di Roberto PECCHIOLI
Arthur Schopenhauer non fu un uomo fortunato. Ottenne una cattedra a Berlino mentre vi insegnava Hegel. Le lezioni del fondatore dell’idealismo erano affollate di studenti, le sue andavano deserte. Forse per questo il pensatore originario di Danzica scrisse un libretto pubblicato postumo in cui contrapponeva la dialettica – grande tema hegeliano – all’eristica, l’arte di argomentare con argomenti sottili e speciosi prescindendo dalla verità o falsità di quanto si sostiene. Il titolo che i posteri dettero al breve saggio è L’arte di ottenere ragione esposta in 38 stratagemmi.
Dopo le grandi prestazioni intellettuali dei greci sulla dialettica, scienza dell’argomentare e del disputare, la materia aveva raggiunto con Hegel il suo più elevato profilo filosofico. Schopenhauer, per il quale la realtà non è che rappresentazione, replicò con un’operazione di segno uguale e contrario, riconducendo la dialettica ai suoi termini essenziali di arte per ottenere ragione, “il modo di procedere della naturale prepotenza umana”. Assai meno potente l’impianto filosofico, ma alla fine occorre dare ragione a Schopenhauer. La disputa dialettica è un aspetto della condizione umana, della sua innata propensione al dominio a partire dal linguaggio. E’ attribuita a Talleyrand, maestro di cinismo passato indenne tra rivoluzioni, restaurazioni, repubbliche e monarchie, l’osservazione secondo cui gli dei hanno attribuito la parola agli uomini per nascondere pensiero e intenti. Temiamo che gran parte del pensiero contemporaneo possa essere spiegato in questi termini.
Dall’ illuminismo in poi, non si parla che di dialogo e dibattito, rischiarato dalla Ragione. Non è così, giacché la dialettica, oltre Hegel e al di là dell’uso che ne fa Marx, si è convertita in espediente, accorgimento per ottenere ragione, anzi per averla vinta. Ad ogni costo e nella massima indifferenza per la verità. Nulla di strano, poiché la modernità ha decretato la morte della verità, ridotta, a seconda dei casi, a interpretazione, esattezza del metodo scientifico, o a semplice opinione. Ciò che conta è vincere, imporre le proprie visioni, torcere fatti, verità, bene e giustizia secondo un unico criterio, il vantaggio personale o del gruppo di appartenenza.
Nonostante il trionfo del sapere strumentale e l’egemonia delle scienze sperimentali, le élite destinate al comando continuano a studiare le tre antiche arti del “trivio”, grammatica, eloquenza, dialettica. Lo scopo è padroneggiare gli strumenti, gli stratagemmi, le tecniche per averla vinta, ossia mantenere, estendere, riprodurre il potere.
Ne parla con sincerità un film francese che ha stranamente raggiunto le sale italiane. La trama, pur intrisa di insopportabili cedimenti al luogo comune e al politicamente corretto, è intrigante. Una ragazza della banlieue degradata di origine araba impara da un burbero professore conservatore l’arte della retorica per un concorso di eloquenza tra le università transalpine. Supportato dalle teorie dei grandi filosofi, il docente distilla lezioni di retorica dialettica volta a guadagnare il consenso del pubblico, poiché non conta ciò che si dice ma come lo si dice ai fini dell’obiettivo che si intende conseguire.
La verità non importa, ciò che interessa è ottenere sempre ragione. Non vi è dunque dibattito, ma colluttazione, scontro in cui avere la meglio. Alla fine, la ragazza, francesina la chiamano con disprezzo i coetanei della banlieue, divenuta un brillante avvocato, impara a usare la parola in termini di potere, realizzazione individuale, successo. Schopenhauer, l’autore di riferimento del professore, la spunta su Socrate, Platone, Hegel. La dialettica diventa strumento di una amoralità di massa la cui unica regola è vincere. Dilaga il sofisma, prevale il disinteresse per la giustizia, si diffonde la negazione della verità.
