e sostituirlo con la macchina, il robot. L’orologio biologico, capriccioso, ci richiama all’istinto di “fare” figli? Meglio ricorrere all’igienica, asettica, salutistica inseminazione artificiale dopo avere scelto statura, carnagione, probabile quoziente intellettivo. La gestazione è lunga, faticosa e impedisce di lavorare, realizzarsi, divertirsi, dare sfogo agli istinti. Milioni di donne povere possono provvedere alla bisogna. Basta una carta di credito e un contratto redatto da altri tecnici, gli avvocati, così non ci saranno sorprese. Il figlio è una mia proprietà, l’ho pagato di tasca e poco importa se sono etero, omo, solitario o poligamo. Il denaro non ha odore, non ha sesso e non conosce scrupoli morali.
Se questa vita ci mette in crisi, nessuna paura. La medicalizzazione di tutto ci sosterrà: pillole per contrastare ansia e depressione sin dall’infanzia (ma non era un mondo meraviglioso, un cielo pieno di stelle?), aiuto psicologico per qualunque difficoltà della generazione fiocco di neve tanto delicata, fragile e diafana, da non turbare con la dura realtà. Nulla di meglio che sballare fin da ragazzini, correre in un luogo fatato chiamato discoteca, bere sino a scoppiare, consumare la vita in paradisi artificiali che diventano facilmente inferni reali, come a Corinaldo.
L’uomo diventato algoritmo non può che scoppiare nella disperazione del nulla, curata con dosi più potenti della stessa droga che l’ha provocata, come nell’economia liberista la malattia è chiamata terapia. Là fuori, una plebe inselvatichita ignora la bellezza ma adora l’immagine, è abbagliata dal cambiamento a ogni costo. Su tutto, regna una psicopatia di tipo nuovo, l’incapacità di distinguere il bene dal male. Un paio di giorni fa ha suonato alla porta di casa una giovane intenzionata a discutere “il senso della vita”. Forse una truffatrice, o l’esponente di qualche setta che sfrutta il disagio interiore offrendo qualche surrogato di spiritualità. La mia generazione ha perso: nessuno nel passato avrebbe fatto porta a porta vendendo il senso della vita.
Abbiamo fatto in tempo a vedere, bambini, la fatica dello straccivendolo ambulante, l’ombrellaio e l’arrotino, gli zampognari, i frati con la cesta dell’elemosina, ma non conoscevamo i commessi viaggiatori dello spirito perduto. Per quello c’erano la famiglia, la comunità, il parroco, il partito e le feste comandate. Evidentemente, il genere “tira” e non ci si può stupire nel mondo dei solitari connessi, dei robot che fanno sesso, dell’esercito del selfie, delle generazioni insoddisfatte più leggere di una piuma. Possiamo consolarci con una novità dei sociologi a tariffa: non si è vecchi sino a 75 anni. Alleluia: lavorare, produrre, consumare, comprare la Realdoll e, per le signore insoddisfatte, un toyboy cibernetico, in attesa dell’immortale futura transumanità.
La mia generazione ha perso, e fa spazio a un’altra ancora più fiacca ed estenuata, ma è tutta una messa in scena, un fumetto come quelli di Bonvi. Abbiamo perduto la partita contro i tempi come Stanislao Moulinski sconfitto da Nick Carter. E il buon vecchio Patsy esce di scena con il tormentone finale: l’ultimo chiuda la porta.
ROBERTO PECCHIOLI