di Roberto Pecchioli
(MB. Ho chiesto io questo articolo a Pecchioli, perché (vecchio dirigente di dogana) mi ha rivelato una cosa che non sapevo: che i dazi sulle merci importate non solo esistono ancora, ma li intasca non il Paese importato, bensì la UE. Essa intasca anche una quota dell’IVA sull’import. E’ il mezzo con cui Bruxelles si finanzia, diventando una potenza sovraoprdinata agli Stati, e impone le sue regole – odiosamente sbilanciate a favore degli interessi privati delle multinazionali, come spiega l’articolo. Esso è tecnico, ma il valore politico della cosa non deve sfuggire: fu con l’introduzione di una tassa “federale” che Alexander Hamilton, in segretario al TEsoro di George Washington, trasformò la lasca confederazione americana in uno stato fortemente centralizzato. Vero è che Hamilton non fece solo questo: assunse anche i debiti dei singoli stati a livello nazionale, accollandolo al governo centrale. Cosa che la Germania non vuole fare in Europa, il che rene questa UE una sistema dispotico e oppressivo).
Il potere reale, in ogni società, è esercitato da chi impone le tasse e fa rispettare le proprie leggi. Ne sanno qualcosa i connazionali che vivono e lavorano nelle zone controllate dalle mafie. L’Unione Europea riscuote tasse, possiede un corpus giuridico e attraverso i tribunali degli Stati membri e la sua Corte di Giustizia, le fa valere a mezzo miliardo di cittadini sudditi. Comunque la si giudichi, è un potere sovraordinato di cui gli Stati nazionali sono diventati un semplice strumento, esattore o braccio secolare.
La nostra convinzione è che viviamo nell’Europa delle tasse e delle sentenze. Dovremmo osservare che l’UE non si dà più neppure la pena di mascherare dietro procedure formali democratiche il proprio potere, che chiama acquis, ovvero patrimonio, “l’insieme delle determinazioni di natura normativa, politica e giurisprudenziale della Comunità adottate nelle varie fasi dell’integrazione europea, che i nuovi membri sono tenuti ad accettare al momento della loro adesione. “(Dizionario Giuridico Simone)
La più importante tassa che paghiamo all’UE sono i dazi doganali all’importazione, che la lingua di legno di Bruxelles definisce “risorse proprie dell’UE”. Ciò significa che tutti i dazi riscossi vengono immediatamente versati su un conto dell’Unione, la quale, a fine esercizio, riconosce un modesto aggio allo Stato a copertura delle spese di riscossione (mantenimento dell’Agenzia delle Dogane, Guardia di Finanza, tribunali amministrativi). Una parte del costo finale dei prodotti di estera provenienza entra quindi direttamente alle casse comunitarie. Anche una quota rilevante dell’IVA sulle importazioni è di pertinenza del bilancio unionale.
Quanto alle accise, una volta imposte di consumo, sono tecnicamente fiscalità interna, ma la circolazione, il deposito e il transito dei prodotti è soggetto a vigilanza comunitaria e gli Stati non possono tassare la fabbricazione o il consumo di alcun prodotto diverso da quelli indicati a livello europeo: energia elettrica, gas, prodotti petroliferi, alcoli e tabacchi.
Un importante organo dell’Unione è l’OLAF, l’agenzia antifrode, uno dei cui compiti è vigilare ogni situazione in cui possano essere in pericolo i dazi. Il suo strumento tipico è l’INF-AM, informazione amministrativa, ricevuta la quale gli Stati devono attivarsi. Spesso le amministrazioni, per evitare accuse di inadempienza, eseguono revisioni dell’accertamento dei documenti del triennio precedente senza ulteriori istruttorie anche in presenza di informazioni non certe. Il risultato è l’emissione di atti con pesanti cartelle di pagamento e l’irrogazione di sanzioni amministrative contestate dagli interessati, che determinano frequenti sconfitte davanti agli organi giudiziari.
Le spese relative sono una tassa occulta a carico degli importatori e della stessa amministrazione, ma ce n’è un’altra che pesa su ogni contribuente: il dazio accertato in sede contenziosa, anche se non riscosso per vittoria di controparte o qualunque altra ragione, è comunque a bilancio dell’Unione. Pantalone paga, il banco vince sempre ed è sorprendente che la contabilizzazione deve avvenire entro 2 giorni dall’individuazione del presunto debito.
