L’estate cambia i comportamenti. Un po’ per il caldo, molto per il clima di rilassamento trasgressivo che sembra impadronirsi di tutti. Un viaggio verso le spiagge è più istruttivo di ponderosi volumi di psicologia sociale. I treni rigurgitano di persone e di urla. Nessuno tace, il brusio si fa baccano e turpiloquio perché ciascuno deve superare la voce altrui. L’abbigliamento è scollacciato e trasandato. Un’umanità sudata dalla carne esibita che tracima dappertutto, un anticipo della spiaggia, l’ambita meta da raggiungere. La competitività agonistica è al massimo, per occupare l’ultimo posto libero, per raggiungere la toilette, per conquistare un minimo di spazio vitale. Le carrozze sono sporche, dappertutto oggetti e soprattutto rifiuti. L’interno ha lo stesso degrado dell’esterno: le carrozze sono lordate da graffiti e ghirigori di vernice che rendono già vecchio il materiale più nuovo. Poiché il servizio di controlleria è eseguito raramente, moltissimi viaggiano senza biglietto e se ne vantano.
Un clima civile imbarazzante che ricorda la teoria delle finestre rotte di James Q. Wilson e George L. Kelling: esiste un legame tra le condizioni dell’ambiente e i comportamenti delle persone. Più bruttezza, più incuria, più volgarità, più degrado dei luoghi producono comportamenti “ devianti”, antisociali, crimini, insicurezza. Lassismo, tolleranza indifferente, l’incapacità, o peggio la volontà di non punire determinate condotte, a partire dal decoro ambientale e personale, dalle norme di convivenza comunitaria, creano una situazione di disordine che porta alla generalizzazione di comportamenti arroganti, violenti, che determinano insicurezza instaurando un clima di dissoluzione del legame sociale.
Il paesaggio, l’ambiente, il clima prevalente comunicano alle persone come comportarsi. La teoria delle finestre rotte prese le mosse da un esperimento condotto nel 1969 da Philip Zimbardo, docente di Stanford, che abbandonò due automobili assolutamente identiche, una nel degradato Bronx di New York e l’altra nella ricca, tranquilla Palo Alto in California. L’automobile del Bronx venne subito smantellata e distrutta. Quella di Palo Alto rimase intatta. Tuttavia, non erano la povertà o il degrado sociale i motivi della diversità di comportamenti: Zimbardo fece rompere un finestrino dell’automobile intatta e il risultato fu che venne rapidamente distrutta come nel Bronx. Il segnale di abbandono e degrado, il senso di disordine indicato dal finestrino rotto aveva scatenato vandalismo, furti, teppismo.
Un ambiente governato da regole fatte rispettare, la cui violazione comporta punizione e riprovazione sociale determina al contrario una sensazione di serenità che produce ordine, morale non meno che sociale. Se in strada vediamo un edificio con le finestre rotte si innescano elementi di degrado urbano e abbandono che favoriscono condotte negative che generano imitazione ( non pagare il biglietto, prevaricazione, sciatteria) con l’ effetto di moltiplicarle. La finestra rotta, alla lunga, produce il crollo dell’edificio. Non la povertà ma la mancanza di principi condivisi crea degrado. Ne sono prova la storia delle nostre famiglie e delle nostre comunità. Gli inferni che ci circondano sono la somma delle finestre rotte.
Gli indicatori visibili di disordine sono segnali di malessere sociale, spie di futuri gravi problemi. Devono quindi essere affrontati all’origine. Ciò significa che l’instaurazione dell’ordine e della sicurezza di cui una società ha bisogno per potersi sviluppare, inizia dal basso, negli aspetti più elementari. Qualsiasi segno visibile di disordine- finestre rotte, porte divelte, capannelli di sfaccendati, ubriachi, tossici, l’abitudine di ignorare i semafori o saltare i tornelli della metropolitana- modella un ambiente che promuove disordine e poi criminalità. Il male chiama altro male.
