Nell’ambito dell’imperante destoricizzazione della cultura [1] ‒ conseguenza diretta della globalizzazione e della correlata demolizione dello Stato-Nazione ‒ non sorprende l’oblio nel quale sia caduta, non solo e non tanto la metodologia della Storia, quanto una branca della stessa, quella delle élite.
«La storia non fa niente, non possiede alcuna enorme ricchezza, non combatte nessuna lotta» [2], scrisse Karl Marx. Eppure «gli storici greci indagarono e narrarono storie che s’incentravano su un grande avvenimento politico; i padri della Chiesa svilupparono dal profetismo ebraico e dall’escatologia cristiana la teologia della storia imperniata sugli eventi soprastorici della creazione, dell’incarnazione, della passione e della redenzione; l’uomo moderno elaborò una filosofia della storia secolarizzando i principi teologici nel senso del progresso verso un compimento e applicandoli a un numero sempre crescente di conoscenze empiriche» [3], rispose un altro Karl, Löwith.
A netto delle due antitetiche posizioni, il confronto con l’oggi, è a dir poco impietoso: la Storia è lasciata ‒ tranne rarissime eccezioni ‒ ad accademici abili, più che nella ricerca documentale, in quella di consorterie sulle quali far leva per mantenere la propria posizione, a giornalisti televisivi prolifici firmatari di mattoni vergati da staff di ghost writer, a manipolatori ideologici che maneggiano fake news più che documenti, a pseudo biografi che scrivono senza aver mai, dicesi mai, […] messo «piede oltre la soglia ed il proprio culo sulle sedie di qualche archivio, magari di provincia» [4].
Un quadro piuttosto sconfortante, risultante del derby consumatosi negli ideologici anni Settanta del secolo ormai scorso, ad esempio, entro gli italici confini di Clio, tra l’einaudiana Storia d’Italia coordinata da Ruggiero Romano e Corrado Vivanti e la laterziana Problemi di metodo storico [5] curata, niente di meno, che da Fernand Paul Achille Braudel: la prima, fatta di volumi «come quello del Castronovo di pura compilazione événementielle, o dell’Asor Rosa, indulgente nei più vieti metodi della histroire idéologisante, o del Ragionieri, di rigorosa impostazione marxista» [6]; la seconda, una raccolta risoltasi in una vulgata di un approccio «già noto nella communis opinio da almeno vent’anni» [7].
Il depauperamento dell’indagine storica favorì, come tristemente noto, una “sinistra” manipolazione dei fatti storici sulla quale fiorì un «progressivo monopolio ideologico-culturale assolutizzante fino a controllare la memoria storica e le relative fonti di diffusione, con la complicità opportunistica e vile di un’intera classe politica» [8].
E così, la “storia”, oltre a perdere la sua profonda liaison con il “tempo” ‒ coordinata preziosa, sottile e complessa che solo gli storici sanno maneggiare, per dirla con Braudel [9] ‒ divenne financo “smemorata” grazie a quella «sinistra storiografica che per molti decenni aveva fatto di tutto per seppellirla nel cimitero della memoria» [10] vagliando arbitrariamente il grano e loglio e, facendolo, giustappunto, in modo a dir poco sinistro [11].
Sacrificata sull’altare dell’opportunismo e del particolarismo ideologico, la Storia è diventata un’arma della propaganda atta a epurare ricostruzioni ostili alla vulgata imperante; ha cessato di ricollocare «entro i sistemi macrostrutturali» [12] gli avvenimenti e gli individui; ha negato aprioristicamente la possibilità di «un’altra Storia» [13] ritenendo di poter decidere, a netto delle prove documentali una Storia, più Storia di un’altra.
Svuotando dall’interno la missione dello storico, chiamato a dominare i propri sentimenti politici e votato all’autocontrollo ideologico, la storia dei pronipoti di Alfredo Oriani ‒ antesignano dell’utilizzo strumentale e revisionistico in funzione ideologica dei fatti storici [14] ‒ si è perfino autoproclamata in grado di «aiutarci a capire chi siamo e quali radici e presupposti abbia la nostra società» [15].
Ma quale società? E quale storia? Certamente quelle segnate da «una certa resistenza “psicologica” degli studiosi antifascisti ad affrontare parzialmente o globalmente, una realtà che, già sistemata moralmente e nelle sue linee conoscitive generali, in un certo senso “repelle” loro. […] Studiosi che sembrano preferire allo studio del fascismo e della società italiana durante il fascismo quello […] dell’antifascismo o, almeno, della “lotta” al fascismo. E anche qui sembra spesso che la molla che li muove sia più politica che non puramente storica» [16].
