Danilo Quinto – 16 gennaio 2020
Chi ha letto – come a me è capitato – il libro sul tema del celibato sacerdotale, scritto a quattro mani da Benedetto XVI e dal cardinale Robert Sarah, “Dal profondo del nostro cuore” (a cura di Nicolas Diat, Edizioni Cantagalli 2020) dedicato “A tutti i sacerdoti”, sa che non si tratta di polemiche, come dice Bergoglio e come riporta Scalfari. Il testo di Ratzinger e di Sarah si contrappone, in maniera drammatica, alla situazione attuale della Chiesa e di una larghissima parte della sua gerarchia, che intende soddisfare i desideri e i bisogni del mondo, di ostacolo al compiersi della volontà di Dio. Mentre, al contrario, il testo di Scalfari – nel quale è contenuta l’intervista a Bergoglio – costituisce la negazione del Cristianesimo.
Una negazione proposta e attestata da sette, lunghissimi e terribili anni, con le parole, gli atti, i gesti e i comportamenti, da Bergoglio e dai suoi sodali, in assoluta continuità con la pastorale che è seguita al Concilio Vaticano II e con gli intenti anticristici perpetrati dai promotori di quell’assise – primo fra tutti Giovanni XXIII, seguito da Paolo VI – chiaramente ispirati a “valori” eretici e di derivazione massonica. Per Scalfari, che lo scrive su “dettato” di Bergoglio, dopo la notizia della pubblicazione del libro insieme a Sarah, Ratzinger ha fatto pervenire al cardinale argentino “tutta la sua solidarietà”. Così viene “liquidata” la partita che si sta giocando nella Chiesa: a “tarallucci e vino”, a dispetto e nell’indifferenza più totale di tutti quei cattolici che soffrono, smarriti, di quest’ambigua e intollerabile confusione, alimentata da molti e che serve a molti per i loro oscuri disegni.
Non mi soffermo sulle risposte di Bergoglio sui migranti, sui poveri, sull’ambiente e sul clima. Le conosciamo. Il “nuovo umanesimo” si veste anche di amenità.
Il primo punto della negazione delle fondamenta su cui si basa il Cristianesimo è riportato nell’esordio del testo di Scalfari: «C’è un Dio unico, questo è il parere di Sua Santità”, scrive Scalfari, che così prosegue: «E Papa Francesco ritiene di avere il compito di affratellare tutti, non solo i cattolici e i protestanti, ma tutte le religioni che coltivano il loro Dio sottoponendosi alle Sue regole: ci sono nel mondo altre religioni monoteiste e ce ne sono di politeiste, così come accadeva un tempo. Gli dèi di queste religioni spesso si ignoravano tra loro oppure combattevano l’un l’altro fino all’estremo. Questo era il mondo d’un tempo: oggi non si arriva a questi estremi, ma talvolta addirittura si ignora l’esistenza di altre religioni. Francesco è all’opposto di questo pensiero e ciò spiega perchè trova alcune voci contrarie alla sua anche nella religione cristiana. Ma lui va ben oltre. Il Dio unico da lui individuato va ben oltre».
La consuetudine tra Scalfari e Bergoglio e la loro amicizia, mai smentita – come mai sono stati smentiti, nella sostanza, i contenuti dei suoi colloqui a Santa Marta – fanno ritenere che le frasi riportate siano vere e, quindi, che il pensiero di Bergoglio debba essere considerato come contrario e totalmente estraneo alla Parola di Gesù, che dice: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,15-16); «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,18-20; anche Lc 24,46-48; Gv 17,18; 20,21; At 1,8). Dice San Paolo: «Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è una necessità che mi si impone: guai a me se non predicassi il Vangelo!» (1 Cor 9,16).
Il secondo elemento che nega le fondamenta del Cristianesimo è contenuto nella risposta di Bergoglio all’accenno che Scalfari fa al misticismo di Sant’Agostino e di San Francesco. Bergoglio, infatti, afferma: «Io sono mosso dal desiderio di una sopravvivenza attiva della nostra Chiesa, di aggiornare il nostro spirito collettivo alla società civile e moderna. Le religioni, e non soltanto quella cattolico-cristiana, debbono conoscere molto bene e nella sua profondità culturale, spirituale, attiva, la società moderna. Una modernità che comincia quattro o cinque secoli prima di ora».