E’ cronaca recentissima la sconcertante sentenza della Corte Costituzionale che ha scelto di non decidere sul caso della punibilità o meno del favoreggiamento al suicidio dello sfortunato DJ Fabo. I quindici giureconsulti, crema del potere vigente, hanno il compito di stabilire se una norma è conforme a costituzione, nella fattispecie se il caso configura il reato di istigazione al suicidio. Giuliano Amato e chiarissimi colleghi si sono rifiutati implicitamente di ammettere la costituzionalità della legge vigente. L’espediente, lo stratagemma per avere ragione è sconcertante: mancherebbe un “assetto normativo concernente il fine vita “.
Puro sofisma, unito all’invito (una ingiunzione?) al parlamento affinché faccia una legge. Una novità assoluta, un organo di garanzia che non si pronuncia sul quadro normativo esistente (la tanto esaltata legalità, lo Ius conditum dei romani) ma esorta il parlamento a promulgare una legge nuova, affermando di fatto che quella vigente non è di suo gradimento, ancorché conforme a costituzione. La chiamano democrazia e certamente hanno ragione, poiché, come sapeva il La Fontaine, autore di fiabe, la ragione del più forte è sempre la migliore (Il lupo e l’agnello). Non siamo capaci di esprimere un parere sulla delicatissima materia del contendere, ma ci avevano spiegato che lo Stato di diritto si basa sull’imperio della legge scritta, non di quella eventuale, futura o futuribile. Dialettica al potere attraverso il potere dei dottori della legge. Un cavillo, la corazza di chi comanda, ed è fatta. Jean Jaurés, un granitico progressista, sosteneva che quando gli uomini non possono cambiare le cose, cambiano le parole.
L’Occidente ha trovato da tempo il pensiero conforme a sé, quello dei sofisti. Con Protagora, che praticava il metodo della contesa tra tesi contrapposte, difendendo indifferentemente un’idea e il suo contrario poiché riteneva vere tutte le opinioni in quanto è l’uomo la misura di tutte le cose, si è ancora nel recinto del relativismo, ma il vero modello dei contemporanei è Gorgia. Nichilista ante litteram, non fu propriamente un filosofo, bensì un retore interessato a persuadere l’ascoltatore, riportare la vittoria nella discussione senza badare alla verità. Per lui la parola non è veicolo di verità, ma di suggestione e persuasione. La retorica sostituisce la conoscenza e “chi inganna agisce meglio di chi non inganna”. Un perfetto manifesto del presente, unito all’abitudine, comune ad altri sofisti, di farsi pagare per le prestazioni dialettiche. Un eroe del nostro tempo l’avrebbe definito Michail Lermontov, simile al personaggio di Grigorij Pečorin, rappresentante di una generazione priva di cause per cui lottare.
Il nostro tempo ha tematizzato il desiderio di “averla vinta” innanzitutto sottraendolo al giudizio morale. Revocate in dubbio le categorie di vero e falso, chiuso in archivio G.B. Vico e la sua professione di verità coincidente con il fatto (verum ipsum factum), si è fatto strada un machiavellismo di risulta, il cui livre de chevet è L’arte della guerra di Sun Tzu, declinato in chiave manageriale. Alla ferocia dell’applicazione strumentale non sfugge il pensiero astratto, in particolare la teoria dei giochi, nata con Von Neumann e Morgenstern per spiegare in termini matematici il comportamento umano e le sue decisioni in situazioni di conflitto. John Nash arrivò a individuare legami tra la teoria dei giochi e il Principe del Segretario fiorentino. “Nelle pagine di quel capolavoro si ha l’impressione che Machiavelli cerchi di insegnare a dei mafiosi come operare in modo efficiente e spregiudicato “. Noi temiamo al contrario che sia l’esito della tracimazione dalla matematica a prontuario esistenziale.
