di Roberto PECCHIOLI
Il femminismo del XXI secolo ha raggiunto punte di follia. Lontano dalle legittime rivendicazioni di parità del secondo Novecento, si è trasformato in ideologia avvitata su se stessa, una spirale i cui tratti sono il rancore contro l’uomo, l’adesione acritica alle favole del politicamente corretto, la vicinanza al mondo LGBT (omosessualismo e transessualismo) l’oltrepassamento dell’abortismo verso le derive della nuova genetica, il libertarismo più estremo. Innestato dagli anni 60 del secolo XX su filoni anarchici, neomarxisti, libertari e laicisti, il femminismo è un fenomeno di grande ampiezza, caratterizzato dalla longue durèe di cui parlarono Fernand Braudel e il gruppo di Annales. E’ altresì innervato dall’identica tensione verso l’effimero consumista dell’intera civiltà dell’intrattenimento di cui è espressione.
Negli ultimi venti anni, oltrepassato il marxismo, inservibile come concreta prospettiva, si è fatto portatore di un’autentica “violenza simbolica”, nel senso descritto da Pierre Bourdieu, una forma di violenza esercitata non con mezzi fisici, ma con l’imposizione progressiva di idee, visioni, paradigmi culturali, strutture mentali. Pensiamo allo tesso lemma “femminismo”, cui è attribuito un universale significato positivo, liberatorio. E’ pressoché obbligatorio per una donna essere femminista e per ogni uomo approvare tale forma di pensiero, ma è del tutto proibito essere maschilisti. Anzi, il termine è associato, insieme al suo omologo sessismo, a condotte volgari, autoritarie, misogine quando non direttamente assimilato alla violenza fisica. In questo senso, il nuovo femminismo è escludente, in quanto nega il diritto a idee uguali e contrarie di parte maschile, è anti solidale, in quanto prospetta una società basata non solo sulla competizione tra i sessi, ma su una guerra continua.
Nessuna complementarità, dunque, tra uomo e donna, come in natura tra maschio e femmina, con i loro ruoli distinti e regolati da ritmi, funzioni e differenze biologiche. L’antagonismo fra uomo e donna sorge dalla ribellione alla natura da parte di una civilizzazione malata di onnipotenza, l’hybris contro le leggi inscritte nel creato. Tra i due sessi sorge e viene alimentato per scopi di divisione e ingegneria sociale il disagio, la frammentazione, la schizofrenia e la volontà di disordinare ciò che è ordinato per natura. La maternità, anziché essere esaltata come lo straordinario potere di donare ed accogliere la vita, è vista come un’iniqua punizione del destino a cui porre rimedio attraverso le pratiche abortive, lo sganciamento della sessualità dalla procreazione, l’adesione entusiasta alla nuova genetica.
Perfetto esempio del transito della sinistra novecentesca verso le posizioni neoliberiste in economia, libertarie e libertine nella società civile, il nuovo femminismo rappresenta di fatto interessi e disvalori delle élites neoliberali: competizione sino alla guerra aggressiva tra i sessi derubricati a generi, individualismo sfrenato, svalutazione del sacrificio, disprezzo per la maternità, banalizzazione del sesso, riduzione dell’aborto a pratica corrente in quanto diritto umano, orrore assoluto per la famiglia. Affiorano elementi di autentico odio per l’altro sesso, tanto che l’attivista argentina Marta Dillon (Ni una menos) si è spinta a considerare pericolosa ogni relazione affettiva, sentimentale, sessuale con gli uomini in nome del rifiuto verso la società “eteropatriarcale”. Un omosessualismo di fatto per radicale contrapposizione all’universo maschile.
Quanto al movimento #Metoo, mosso inizialmente dal giusto impegno contro molestie e abusi sessuali, si è trasformato in una sorta di tribunale speciale giacobino, un soviet dedito all’implacabile smascheramento di ogni comportamento maschile come violento e teso all’abuso sessuale. Oltre 400 casi segnalati dalle militanti delatrici riguardanti dirigenti o uomini di potere hanno costretto gli accusati alle dimissioni o ne hanno provocato il licenziamento. Quanti di loro risulteranno innocenti, quanti saranno i casi di regolamento di conti per i più vari motivi? L’ impressione è che il nuovo femminismo sia divenuto assai funzionale agli interessi di potere, dominio e manipolazione delle oligarchie neoliberali, la cui tecnica consolidata è il divide et impera. Un’arma in più per mettere in concorrenza, costruire relazioni conflittuali tra gli individui-massa nel mondo del lavoro, nell’imprenditoria, nel consumo, nella vita quotidiana.
Creare rivalità, alimentare antagonismi significa deviare l’interesse degli uomini dalle lotte tra Servo e Signore (Hegel) e spostare il confitto in una dimensione orizzontale, che mette in discussione tutto tranne l’essenziale, ovvero il potere del Signore neofeudale e neoliberale. In questo senso, il femminismo esacerbato di oggi è una splendida opportunità per chi comanda, una follia per tutti gli altri, uno dei tanti filoni antiumani della decadenza europea e occidentale. Nell’eterno conflitto tra natura e cultura, una volta derisa la legge naturale, secondo la tradizione europea proveniente da Dio, si travolge ogni costume, tradizione, istituto umano. In nome di un’uguaglianza dogmatica e astratta, che Tocqueville intuì come esito della modernità già nel secolo XIX, si cancella ogni convivenza umana, ogni comunità in nome dell’utilità individuale soggettivamente determinata.