La Corte di Giustizia dell’Unione (CGUE) fa il resto con sentenze che favoriscono le lobby private e mettono in scacco gli erari nazionali. Una è la nota sentenza Beemsterboer (CGUE, C293/04 del 9 marzo 2006), ipergarantista nei confronti di chi presenta documenti all’importazione falsi o inesatti. In quei casi i dazi non possono essere recuperati se non si consegue la prova che chi li ha esibiti ne conoscesse l’irregolarità. Una decisione che determina grandi difficoltà probatorie la cui conseguenza è la mancata riscossione dei diritti.
Del resto, è attraverso sentenze della Corte relative ad imposte di consumo e tasse doganali che è stato imposto il primato del diritto comunitario su quello interno. Si iniziò negli anni 60, allorché, con la sentenza Costa contro Enel, la Corte dette ragione a un piccolo azionista della Edison, impresa elettrica nazionalizzata da primo governo di centrosinistra, che non volle pagare una bolletta di 1.925 lire. Le imposte di consumo rientravano nel Trattato di Roma che istituiva il Mercato Comune Europeo nel 1957, la sentenza della Corte Costituzionale italiana che affermava la competenza nazionale venne sconfessata. A fini storici, va rammentato che la nazionalizzazione dell’elettricità produsse un ingentissimo danno alle finanze pubbliche, ma fece la fortuna di uno degli operatori espropriati, la Società Idroelettrica Piemontese (SIP), che si trasformò in Società per l’Esercizio Telefonico e dominò quel mercato per decenni.
Anni dopo, la sentenza Granital della Corte Costituzionale (170/1984) e quella della CGUE Simmenthal contro Finanze, entrambe innescate da controversie tributarie doganali, riconobbero al giudice italiano il potere di disapplicare ogni norma in contrasto con un regolamento comunitario. I regolamenti dell’Unione, migliaia ogni anno, sono immediatamente legge, nonostante siano emanati da un organo non elettivo, la Commissione, formata di 28 commissari, uno per ciascun paese, che delibera a maggioranza semplice. I suoi membri sono tenuti a non considerare l’interesse della nazione d’origine.
L’agenzia doganale verifica fisicamente meno di un decimo delle merci, poche di più sono quelle sottoposte a controllo documentale, tutto il resto corre via, si chiama canale verde. Anche questa è una decisione dell’UE, in nome della libertà di circolazione. Pur in mancanza di statistiche attendibili, è certa l’esistenza di un danno erariale, nonché l’ingresso di merci non conformi dal punto di vista sanitario, della sicurezza, della qualità industriale.
La dogana è assai attiva sul fronte della difesa della proprietà intellettuale, della privativa industriale, della tutela dei marchi e della contraffazione. Per quest’ultima, si tratta in buona parte di un servizio a vantaggio dell’economia nazionale, ma le altre attività mostrano la superiorità dell’interesse privato su quello pubblico. In sostanza, attraverso nuovi istituti giuridici, come l’istanza di sospensione dal rilascio, l’amministrazione pubblica lavora a protezione di interessi privati, spesso stranieri.
Non è raro che i blocchi e i fermi amministrativi si risolvano a trattativa privata tra importatori e proprietari di diritti. E’ capitato di assistere a vere e proprie minacce di grandi gruppi a piccoli operatori. Sul fronte della contraffazione è aneddotico il caso di industrie nazionali che hanno delocalizzato le lavorazioni per un certo tempo e hanno poi visto il mercato europeo invaso da prodotti identici, realizzati dalle industrie a cui avevano fornito know-how, macchinari, conoscenze.
Il caso dell’IVA intracomunitaria è emblematico di logiche contraddittorie. Nel 1993, scattato il mercato unico, l’impegno era di uniformare l’imposta entro il 1997. Dopo oltre vent’anni nulla è stato fatto e gli Stati si fanno concorrenza attraverso sistemi fiscali in cui il trattamento dell’IVA ha un notevole rilievo. Giulio Tremonti ha spesso insistito affinché il peso della tassazione venisse spostato dalle imposte dirette, sul reddito, a quelle indirette.
Premesso che in Italia entrambe sono insostenibili per i cittadini e le piccole e medie imprese, un obiettivo simile richiede un progressivo calo dell’IVA, che è uguale per tutti, dunque grava soprattutto sui redditi bassi. Però non si può agire selettivamente sulla tassazione dei consumi poiché il sistema delle accise è di competenza europea. Presto dovremo attenderci imposte sulle biomasse e su altre fonti di energia alternativa per mantenere il gettito oltreché per sostenere determinati comparti industriali, come dimostra il caso francese delle accise sul diesel aumentate per favorire l’automobile a trazione elettrica, causa della rivolta dei gilet gialli.