Non troppo diverso è il destino di alcuni aspetti della programmazione neurolinguistica, sorta come metodo di comunicazione e terapia psicologica ispirata dal sistema di Milton Erikson. Spesso, la sua pratica si riduce all’individuazione degli schemi di comportamenti di successo. Mappe psicologiche e metamodelli diventano, nella banalizzazione della PNL, schemi, procedimenti tesi al successo individuale, specie nelle relazioni conflittuali e nella discussione. L’etica del mercante è elevata a universale, l’arte di trarre il massimo profitto nelle transazioni indicata come modello generale di comportamento. La sua giustificazione teorica è l’enfatizzazione del dialogo, presentato come una panacea di ogni problema, un portentoso farmaco in grado di evitare i conflitti.
Juan Donoso Cortés definì “clasa discutidora” la borghesia rampante già alla metà del XIX secolo. Le virtù della discussione sfuggivano ai saggi dell’antichità orientale come Chuang Tzu, che accusava l’eccesso dialettico di scarsa chiarezza di idee, affermando che “un cane non viene ritenuto valente perché è bravo ad abbaiare, dunque un uomo non viene considerato eccellente perché è bravo a parlare “Viviamo un tempo in cui la dialettica è praticata come arte dell’imbroglio o della creazione del consenso. Le reti sociali misurano il valore di uomini e idee dal numero di “mi piace” e di chi si dichiara seguace (follower). Ogni disputa, nei nuovi media, è caratterizzata dalla povertà del linguaggio, dal riduzionismo, dall’ insulto e dal luogo comune, da esprimere in gran fretta, in tempo reale. Abolito l’approfondimento, tutto diventa sondaggio d’opinione, la ragione e il torto dipendono dal numero di “like”. Tutto, apparentemente, è messo ai voti, ma in realtà la forma della domanda precostituisce la risposta.
Torna d’attualità l’eristica di Schopenhauer, la dialettica come stratagemma. Per usare il lessico del pensatore prussiano, capirne i meccanismi è squarciare il velo di Maya, “il velo ingannatore che avvolge gli occhi dei mortali”. La lettura dei suoi 38 stratagemmi dialettici è un istruttivo disvelamento di ciò che ascoltiamo ogni giorno da politici, pubblicitari, imbonitori, persuasori di ogni risma, con l’avvertenza che, secondo il pensatore tedesco, la dialettica non si occupa della verità oggettiva, riservata alla logica, ma è semplicemente l’arte di ottenere ragione. Compito del sapiente è quindi presentare e analizzare gli inganni della slealtà, “affinché nelle dispute reali li si riconosca e li si annienti subito”.
Diventa facile scoprire quante volte siamo sviati, coscientemente ingannati, dall’azione di chi porta l’affermazione avversa fuori dai suoi limiti, per esagerarla o estenderla oltre il suo significato, addirittura universalizzarla o intenderla sotto tutt’altro aspetto per meglio confutarla. Ci si può servire di premesse false per dimostrare la propria tesi, incalzare con domande continue per confondere l’avversario e trarre le conclusioni dalle stesse affermazioni della controparte, il metodo socratico privato della ricerca morale della verità.
Tutti espedienti che il lettore si accorge di aver subìto in innumerevoli occasioni, come lo stratagemma comunissimo di provocare a freddo l’ira dell’avversario per screditarlo e provocarne le reazioni inconsulte. E’ una strategia di cui si serve il potere culturale, largamente utilizzata nell’imposizione del linguaggio politicamente corretto, che sceglie i termini con cui designare le idee, le cose, i principi. Si introduce nel significato ciò che si vuole dimostrare, in senso favorevole o contrario. L’oratore tradisce la sua intenzione nei nomi che dà alle cose, in base all’orientamento e all’obiettivo che si prefigge.