La studiosa cattolica Cristina Siccardi afferma che il femminismo ha sottratto la donna alla donna. Al di là delle posizioni confessionali, i suoi argomenti sono molto seri: “le femministe hanno creato aspettative nelle donne che vanno contro la natura di se stesse e degli uomini: una continua ed esacerbata competizione di ruoli; la ricerca inappagata di essere libere da ogni dovere di appartenenza ad un legame affettivo stabile; la scelta di decidere in proprio se uccidere o meno il proprio figlio in grembo; la determinazione di ritagliare sempre più ampi spazi per se stesse in uno spasmodico inseguimento della vita sociale sia per quanto riguarda gli impegni lavorativi che quelli ricreativi; il culto per il proprio corpo e spese corrispettive; la scelta di liberarsi senza conseguenze del proprio coniuge o compagno, anche quando sono stati messi al mondo dei figli; fino ad arrivare, avendo eliminato l’identità dell’essere donna e dell’essere uomo, al plauso per le unioni omosessuali. “ E’ evidente che siamo al di là della rivendicazione, superata dal desiderio compulsivo di consumo, comodità di vita, principio di piacere (lustprinzip) esteso all’intera vita. Le donne, in ossequio all’uguaglianza scambiata per parità, hanno raggiunto e superato l’uomo nei suoi vizi e difetti.
Contemporaneamente, il femminismo alleato con il libertarismo progressista agisce sul piano dei divieti giuridici e dell’attivazione di nuove fattispecie di reati che il trionfante diritto positivo inserisce nel corpus giuridico. Pensiamo al femminicidio, un neologismo che ha conquistato il vocabolario delle lingue occidentali. Così scrive il dizionario Devoto-Oli: “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte.” Evidente il rancido linguaggio neo marxista dell’estensore della definizione. Il lemma è entrato nel diritto penale con la legge 119/ 2013, ma, come tutte le infezioni ideologico culturali dell’ultimo mezzo secolo, è di matrice americana. La criminologa Diana E.H. Russell fu autrice insieme con Jill Radford, di Feminicide. The Politics of woman killing, Femminicidio, la politica di uccidere le donne. Un titolo capzioso, folle e ingiusto, che ha inventato un’inedita categoria criminologica di assassinio aggravato dal fatto di essere perpetrato contro una donna in quanto tale, meritevole di essere rubricato in modo distinto e punito in peius rispetto ad altri omicidi in assenza di parallelismo con i “maschicidi”, che pure sono in crescita.
Al di là della sua essenza antiumana e del carattere aspramente rivendicativo, il nuovo femminismo non è che un precipitato, un epifenomeno della costruzione dell’homo (e della foemina, ovviamente) consumens et instabilis, obiettivo finale del neoliberismo. Un esempio è il movimento child-free, formato da donne che consapevolmente si sottraggono alla maternità. Focalizzate sulla carriera, sull’edonismo consumista, sulla cura di sé, autocentrate, esse considerano con orrore la possibilità di avere figli, considerati un impaccio, un impegno insostenibile, soprattutto in quanto relazioni definitive. “Per sempre” desta paura, fuga dalle responsabilità: è la società liquida, tutta intrattenimento, effimero, mordi e fuggi.
Ad uno sguardo complessivo, non si può non vederne nel neo femminismo una natura individualista neo-liberale, declinata nel senso del consumo, dell’assenza di radici, del nomadismo etico, sentimentale, esistenziale, tutto nel nome di un’uguaglianza col paraocchi, frutto dell’innesto progressista sul tronco originario neomarxista. Ne fu consapevole Ivan Illich, l’unico pensatore che abbia osato contestare la grammatica obbligata femminista da posizioni non conservatrici. Scrisse in Genere e sesso: “Il paradigma dell’homo oeconomicus non quadra con ciò che gli uomini e le donne sono in realtà. Essi non sono riducibili a meri esseri umani, a neutri economici di sesso maschile e femminile.”
La flessibilizzazione delle masse perseguita dalle oligarchie neoliberali si accompagna a un processo di femminilizzazione del lavoro. Furono le donne il primo esercito industriale di riserva: nell’era post industriale, tramontato largamente il lavoro fisico, il processo accelera. Per questo, occorre imporre alla donna nuove idee, un senso della vita del tutto distinto dal passato. Stavolta, per davvero, la donna è mobile. Pensiamo al lavoro a tempo parziale, pensato inizialmente per la componente femminile, specie nei servizi e nell’amministrazione, diventato ora un aspetto del generale precariato e della mobilità imposta. Al posto di una vera emancipazione sociale, l’integralismo liberale realizza la femminilizzazione della società attraverso la mobilità precaria, prospettando a tutti la condizione delle lavoratrici del passato: meno garantite, sottopagate, ricattate.