Fattasi “politica”, la Storia ha cessato di essere qua talis e di far parlare i documenti. Soprattutto in quel Paese con «la buffa forma di uno stivale situato tra l’Europa e l’Africa» [17] che è l’Italia, ciò non è accaduto solo in relazione al fascismo, come dimostrano le vicissitudini ‒ accademiche e umane ‒ di Gioacchino Volpe prima e di Renzo De Felice poi [18], ma anche in riferimento agli studi sul Risorgimento.
Un periodo, cioè, affossato negli anni Venti del Novecento non solo dal classico del revisionismo firmato da Piero Gobetti [19], ma anche falciato e rimosso dal «pregiudizio satanico-luciferiano» in base al quale «nulla di buono e di grande possa farsi che non sia esplosivo […] Ogni parola vuol essere profonda, ogni sentenza epigrammatica, luccicante di colori iridescenti. È la storiografia dei giornalisti» [20], scriveva Adolfo Omodeo, riferendosi all’opera del Gobetti. Una storiografia del sensazionalismo politico-ideologico, insomma, che ha trionfato sulla Storia vera, quella con la “esse” maiuscola in quanto volta alla ricostruzione fattuale della realtà storica.
Si tratta di un processo che si è verificato, nel caso italiano, mentre «un Paese di cinquanta milioni di abitanti» ‒ scrisse Pier Paolo Pasolini tre anni dopo il derby editoriale tra Einaudi e Laterza prima citato ‒ «sta subendo la più profonda mutazione culturale della sua storia […]: mutazione che, per ora, lo degrada e lo deturpa» [21].
Nello stesso momento, a livello globale, si stava imponendo, sulle ceneri dello Stato-Nazione, la triade internazionalismo – consumismo – cosmopolitismo che ‒ in attesa di trovare la definitiva consacrazione nel “dorato trentennio” [22] della globalizzazione ‒ faceva leva sull’«azione convergente della scuola, dell’università, della stampa, dell’editoria, del cinema e della televisione, nonché, ovviamente, con la volonterosa collaborazione degli uomini politici e degli eterni parassiti e prostituti di professione, i cosiddetti intellettuali» per passare «alla seconda fase, quella della cancellazione pura e semplice del passato e alla distruzione definitiva della memoria» [23].
Una memoria che la storia ‒ depauperata sinistramente della metodologia ‒ non sarebbe stata più in grado di tenere viva: d’altra parte «un internazionalismo-cosmopolitismo ha bisogno di tutto: di norme approssimative, adattabili all’opportunità variabile delle circostanze; ha bisogno di un confine morale (non territoriale), ha bisogno di tecnica (anche economica)… Ma mai più di “Storia”. Che, anche involontariamente ma pericolosamente, rischia comunque di ridare identità. Da qui la destoricizzazione della cultura, la sua sociologizzazione e diluizione nell’effimero del quotidiano» [24].
Non sorprende, quindi, il sacrificio di Clio ‒ figlia di Zeus e Mnemosine che della Storia è musa ‒ e dei pericolosi studi storici. Non sorprende, a maggior ragione, il delitto perpetuato a danno della storia delle élite, filiera di studi nobili che annovera(va) studiosi del calibro di Gaetano Mosca, Pasquale Turiello, Vilfredo Pareto, Roberto Michels: tutti caduti nell’oblio in quanto rei di aver evidenziato che «in ogni società è sempre soltanto una ristretta cerchia di persone che detiene il potere politico di contro a una maggioranza che ne è priva; che questa classe politica si dà il nome di “classe superiore” o di “élite”; che la “legge di ferro dell’oligarchia” ha mostrato di valere ben oltre gli usi politici conservatori, quando si è manifestato il potenziale emancipativo dei regimi democratici» [25].
Vi sarebbe più spazio oggi, per un Turiello o per un Mosca che alla fine dell’Ottocento ‒ ossia «Quando c’era lui, caro lei…», lo Stato-Nazione ‒ denunciavano quanto le élite fossero, di fatto, le protagoniste negative di una critica politologica che muovendo dai documenti storici ne palesava i tanti vizi e le poche virtù? Si può non ritenere purtroppo anacronistico il coraggio di quegli studiosi ad affrescare il quadro realistico degli allora “notabili” demolendo ‒ non a torto ‒ la valutazione positiva di matrice napoleonica delle élite da reputare a priori “superiori” in quanto meritocraticamente subentrate alle decadute nobiltà di lignaggio eredità dell’Ancien Régime?
Nell’età presente dove la storia è stata scissa dal tempo e quest’ultimo è divenuto “opaco” ‒ in quanto i gruppi di interesse privato premono sui decisori pubblici in vista di un tornaconto particolare [26] ‒ e il potere è scivolato nelle mani di pochi giganti transazionali non c’è spazio, a quanto pare, per la storia delle élite.