Per Schopenhauer, funziona egregiamente l’impertinenza, specie se l’avversario è timido, più ancora la contraddizione, vera o presunta, imputata all’avversario, che può precipitare nell’ira. Lo stratagemma numero 18, assai utilizzato, invita a interrompere il discorso altrui quando se ne intravvede la fondatezza. Il suo corollario è rigirare la frittata, ovvero la diversione, andare fuori tema per sviare il discorso. Poi c’è il sofisma, che Schopenhauer consiglia di non controbattere, ma di assecondare ricorrendo a un contro argomento altrettanto sofistico e apparente. E’ buona norma esagerare la tesi avversa e trarne false conseguenze. Un tiro brillante è ritorcere contro il rivale l’argomento utilizzato.
Il momento più atteso dal sofista è quello dell’ira suscitata da un’affermazione. E’ il segno che l’avversario vacilla, dunque occorre non dargli tregua. Se si ritiene di avere dinanzi un pubblico poco colto il miglior partito è di avanzare obiezioni che destino l’ilarità dei presenti. Si raccomanda la petizione dell’autorità di uomini illustri, giacché, nota Schopenhauer “la gente ha rispetto per gli esperti di ogni genere”. Le loro tesi, se riusciamo a convincere che sono universalmente accettate, fanno un grande effetto sulle masse, “pecore che vanno dietro al montone dovunque le conduca”.
Questo è un punto su cui riflettere, poiché chi detiene il potere culturale e mediatico è padrone delle parole. Diventa difficilissimo attribuire a termini quali democrazia, libertà, progresso, tolleranza, razzismo, significati diversi da quelli comuni in un certo contesto e periodo storico. I molti, capì Platone, hanno molte opinioni, ma solo alcuni sono in grado di distinguere, discernere. “Io lo dico, tu lo dici, ma alla fine lo dice anche quello. Dopo che lo si è detto tante volte, altro non vedi se non ciò che è stato detto”, è il motto che Goethe pose in esergo alla Teoria dei Colori. La ripetizione di una menzogna può trasformarla in verità.
Un altro espediente che sperimentiamo quotidianamente consiste nel ricondurre il discorso avverso a categorie odiate o screditate, il che consente di non aprire neppure il dibattito. Quell’opinione è “fascista”, “comunista”, “reazionaria” a seconda del bersaglio da colpire. Non ci preoccupiamo troppo, quindi, quando l’attacco verte su queste pregiudiziali: è il segnale che temono il dibattito e intendono spegnerlo con le accuse che Leo Strauss chiamò “reductio ad Hitlerum”, ossia inserire l’antagonista nel novero di chi non è degno di aprire bocca. L’ultimo e definitivo stratagemma è ricorrere all’insulto. E’ la risorsa di sa di avere torto o è in difficoltà. Diventando insolenti, perfidi, oltraggiosi, grossolani, si fa appello alle forze dell’animalità e si colpisce nella vanità e nell’istinto. Gli esempi non mancano.
Schopenhauer si spoglia alla fine dei panni del manualista scettico e torna il pensatore provvisto di senso morale. Consapevole che la volontà di averla vinta, la brama e l’interesse di ottenere ragione non si fermano dinanzi alla menzogna, alla falsificazione e all’ingiuria, invita a discutere solo con chi ha abbastanza intelletto, ama la verità e sa ascoltare. Una vana pretesa nel mondo di Facebook, dei sondaggi d’opinione, di un’umanità persuasa di essere in grado di capire e decidere su tutto, folle che sono masse e mai popoli in cammino. La triste arte di averla vinta, cioè mentire ed ingannare è da sempre scienza comune di chi esercita o ambisce al potere. Nell’epoca della post verità, di masse che seguono “liberamente” il pastore e credono “consapevolmente” nel verbo di chi comanda, riecheggia il detto del cardinale Carafa: il popolo vuole essere ingannato, quindi che sia ingannato. ROBERTO PECCHIOLI