La transizione dall’ordine al disordine ha mille aspetti , e l’osservazione delle abitudini quotidiane fa presagire l’imposizione di un nuovo clima a-sociale che allarma. La teoria delle finestre rotte ha subito numerose accuse: non esisterebbe una relazione causale tra mancanza di ordine e reati; il fatto che la criminalità diminuisca quando aumenta l’ordine sarebbe una correlazione casuale. In realtà l’uomo presta grande attenzione alle regole non scritte, informali, ovvero ai comportamenti che vede. Tendiamo a conformarci a ciò che osserviamo; le cattive pratiche sono contagiose più di quelle buone, purtroppo. Il clima generale è permissivo, quasi nessuno rispetta le regole di convivenza faticosamente introiettate dalle generazioni precedenti. Manca o è deriso il senso del limite, dell’onore e del pudore anche nelle condotte più quotidiane. Se guidiamo su una strada con limite di velocità e vediamo degli automobilisti ci superano, tenderemo anche noi ad aumentare la velocità . Se in un’azienda o in un ufficio alcuni non rispettano l’orario di lavoro per assenza di controllo o di sanzione, saremo tentati di fare lo stesso.
Qualunque sia l’ambiente, aspettative, incentivi e punizioni ( i “rinforzi” della psicologia) hanno grande influenza. Le regole formali funzionano se sono accompagnate da conseguenze, altrimenti diventano carta straccia. Ciò non significa che l’unico mezzo sia la coercizione. Occorrono più elementi, alcuni molto sottili ed altri evidenti, come l’educazione e l’insegnamento, perché l’ordine sociale è un sistema complesso quanto la diversità delle personalità che ne fanno parte. Se gli individui non interiorizzano i benefici dell’ordine, se non prendono atto che la spirale del disordine- che inizialmente può comportare dei vantaggi- li trasforma in vittime, la conseguenza è una non-società spappolata , priva di punti di riferimento, alla quale non si può rimediare che con l’uso della forza. Le scienze sociali ( antropologia, psicologia, sociologia) sono animate da un pregiudizio ideologico che confonde libertà con licenza, tolleranza con divieto di formulare giudizi di merito. L’ ordine sociale alla base della convivenza, secondo questa visione, è un sistema di oppressione strutturale, il cui pilastro fondamentale è il principio di autorità.
Pertanto, questo deve essere spezzato per procedere verso una società egualitaria e insieme “ diversitaria”, in cui prevale la volontà soggettiva, un indiscutibile “voler essere “ che ignora verità e realtà, ponendosi come libertà negativa, con la conseguenza di distruggere il terreno comune. L’eclissi dell’idea di autorità è una caratteristica della contemporaneità occidentale, un principio guida sin dagli anni Cinquanta del Novecento, sotto l’ enorme influenza de La personalità autoritaria di Adorno e Horkheimer. Strettamente connessa con la crisi della tradizione e con l’affermazione del primato del benessere e della libertà negativa, ha interessato quattro ambiti fondamentali, la famiglia, la scuola, la Chiesa, la società. Il rifiuto dell’autorità, lungi dall’affermare la libertà, conduce al totalitarismo, l’estensione massima del potere ( A. Del Noce).
La progressiva abolizione del principio di autorità ha portato, attraverso una crescente politicizzazione, alla sconfitta dell’ordine naturale e alla sua sostituzione con la vittimizzazione, e a una singolare “tolleranza intollerante” che trasferisce la responsabilità individuale sulla società. Non è l’individuo ad agire male, è la società che lo spinge a farlo. Estremizzazione del “buon selvaggio” di Rousseau , il “dannato della terra” diventa il nuovo soggetto rivoluzionario al posto del tramontato proletario, che aspira al benessere e a salire la scala sociale, chiedendo condizioni di vita migliori, esigendo regole, norme sociali, in definitiva ordine. Il criminale è vittima e la società colpevole. Ritenere responsabile la società e non il soggetto agente serve a giustificare non solo il deterioramento del clima sociale, ma anche l’azione di chi si appropria di beni altrui. L’ occupazione abusiva di alloggi ristabilisce la giustizia. Lo stesso approccio si applica ai problemi derivanti dalla ghettizzazione. Il fatto che un certo tipo di immigrazione, come quella musulmana, tenda a concentrarsi in alcune aree sarebbe una conseguenza dell’emarginazione dovuta alla xenofobia. L’argomento non manca di valore, ma trascura l’evidenza cha alcune comunità tendono a riunirsi di propria iniziativa per accedere alle opportunità e ai benefici forniti dalla società ospitante, evitando di condividere le sue convenzioni, costumi, leggi. Attraverso la concentrazione “comunitaria”, molti immigrati sfuggono a un’integrazione che non desiderano, e in più assimilano un sobborgo, un quartiere, una città alle loro regole e culture: integrazione invertita. In questi luoghi, l’abolizione dell’ordine “nostro” e del suo principio di autorità finisce non solo per porre un problema alla società ospitante, ma reca danno anche agli immigrati, poiché si traduce nell’imposizione di una legge ferrea a cui un membro di quella comunità può sfuggire solo abbandonandola.
