Iniziano le Olimpiadi di Parigi, il grande circo mondiale della società dello spettacolo. Forse non è un caso che sia la Francia, patria di Guy Debord e della modernità iniziata nel 1789, la sede del grande baccanale commerciale e propagandistico, la prima olimpiade dell’era trans. Non soltanto perché la fiamma olimpica, tradizionale simbolo risalente alla Grecia antica, ha per ultimo tedoforo non un grande atleta o una personalità di spicco, ma un transessuale, abbigliato e identificato come una dark queen d’avanspettacolo. Da italiani, dobbiamo ringraziare Virginia Raggi, non rimpianta sindaco ( con la “o” finale!) di Roma, che evitò ai contribuenti italiani la saga famelica dell’assalto alla diligenza e delle ingentissime spese per l’organizzazione olimpica. Il piccolo Napoleone di casa Rothschild, Emmanuel Macron, è l’organizzatore ideale: presidente di una nazione in crisi economica, finanziaria, morale, priva di governo, sfigurata dall’immigrazione, ma sempre convinta di una grandeur smentita dai fatti.
Grottesco il periodo preolimpico , con la pulizia a tempo di record di una Parigi degradata e la finzione della Senna immacolata e balneabile. Dopo settimane di bonifica, la signora Anne Hidalgo , sindaco dell’ ex Ville Lumière, ha fatto un breve bagno nel fiume, prudentemente con tuta da sommozzatore. Pura società dello spettacolo: “tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli”, l’incipit de La società dello spettacolo del marxista situazionista- parigino Doc- Guy Debord. Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale mediato dalle immagini, una visione del mondo che si è oggettivata. Lo spettacolo descritto da Debord è sia il mezzo, sia il fine del modo di produzione vigente, ossia- oggi- del predominio dell’artificiale sul naturale, della finanza sull’economia, della sistema di propaganda/pubblicità sulla verità e la realtà.
Lo spettacolo inteso come inversione del reale diventa la realtà. L’obiettivo olimpico – i Giochi sono lo spettacolo per eccellenza, rafforzato dalle bandiere nazionali, dall’aggiornamento del medagliere come bollettino quotidiano di guerra, dal tifo “nazionale” di anonime folle televisive- è quello di legittimare i rapporti sociali di dominio, presentandosi, senza possibilità di vera contestazione, come intrinsecamente positivo, un benefico oppio dei popoli postmoderno con interruzioni pubblicitarie. La spettacolarizzazione della realtà, sotto il prisma della competizione sportiva, delle medaglie, i rituali di premiazione con tanto di inni nazionali, prende il posto della guerra, o forse la prepara.
Ciò è tanto più vero , nell’occasione, in quanto gli atleti russi sono stati esclusi , poiché chi dirige lo sport mondiale- cioè l’apparato economico e finanziario che presiede alla sua spettacolarizzazione- sta a Occidente. Lo spettacolo crea le nuove realtà e manda al mondo messaggi inequivocabili. Lascia fuori dalla porta chi non fa parte del cerchio dei buoni, come la Russia e i suoi alleati, mentre le cerimonie di apertura e chiusura – inutili caroselli ad uso di platee televisive cretinizzate, servono a aprire nuove finestre di Overton in maniera subliminale, con immagini, situazioni, spettacoli, effetti speciali e psichedelici- tesi cioè all’alterazione della percezione- utili all’indottrinamento del pubblico. Ricordiamo passate rappresentazioni inequivocabilmente sataniche, e altre stranezze per le quali è appropriato un verso del poeta barocco Giovan Battista Marino: è del poeta il fin la meraviglia. E soprattutto del potere.
Le Olimpiadi greche sospendevano le guerre e rappresentavano il momento di unione di tutti i popoli ellenici, l’universo del tempo. Nulla di tutto questo oggi. A Gaza, in Ucraina, nel Mar Rosso, nel sud del Libano proseguono i conflitti armati. Quelli tecnologici si presentano sotto forma dell’ improbabile, recente “baco” del sistema di comunicazione elettronica. Nessun greco avrebbe tollerato la presenza di atleti professionisti e lo stesso fondatore delle Olimpiadi moderne- un aristocratico francese della Belle Epoque, il barone De Coubertin- volle competizioni aperte solo a dilettanti. Il professionismo sportivo è oggi dilagante e padrona della società dello spettacolo agonistico è una sorta di joint venture tra i giganti dell’abbigliamento e delle attrezzature per lo sport, le reti televisive e l’apparato pubblicitario globale. La competizione non è che un corollario della rappresentazione e il suo esito largamente predeterminato. Non è vi estranea l’industria chimico farmaceutica, che usa gli atleti come cavie e rende truccata la gara.
