Che finiscono per divorare l’intera magistratura italiana. Ecco perchè esse vanno superate. La prova? Chi non è nelle correnti non fa carriera.
di Bruno Tinti, Ex Magistrato
Le correnti della magistratura sono il cancro che la divora. Spiego perché. I magistrati sono assunti per fare i processi: ce ne sono di normali, di bravi e di bravissimi; gente che lavora bene, altri che lavorano bene e tanto. Ce n’è anche un certo numero che non sono bravi per niente e lavorano pure poco. Ogni tanto il Csm si chiede: quale tra loro è il più idoneo a svolgere questa o quella funzione? Chi deve essere chiamato ad occupare questo posto? E, siccome la giustizia è un servizio pubblico, non dovrebbe decidere per dare una (giusta) gratificazione personale a chi se lo merita ma per garantire alla collettività il magistrato migliore per svolgere una certa funzione.
Dunque tutto dipende dalla valutazione delle capacità professionali: capacità nell’istruire o nel celebrare processi e capacità auto ed etero organizzative. Insomma dalla valutazione del «merito». La domanda naturalmente è: chi la fa questa valutazione? Come possiamo essere sicuri che sia oggettiva e competente? Il mestiere dei magistrati è delicato, il potere loro attribuito enorme, le conseguenze delle loro decisioni possono coinvolgere gli aspetti più importanti della vita politica, economica e sociale dello Stato. Dunque il problema sta nell’evitare che la valutazione possa essere inquinata da interessi personali. La Costituzione aveva trovato un sistema che, allora, sembrò buono: l’autogoverno; saranno gli stessi magistrati, eletti da tutti i magistrati, che si assumono, per quattro anni, questo compito. Tutti gli altri poteri dello Stato, politici ed economici, non possono interferire.
Il problema è che la «carriera» fa gola a molti; forse a tutti. Ad alcuni certamente più che ad altri. Solo che riuscire a illustrarsi per meriti giudiziari (preparazione giuridica, laboriosità, onestà, indipendenza) è complicato. La maggior parte dei magistrati è un pozzo di scienza giuridica; quasi tutti lavorano come bestie; e, quanto all’onestà e indipendenza, come le si accerta? Non è che si può declamare: io sono stato avvicinato da questo o quello che mi hanno chiesto questo e quest’altro e ho rifiutato; e, se lo si potesse, lo farebbero tutti. Quindi emergere dalla massa è complicato. C’è chi se ne frega: il lavoro, specie quello del magistrato, è davvero premio a se stesso. E c’è chi vuole fortissimamente fare carriera e cerca strade alternative che gli permettano di arrivare in cima.
La strada alternativa abituale è la corrente. Cominciano da subito: si iscrivono, partecipano a convegni, gruppi di studio, manifestazioni. Parlano spesso, in molti luoghi e a voce alta. Non dicono mai io: sempre noi. Si candidano per ogni posto previsto dall’ordinamento giudiziario. I Consigli giudiziari (piccoli Csm regionali), molto potenti perché danno i pareri sull’attività professionale dei magistrati del distretto; pareri che sono trasmessi al Csm e condizionano la vita professionale del magistrato. La giunta dell’Associazione nazionale magistrati (il sindacato), il Consiglio direttivo centrale dell’Anm (mitico, il Cdc che tutto delibera). Il Csm; prima come magistrati segretari e poi, dopo la gavetta, consiglieri.
Questa frenetica attività comporta alcune conseguenze. Il lavoro giudiziario passa necessariamente in secondo piano: il presenzialismo, la redazione di relazioni e pareri, la partecipazione e riunioni periodiche degli organismi in cui ci si è fatti eleggere, le campagne elettorali, tutto questo porta via un sacco di tempo; sono previsti addirittura esoneri parziali o totali dal lavoro ordinario. Insomma i magistrati finiscono con dividersi in due categorie: gli spalatori (che spalano fascicoli) e gli scalatori (che scalano la piramide degli incarichi extra giudiziari; mal contati sono circa 500). Ma, soprattutto, si creano situazioni di potere. Quelli che fanno pareri, che decidono dell’avvenire dei colleghi, che li trasferiscono o no, che gli assegnano un incarico ambito o no; questi non sono più colleghi: sono padroni. E molti pensano che essere un padrone è meglio che essere un semplice lavoratore.
Da qui le correnti. Come si fa a partecipare a questa particolare specie di «carriera»? Ci si intruppa. Il gruppo organizzato (la corrente) assicura il voto: con la prospettazione (implicita, non c’è bisogno di spiegare nulla) che chi vota per la corrente ne sarà tutelato e favorito. E i due terzi dei magistrati italiani votano dunque per questa o quella corrente.
Si crea un sistema di correntizzati e correntocrati che si autoalimenta. Ognuno ottiene qualcosa (un trasferimento, un incarico extra giudiziario, un posto di capo ufficio) che, forse, potrebbe ottenere anche per semplice merito personale. Ma il sistema è congegnato in modo che questo non conta più nulla: non sono le qualità professionali (magari esistenti) che contano ma l’appartenenza; e più si è scalata la corrente cui si appartiene, più il premio è alto. Insomma è una carriera costruita su qualità che con la professionalità del magistrato non hanno niente a che fare.
La prova? Tutti i componenti di tutti i Csm sono sempre stati associati a una corrente. Mai nessuno (nessuno) che non fosse un correntizzato ne ha fatto parte. A tutti i consiglieri uscenti il Csm successivo ha sempre conferito posti di grande importanza. Per i quali forse erano anche qualificati (in più di 40 anni ne ho conosciuti una decina); non molti ma, d’altra parte, non è ragionevole pensare che tutti, tutti i consiglieri Csm fossero professionalmente eccezionali; qualcuno (quanti?) inevitabilmente non lo sarà stato; ma ciò non è mai stato un impedimento. Vero, la regola è che ai consiglieri uscenti non può essere assegnato subito un posto direttivo; devono tornare dove stavano prima. Ma in tasca ognuno ha la sua cambiale: la riscuote dopo un anno, quando questo virtuoso termine è scaduto.
Basta vedere dove sono finiti i magistrati di tutti i Csm precedenti quello scaduto nel 2018 (per intenderci quello di Palamara): tutti in posti di Presidente di Sezione, di Tribunale, di Corte d’appello, di Sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione. Provenivano da posti di giudice semplice, di sostituto semplice (così li chiamavo io, parafrasando il noto grado militare, l’infimo, il soldato semplice). Ma questo non ha impedito a nessuno di loro di diventare almeno colonnelli, quando non generali o addirittura marescialli d’Italia. Per meriti consiliari (cioè correntizi) e senza passare dal via. Certo i Maddalena, gli Spataro, i Caselli se lo meritavano. Di quanti altri si può dire lo stesso?
Come è disperatamente attuale il dialogo sicuramente esagerato del giudice Pott con il Procuratore generale della Corte d’appello di Parigi.
«Eccellenza mi rivolgo a lei perché è uno dei due o tre giudici che ritengo onesti.»
«Ma quanti siamo esattamente, due o tre?»
«Non li ho mai contati per paura di non arrivare a due»
(L’esperimento di Pott, Sonzogno, 1929)
da: https://www.italiaoggi.it/