L’ordine ha bisogno di un certo margine di disordine per essere efficace e non venire percepito come un’imposizione autoritaria, soffocante e controproducente. Chiudere un occhio sull’ eccesso di velocità in autostrada non significa promuovere il caos. Guidare a un ritmo leggermente più elevato, quando le condizioni stradali lo consentono, accelera il traffico, ma se lo fanno in troppi, il resto degli automobilisti penserà che guidare sia diventato pericoloso ed esigerà che i limiti siano applicati rigorosamente. Lo stesso vale per qualsiasi scala dell’ordine. Una società ordinata che agisce in base ai propri principi, regole e costumi, è comprensiva e compassionevole. Accetta un certo grado di disordine, diversità e disparità all’interno del suo ordine formale. Ma se il permissivismo viene utilizzato per mettere sistematicamente in discussione i suoi principi, rovesciarli e giustificare valori antagonisti, generando seri problemi di convivenza, prima o poi la società si stancherà delle finestre rotte e invocherà il ripristino dell’ordine e dell’ autorità.
In Occidente per decenni la politica, con il pretesto di promuovere la tolleranza, l’egualitarismo, l’inclusione di mille minoranze reciprocamente avverse ( le “diversità) si è dedicata sistematicamente a rompere finestre, fino a quando la stessa civiltà ha finito per essere messa in discussione nelle sue conquiste, nella sua storia, nei suoi fondamenti e nelle sue radici. Il vittimismo, l’identitarismo, la tolleranza intollerante promossi dalla politica hanno imposto aspettative corrosive ( i “diritti”) che hanno svuotato le nostre società.
Questa transizione dall’ordine al disordine impone ora un nuovo ordine intollerante che allarma sempre più europei ed americani. Ecco perché il rispristino di quell’ordine violato, l’esigenza di riparare e rinforzare le finestre condiziona i processi elettorali. Aumenta il numero di cittadini che si sentono minacciati: la richiesta diventa più pressante. Di qui il conflitto: da una parte un pezzo di società che crede nei “diritti” , che detesta, disprezza e calpesta le vecchie regole civili e trova ampia eco nella cultura e della politica impegnati a distruggere tutte le finestre che incontrano per stabilire un ordine caotico, l’ossimoro del massonico ordo a chao . Dall’altra i “normali” , il popolo, la gente che vive e veste panni. Il dramma del nostro tempo è che queste due società – nemiche, non solo estranee- non hanno più codici comuni.
Le finestre rotte hanno fatto entrare l’odio, di cui ciascuno accusa l’antagonista. Odio, estraneità, incomunicabilità da cui eravamo protetti dall’autorità e da un minimo di comune sentire. L’odio chiama odio , specie se alimentato dall’alto. Nel trionfo del virtuale, delle reti sociali, delle community che hanno sostituito la comunità e la società, resta, concreta e minacciosa, l’avversione totale che rende normale, perfino attesa e salutata con entusiasmo, la violenza fisica, come nel caso dell’attentato a Trump, che segue quello allo slovacco Fico, ai massacri di Gaza, all’impressionante violenza verbale partita dal ceto intellettuale nei confronti degli esponenti politici e culturali nemici. Dalle finestre rotte, entra aria avvelenata.