La torcia accesa con la fiamma olimpica , simbolo dell’universalità, è trasportata nella sede dei giochi da una lunga staffetta di atleti e di personalità simboliche, l’ultima delle quali accenderà il braciere nello stadio gremito di folla e di personalità. Per questo non è senza significato chi la porta e la accende, nello specifico il trans francese. Grande importanza riveste la sfilata iniziale, in cui le varie delegazioni nazionali, precedute dalla bandiera, si mostrano al pubblico ciascuna con una sorta di uniforme attinente, nelle intenzioni, al carattere nazionale. Quest’anno avremo uno stridente cambiamento, in linea con il trans mondo in marcia. In attesa di una categoria di competizione “non binaria” o queer, cara al cardinal Zuppi, nella delegazione di casa sfilerà un atleta maschio in abiti femminili, in omaggio alla sua – vera o presunta- autopercezione sessuale: eroe e testimone del nuovo che incede. Si tratta di un ventenne che rappresenta assai bene il crollo occidentale: vestito da donna, probabilmente omosex, di origini extraeuropee, emblema dei “nuovi francesi” e dell’esportazione dei nuovi valori imposti dall’oligarchia. Il trans e l’omo invadono il perimetro dello sport contro lo spirito originario dell’Ellade, in cui si perseguiva e si rappresentava l’unità (spirituale, etica e culturale) della patria comune. Ecco il messaggio inviato al mondo, innanzitutto occidentale: altre finestre di Overton da spalancare, ulteriori confini da varcare.
Gli atleti cercheranno di portare a casa le medaglie che significano ricchezza, contratti pubblicitari, la vita che cambia. Nelle Olimpiadi trans prive della Russia- tradizionalmente tra le dominatrici del medagliere- ci piace ricordare, oltre il baccano assordante dell’orgia televisiva, al di là di vittorie e sconfitte, lontani dal tifo patriottardo, simulacro, ultima finzione di un’appartenenza perduta, un assente. Parliamo di Alex Schwazer, il marciatore sudtirolese campione olimpico a Pechino nel 2008, oggi trentottenne. Campione purissimo, cadde nella tentazione del doping. Scoperto, pagò il conto perdendo tutto, onore, lavoro, denaro, avvenire.
Si rialzò e stava rientrando alla grande quando gli tesero una trappola, probabilmente una vendetta rivolta al suo allenatore Donati, emblema della lotta al doping sportivo. Sostituirono la provetta dei suoi esami: il tribunale lo ha stabilito dopo anni. Intanto Alex tornò il reietto, l’esempio negativo scelto da un mondo corrottissimo per rifarsi una verginità. Il sistema sportivo di cui il movimento olimpico è il vertice, trovò un facile capro espiatorio. Non ricco, non sostenuto da alcuno, un ragazzo di montagna campione di una disciplina marginale, illuso e poi gettato in pasto al più falso moralismo. Teoricamente, Alex avrebbe potuto chiedere di partecipare alle Olimpiadi parigine. Un piccolo risarcimento per chi si è tenacemente allenato tra i monti: non lo ha fatto, non si è sottomesso al sistema e per questo è il campione di chi scrive. Un giovane uomo che è caduto, si è rimesso in piedi ed è stato ricacciato nel fango da un complotto.
Non è trans, non si veste da donna, ha moglie e figli, vive non a Montecarlo o in un paradiso fiscale ( le finte residenze di tanti idoli sportivi) ma tra le montagne della nativa val Ridanna, guadagnandosi la vita, operaio, cameriere, impiegato. Un esempio, un modello di risalita. Dignità, tempra morale: nel mondo normale una medaglia d’oro. Un emarginato, nel trans mondo del circo Barnum olimpico.