La femminilizzazione, sostenuta dall’apparato sub culturale dominante, non può che sfociare nella svirilizzazione integrale della società, assai gradita alle oligarchie. Il nuovo spirito dei tempi corrisponde sinistramente agli interessi e alle prescrizioni di chi determina la produzione. Così come i peggiori comportamenti maschili sono stati estesi all’universo femminile purché funzionali alla macchina del consumo, le discriminazioni di ieri vengono allargate a tutti.
La virilità è trasformata in disvalore in quanto potenzialmente antagonista e antiadattiva, disponibile all’azione diretta. Sulla spinta dei cascami del 68 e al guinzaglio delle oligarchie fattesi antiborghesi, l’Occidente ha aderito a disvalori come fragilità e debolezza per espellere dal campo autorità e forza. L’intera società è diventata flaccida, ideologicamente avversa al conflitto, incline al cedimento mascherato da un nuovo totem, la tolleranza. Il femminismo del XXI secolo è solo un lato di un prisma più complesso; indispensabile era distruggere la figura del Padre, surrogato terreno di Dio, per aprire le porte a quella che Robert Hughes ha definito la cultura del piagnisteo, rappresentata dal politicamente corretto nonché dal continuo innalzamento dell’asticella dei “diritti”. Si è determinato un matriarcato psicologico (Jean Claude Michéa) caratterizzato dalla demonizzazione instancabile di ogni principio virile, bollato all’istante come sessista, eteropatriarcale, omofobo.
Il faustiano Homunculus post virile, post borghese e post proletario è costituzionalmente incapace di esprimere autorità, autorevolezza, forza oppositiva. Ciò chiarisce alcuni scopi del nuovo femminismo duramente antimaschile: il mondo che ci hanno propinato è permissivo in tutto, fuorché nell’instancabile repressione di ogni tentativo di vero dissenso, dunque devirilizzato, esattamente come le donne sono de- femminilizzate, entrambi atomi unisex. Con un’eterogenesi dei fini davvero singolare, il femminismo diventa una potente sovrastruttura del nuovo capitalismo. Mutata pelle come un serpente, da conservatore, “maschile”, esso si trasforma in flessibile, permissivo, fintamente accogliente, liberal-libertario, femminile, persino gauchiste, a misura di consumatori interscambiabili a partire dal genere.
La lancia femminista è così puntata sugli ultimi residui dei vecchi valori popolari e borghesi, a cominciare dalla famiglia, dalla figura del padre e di quella equilibratrice della madre. Si fa individualista, rivendicativo in senso soggettivo, non più emancipativo. La sconfitta del padre non poteva che essere seguita dalla svalutazione della madre. Le due figure sono complementari e non possono essere scisse. Anche da un punto di vista culturale, simul stabunt, simul cadent. Sono vissute insieme, cadono insieme, come la coppia stabile disponibile all’accoglienza della nuova vita, alla solidarietà, all’educazione. Il ruolo della sessualità diventa centrale. Dopo averla separata dalla procreazione, viene adesso proposta nel modello cangiante, indistinto, omo e bisessuale. Le persone diventano “generi”, l’obiettivo è il piacere soggettivo, indipendente dalla persona altrui, oggetto da usare e ignorare.
Significativo è il successo di espressioni come “fare sesso”, traduzione pedissequa dell’inglese make sex, che richiama l’aspetto materiale, esclusivamente fisico e persino ginnico della sessualità. Nel gioco a somma negativa del rapporto uomo-donna, il femminismo pretende la sua parte attraverso la demonizzazione. Genera, oltre il piagnisteo, una nuova cultura del risentimento, del processo alle intenzioni, dell’ostilità reciproca. Da una parte un uomo svirilizzato, debole e debosciato, dall’altro una donna de femminilizzata: due soggetti alienati da se stessi, lontani dalla natura, impauriti dall’incontro e dal confronto, egoisti, armati di bilancino e calcolatrice per soppesare il dare e l’avere nelle relazioni reciproche.
Questo ha saputo creare la modernità nello stato terminale, in nome non della libertà, ma della liberazione, ossia dello strapparsi di dosso valori, principi, sentimenti, natura. Due figure solitarie, incerte, in lotta perenne, i naufraghi della Zattera della Medusa. L’uomo senza virilità e la donna sua nemica childfree, transumani e transessuali, sono destinati ad annegare nel mare magnum di una libertà priva di scopi. Controparti di un conflitto permanente, non più coniugi, padri, madri, non più figli, dunque non più persone. Schiavi non dell’istinto, ma degli istinti, hanno sconfitto il Superio morale e comunitario per consegnarsi all’Es, il Caos, accattivante travestimento del Consumo, della Libertà, dell’Uguaglianza.
Un uguaglianza, quella rivendicata dal femminismo contro natura (altra cosa è il diritto alle opportunità, naturalmente), che somiglia al discorso del sergente Hartman in Full Metal Jacket: “Qui vige la vera uguaglianza, non conta un c… nessuno!”
Roberto PECCHIOLI