Non esiste una “società moderna”. La società è sempre “moderna” rispetto al passato, anche se del suo passato custodisce e tramanda i suoi valori fondativi. Se li rinnega e ne priva o li rinnova – per supposte esigenze di cambiamento – diventa una giungla, abitata e dominata da barbari. Anche la società in cui visse Gesù si può definire “moderna” rispetto a quella precedente e infatti la vita del Dio-Uomo non aggiunse nulla alla società che esisteva prima di lui, tranne la realtà del peccato. L’unica “novità” che introdusse Gesù – come ben spiega Don Divo Barsotti – fu la consapevolezza di questa realtà. Nulla cambiò, rispetto a prima, con la Sua morte e con la Sua risurrezione. Il mondo è rimasto quello che era prima della venuta di Nostro Signore. Prima si moriva, ci si ammalava, si facevano le guerre, ci si odiava. Dopo Gesù, si sono vissute – e ancora oggi si vivono – le stesse cose. E’ stato lo stesso Gesù a profetizzare questa verità di fede, che Bergoglio nega: «Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola. Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscite da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. Io prego per loro, non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi» (Gv, 17, 6-11).
Così commentava questo passo del Vangelo di Giovanni, il cardinale Giacomo Biffi in “Pecore e pastori: «Il termine “mondo” evoca un’oscura opposizione all’amore fattivo di Dio per le sue creature; un’opposizione che resterà sempre operante e malefica fino alla venuta gloriosa del Signore. È quindi una realtà in aperto contrasto con l’iniziativa divina di riscatto e di elevazione dell’uomo; una realtà irrimediabilmente ottusa, incapace di accogliere il mistero della giustizia, della misericordia, della paternità del Creatore: “Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto” (Gv 17, 25). È dunque qualcosa di irredimibile, tanto che il Salvatore di tutti e di tutto può tranquillamente affermare: “Io non prego per il mondo”. Non ha nulla in comune con Cristo, e perciò non può avere nulla in comune con quelli che sono di Cristo, poiché tutto è avvolto in un unico odio spaventoso: “Il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17, 16). Essere “nel mondo” ma non “del mondo”: è il dramma del “piccolo gregge”, che è fatalmente sempre alle prese con questo enigma di malvagità, ma deve evitare di avere con esso la minima consonanza; ed è anche l’implorazione più accorata che si eleva dal cuore del nostro unico vero Pastore: “Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno” (Gv 17, 15)».
La terza eresia di Bergoglio espressa a Scalfari è contenuta in queste parole «Noi umani abbiamo ricevuto questa particolarità: l’Io, noi stessi, consapevoli d’essere creature che però hanno tra le loro varie facoltà che il creatore ci ha attribuito anche questa, essere a nostra volta creatori delle infinite, ma microscopiche creazioni che noi stessi siamo in grado di fare».
Considerare divina la totalità delle cose create da Dio e identificare la divinità con il mondo (questo è il panteismo), avere una concezione immanente della divinità (questo è l’immanentismo), significa identificare Dio con il mondo, la natura o la storia, rifiutando di concepirlo in modo “trascendente”, ossia come entità autonoma, separata dal mondo e avente caratteri opposti ad esso (infinito, onnipotente, onniscente e così via). In questo modo – come ha insegnato nei suoi scritti padre Enrico Zoffoli – si estromette Dio dalla realtà della nostra vita, per sostituirsi a lui. Il delirio di onnipotenza dell’uomo – assimilabile, dal punto di vista teologico, alla ribellione del migliore tra gli angeli, condannato dall’inizio al fuoco eterno – ha fatto sì che su questa teoria siano state costruite tutte quelle “prassi” – anche politiche – che nel corso della storia hanno negato la presenza reale di Dio nel mondo, affidando solo all’uomo e alla sua “potenza creativa” il suo essere nel mondo. Da questo concetto sono nate tutte le terribili catastrofi e tragedie che il mondo ha vissuto fino ad oggi e che vivrà fino alle fine dei tempi. Il fatto che l’uomo sia stato creato a immagine e somiglianza di Dio, come racconta l’incipit della Genesi, non significa affatto che l’uomo sia uguale a Dio. Nel meraviglioso dipinto michelangiolesco della creazione, gli indici dell’uomo e di Dio non si toccano. Invece, le parole di Bergoglio portano Scalfari a sostenere che «il Dio creatore non entra nel merito, ma concede la facoltà creativa nel bene, ma anche nel male», fino ad affermare che «alla base della questione “Io” c’è Cartesio: cogito, ergo sum. Fu una rivoluzione quella di Cartesio con queste tre parole, che ci distinguono dagli animali, ma comunque furono una creazione divina».