Se i regolamenti entrano immediatamente in vigore ovunque, le direttive dell’Unione devono essere recepite dalle legislazioni nazionali. L’impatto della direttiva Bolkenstein sulla liberalizzazione dei servizi è devastante, come sanno balneari, tassisti e tante altre categorie. L’obiettivo, come sempre, è favorire l’ingresso dei grandi gruppi e l’espulsione dei piccoli e medi operatori da ogni settore.
I servizi internazionali costituiscono un caso a parte. E’ ovvio che non debbano essere assoggettati a IVA per motivi di territorialità, ma l’UE non è riuscita ancora a trovare un accordo sulla tassazione dei redditi prodotti, generando un’evasione assai elevata, a favore dei grandi gruppi e dei settori legati all’informatica (servizi immateriali). Quanto ai giganti tecnologici, la loro elusione non è contrastata da alcuna legislazione. I regolamenti, assai loquaci in materia di caramelle, banane e dimensioni dei profilattici, tacciono quando si tratta di Amazon, Google, Apple, Facebook e simili. Si parla di un accordo – ancora lontano – per una tassazione europea del 3 per cento, ripetiamo tre per cento. I contribuenti autonomi, pensionati e dipendenti sappiano da dove viene e chi beneficia l’elevatissima pressione fiscale che subiscono.
Quanto ai dazi, “risorse proprie dell’Unione”, nessuno Stato può disporli autonomamente, ma, anche a prescindere dagli abbattimenti disposti in sede di Organizzazione Mondiale del Commercio, è pressoché impossibile ottenere protezione per la manifattura italiana in quanto il blocco dei paesi capitanati dalla Germania ha opposti interessi e non la consentirebbe. Questo spiega, almeno in parte, la perdita di produzione industriale e di interi distretti manifatturieri subita dall’Italia negli ultimi vent’anni. La Commissione come un cane da guardia, blocca ogni tentativo di aiutare l’industria nazionale in nome della superstizione della libera concorrenza, ovvero della legge della giungla.
E’ persino divertente sapere che diverse controversie sono sorte per traduzioni imperfette – le lingue dell’Unione sono decine – di non pochi regolamenti, mentre avanza un’ingiustificata prevalenza della lingua inglese in ambito UE e una altrettanto assurda emarginazione dell’italiano. Le stesse risorse proprie sono penalizzate dall’enorme potere dei grandi gruppi. La diffusione della delocalizzazione e dell’esternalizzazione di molte lavorazioni permette ai maggiori attori economici multinazionali di corrispondere i dazi – e l’IVA relativa – sulla base del valore indicato dal primo venditore, il fabbricante delocalizzato, attraverso un giro di fatturazioni perfettamente legale, purché venga indicata la destinazione finale delle merci.
Non c’è soluzione, a meno di orientare i controlli di frontiera sulle barriere extradoganali, [per esempio mobilitndo i NAS a fare ispezioni] sanitarie, ambientali, di qualità e difesa dei consumatori e dei lavoratori. E’ tuttavia un’operazione che può riuscire solo se realizzata a livello comune, poiché la Corte di Giustizia considererebbe quei controlli contrari alla sacra concorrenza e ai quattro pilastri della libera circolazione di merci, servizi, persone e capitali.
L’ultima considerazione riguarda la resa degli Stati nazionali al potere europoide. Continuiamo a ingannarci confidando nella Costituzione come argine allo strapotere delle norme UE. I politici che ne parlano mentono sapendo di mentire. Il mitizzato articolo 11 che impedirebbe le cessioni di sovranità è stato superato da decenni nei fatti. I trattati internazionali, a cui i cittadini non possono opporsi per espressa volontà della Carta, hanno rovesciato la mappa del potere, imponendo tra l’altro il pareggio del bilancio in costituzione e il patto di stabilità, in forza del quale Juncker e Moscovici hanno ogni diritto di farsi i fatti nostri (legge finanziaria). La modifica dell’articolo 117 per adeguarlo all’acquis europeo stabilisce infatti che la potestà legislativa, cioè la sovranità, è esercitata nel rispetto “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali“.
Per il resto, la Corte di Giustizia è venuta nel tempo costituendosi come improprio organo di controllo del residuo potere di leggi e costituzioni nazionali. Hanno vinto: viva l’impero europeo delle tasse, dei regolamenti e delle sentenze.