Che nel frattempo, non a caso, da élite nazionali sono divenute una pangea elitaria unica e globale come il mondo che dirigono.
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Note:
[1] R. Bonuglia, Se la democrazia diventa “regime” e gli intellettuali vassalli omologati, in «Barbadillo», del 1° febbraio 2020, ora in https://www.barbadillo.it/87646-focus-se-la-democrazia-diventa-regime-e-gli-intellettuali-vassalli-omologati/.
[2] K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, ovvero Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci, a cura di A. Zanardo, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 121.
[3] K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Milano, Edizioni di Comunità, 1965, pp. 39-40.
[4] G. Aliberti, Gioacchino Volpe e noi, in «Elite & Storia», a. IV, n. 1, dell’aprile 2004, p. 17.
[5] AA.VV., Problemi di metodo storico, a cura di F. Braudel, Roma-Bari, Laterza, 1973.
[6] G. Aliberti, «Annales» e storiografia italiana: itinerario problematico di un giovane ricercatore, in «Clio», a. XV, n. 3, del luglio-settembre 1979, p. 382.
[7] G. Aliberti, Ambiente e società nell’ottocento meridionale, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1974, p. X.
9] F. Braudel, Posizioni della storia nel 1950, in Id., Scritti sulla storia, Milano, Mondadori, 1973, p. 50.
[10] E. Di Rienzo, Quando la storia diventa smemorata. A proposito di un “Vademecum per il Giorno del ricordo”, in «Corriere della Sera», del 15 giugno 2019.
[11] R. Bonuglia, La “sinistra” manipolazione dei fatti storici, in «Quaderni Culturali delle Venezie» dell’Accademia Adriatica di Filosofia “Nuova Italia”, del 22 febbraio 2020, ora in http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/storia-e-identita/storia-del-fascismo/8460-la-sinistra-manipolazione-dei-fatti-storici.
[12] P. Vilar, La nozione di struttura in storia, in AA.VV., Usi e significati del termine «struttura» nelle scienze umane e sociali, a cura di R. Bastide, Milano, Bompiani, 1966, p. 144.
[13] F. Braudel, Storia e scienze sociali – La «lunga durata», in Id., Scritti sulla storia, cit., p. 61.
[14] Ci si riferisce a A. Oriani, La lotta politica in Italia. Origini della lotta attuale (476-1887), Torino, Roux & Frassati, 1982. Sul tema si rimanda anche a M. Baioni, Alfredo Oriani. Alle origini del revisionismo risorgimentale, in Id., Le patrie degli italiani. Percorsi nel Novecento, Pisa, Pacini, 2017, pp. 161-182 e G. Aliberti, Editoriale, in «Elite & Storia», a. III, n. 2, dell’ottobre 2003, pp. 5-8.
[15] AA.VV., Storia d’Italia, vol. I, I caratteri originali, a cura di R. Romano e C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1972, pp. XIX-XX.
[16] R. De Felice, Introduzione a Id., Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1961, pp. III-IV.
[17] G. Aliberti, Diavoli in Paradiso…ovvero lettera a Isotta, in Id., Il Riposo di Clio, Roma, E-Doxa, 2005, p. 191.
[18] R. Bonuglia, Epurate quel fascista. Il caso Gioacchino Volpe, in «Il Primato Nazionale», a. III, n. 26, del novembre 2019, pp. 86-89 e Id., Lo storico più odiato, in «Il Primato Nazionale», a. III, n. 27, del dicembre 2019, pp. 92-95.
[19] P. Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero piemontese nel Risorgimento, Torino, Edizioni del Baretti, 1926.
[20] A. Omodeo, Difesa del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1951, pp. 439-441, passim.
[21] P.P. Pasolini, Bisognerebbe processare i gerarchi Dc, in «Il Mondo», del 28 agosto 1975, ora in Id., Lettere Luterane, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, p. 634.
[22] G. Tremonti, La strada per uscire dalla crisi, in «Corriere della Sera», del 15 marzo 2020.
[23] F. Lamendola, Liberarsi dal grande inganno e dal grande ricatto, in «Quaderni Culturali delle Venezie» dell’Accademia Adriatica di Filosofia “Nuova Italia”, del 23 maggio 2019.
[24] P. Simoncelli, Ecco perché gli studi storici stanno morendo: sono pericolosi, in «Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale», a. XX, n. 57, del settembre-dicembre 2017, p. 205.
[25] G. Bosetti, 120 anni dopo, viva e forte la teoria delle élites (di una volta), in «Repubblica», del 18 marzo 2017.
[26] Cfr., G. Azzolini, Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale, Roma-Bari, Laterza, 2017.
Foto dall’archivio de “Il Corriere delle Regioni”
Del 12 Dicembre 2021