Il concetto di auto-creazione cartesiana è, dal punto di vista metafisico, quanto di più lontano vi possa essere dal Cristianesimo. «L’immanentismo cartesiano», scriveva mons. Antonio Livi – la cui voce è stata spenta, speriamo temporaneamente, dalla malattia che l’ha colpito un anno fa – in un articolo sull’Osservatore Romano del 16 maggio 2008, intitolato “Meglio il realismo di Tommaso del dubbio sistematico di Cartesio”, «detiene da secoli l’egemonia culturale e politica in Europa: un modo di fare filosofia, un “metodo” che è il presupposto teoretico sia del razionalismo che dell’empirismo del Seicento, con i loro sviluppi posteriori (criticismo, idealismo, positivismo, fenomenologia, neopositivismo, materialismo dialettico, nichilismo, “pensiero debole”), che per Cornelio Fabro costituiscono la prova storica che l’immanentismo porta inevitabilmente all’ateismo positivo». Aggiungeva Livi: «Quanti hanno compreso che l’immanentismo non rappresenta la filosofia moderna tout court, ma è soltanto un’”opzione intellettuale”, che di fatto si è verificata agli inizi dell’età moderna, con Descartes, ma che per tutto il tempo del suo sviluppo storico ha dovuto fare i conti con una critica serrata da parte di altre opzioni, altrettanto o più valide filosoficamente, sono arrivati alla conclusione che non è il “mondo moderno” come tale a opporsi frontalmente al Cristianesimo, ma sono gli ambienti culturali che per motivi ideologici hanno adottato l’immanentismo, e che questo deve il suo prestigio non tanto all’incontrovertibilità delle sue tesi (a cominciare dal dubbio iperbolico) quanto alla possibilità di servire da copertura ideologica per operazioni politiche finalizzate alla demolizione della “cristianità” e all’edificazione di una civiltà neopagana».
Queste parole di Livi, oltre che spiegare l’”operazione” neo-pagana e di “umanesimo ateo” di Eugenio Scalfari, alla quale Bergoglio ben volentieri si associa e si presta, richiamano alla mente il testo non solo di un santo – come lo definiscono Scalfari e Bergoglio – ma di un Padre della Chiesa. Sto parlando del Discorso sul Salmo 136, che Agostino d’Ippona dedica alle due città, raffigurate da Gerusalemme e da Babilonia. Ne riporto il paragrafo conclusivo, intitolato “Desiderio dell’eternità e vita vissuta”: «Fratelli, che i nostri strumenti non cessino di suonare mediante la pratica di opere buone. Cantatevi a vicenda i cantici di Sion. Avete ascoltato volentieri [la nostra parola]; ebbene, con maggiore slancio eseguite ciò che avete ascoltato, se non volete essere salici di Babilonia, alimentati dalle sue acque e privi di frutti. E sospirate verso l’eterna Gerusalemme. Là dove vi precede la vostra speranza sia orientata la vostra vita. Là saremo insieme con Cristo. Anche ora Cristo è nostro capo, ma ora ci governa dall’alto: un giorno ci accoglierà in quella città e saremo con lui, divenuti uguali agli angeli di Dio. Non avremmo mai osato immaginarci una sorte simile se non ce l’avesse promesso la Verità. Questa sorte desiderate ardentemente, o fratelli! <<ad essa pensate di giorno e di notte. Qualunque prosperità di questo mondo vi arrida, non ve ne fidate! Né intavolate amichevoli discorsi con le vostre passioni. Si tratta d’un nemico grande? Uccidetelo sulla pietra. Si tratta di un nemico minuscolo? Schiacciatelo sulla pietra. I grandi nemici uccideteli sulla pietra; i piccoli schiacciateli sulla pietra. Vinca la pietra. Siate costruiti sulla pietra, se non volete essere travolti dal fiume, dai venti, dalla pioggia. Se volete essere armati nella lotta contro le tentazioni del mondo, cresca e si irrobustisca nei vostri cuori il desiderio della Gerusalemme eterna. Passerà la prigionia, verrà la felicità, sarà condannato l’ultimo nemico e noi trionferemo col nostro Re liberi dalla morte».
Nella nuova Babilonia che viviamo e con il desiderio intimo di eternità nella Gerusalemme Celeste, auguro fraternamente a coloro che sono rimasti cattolici di non scoraggiarsi, di combattere, di far sentire alta la propria voce, di non temere gli uomini. Auguro soprattutto ai sacerdoti – appellandomi, se me lo permettono, alle loro promesse del giorno della loro ordinazione – di chiamare a raccolta, fiduciosi, pieni di amore per Gesù e per Maria, le pecore smarrite a causa dei lupi che, per loro fini, intendono rapinare il gregge e condurlo sul baratro della disperazione. Gesù non era disperato quando si è immolato sulla Croce per la carità che nutriva nei confronti dei Suoi amici. Non li lascerà mai soli, ma ha bisogno – ora e prima che sia troppo tardi – che i Suoi amici Lo aiutino nella Verità, che i Suoi amici si contrappongano al male con lo scudo della Sua parola, che i malvagi sentano, istante dopo istante, il “fiato sul collo” della vittoria del Bene.
Danilo Quinto
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