di Roberto PECCHIOLI
L’ecologismo radicale è tra i cespugli più insidiosi dell’albero ideologico progressista. Parte di esso è promosso e finanziato dalle centrali oligarchiche e dalle fondazioni dei miliardari sedicenti filantropi, il che la dice lunga sui suoi veri fini. Un ben oliato meccanismo diffonde mezze verità e alimenta paure irrazionali- assai diffuse tra i giovani, la generazione-Greta, sino a conseguenze patologiche- al fine di realizzare con il consenso e la spinta dell’opinione pubblica enormi piani di ristrutturazione dei modelli di sfruttamento del pianeta, ponendo il costo a carico delle masse plaudenti.
Nel frattempo, la natura fa il suo corso e – ostinata- non segue i dogmi ideologici ambientalisti, in particolare quelli relativi al riscaldamento globale. L’Antartide ha aumentato la sua gelida superficie ghiacciata rispetto all’ultima misurazione; dopo un’estate assai calda, nel nord Europa le nevicate sono arrivate in anticipo e con singolare abbondanza. L’altro dogma – una sorta di Corano laico- riguarda la responsabilità del riscaldamento globale attribuita senz’altro all’ anidride carbonica rilasciata dalle attività umane. In termini raffinati, l’origine antropica dei cambiamenti climatici.
L’Homo sapiens spinge la sua tracotanza sino a credersi autore di tutto, anche dei fenomeni di lungo periodo della biosfera, che non si possono valutare con il metro della nostra breve esistenza e dei modelli economico-sociali. L’ecologismo radicale è professato soprattutto da persone che giudicano la realtà con la lente deformante dell’informazione di sistema, ignorando che essa è di proprietà degli stessi soggetti che promuovono le campagne “climatiche”. Inconsapevolmente si trasformano in nemici della verità in nome dell’ideologia, finendo per diventare avversari della civiltà in cui vivono.
Il cambiamento climatico esiste da almeno un miliardo di anni, in cui si sono alternati periodi di glaciazioni e altri di riscaldamento. Attorno alla fine del XVII secolo della nostra era – un soffio rispetto ai miliardi di anni del pianeta- è iniziata la Piccola Era Glaciale. Gli annali ricordano la glaciazione del Mar Baltico, la fine di coltivazioni come la vite e l’ulivo in molte aree. La piccola glaciazione si protrasse per due secoli, dopodiché il clima si è nuovamente riscaldato, o reso più mite. La causa fu di origine astronomica, una diminuzione dell’attività solare tra la metà del XVII e l’inizio del XVIII conosciuta come “minimo di Maunder”. Secondo molti, i due secoli della Piccola Era Glaciale furono i più freddi degli ultimi diecimila, corrispondenti, più o meno, all’uscita dell’homo sapiens dalla preistoria e all’ingresso in quella che chiamiamo storia.
Di che parlano dunque, gli ecologisti radicali e i loro interessati suggeritori? Ciò non toglie, ovviamente, che un certo riscaldamento si stia verificando e che le emissioni di CO2 siano in aumento. Molti scienziati non asserviti al potere sostengono che l’aumento dell’effetto serra è dovuto per l’ottanta per cento all’acqua. Solo il restante venti per cento riguarderebbe il CO2 e questa percentuale sarebbe solo in parte riconducibile all’attività umana. Il dogma è tuttavia la responsabilità umana sia per il riscaldamento sia per l’effetto serra determinato dall’anidride carbonica. Per quanto poco esperti, ci sentiamo quindi di non prestare fede (fede è l’unico termine che si addice alle credenze dell’ecologismo radicale) alla dogmatica green.
Un importante articolo della filosofa Bérénice Levet apparso sul quotidiano tedesco Die Welt accusa l’attivismo ambientalista di basarsi su utopie e di agire come oppositore rivoluzionario della civiltà europea: un’impostazione ideologica in contrasto con l’idea tradizionale di protezione dell’ambiente che persegue “stabilità, durata e continuità”.
Un’ecologia coerente e consistente preserva la natura senza sacrificare le persone e soprattutto, afferma la Levet, preserva la cultura. L’ idea è suggestiva e l’accusa all’ecologismo radicale pesante. La tesi è che gli attivisti ambientalisti utopici agiscono nel contesto di un più ampio movimento di sinistra radicale, condividendone la posizione rivoluzionaria e la volontà di “decostruzione” della civiltà. Per loro la tutela dell’ambiente è solo un alibi, un pretesto per distruggere la cultura europea. Sono caratterizzati da un disgusto per lo stile di vita europeo e rifiutano la civiltà che lo ha prodotto, “in cui vedono solo dominio e super sfruttamento” e una “grande impresa per la produzione di vittime”. Inoltre, “si prendono gioco della lealtà e della solidarietà delle persone con i loro costumi, tradizioni e paesaggi”.
Il risultato è un nichilismo sfociato in diversi casi di danneggiamento di opere d’arte da parte di attivisti ambientali. Uno dei movimenti più attivi è Extinction Rebellion, che si presenta però come non violento. Non si può pretendere di aver cura della natura e contemporaneamente calpestare il legato dei secoli, continua la filosofa, che osserva come attraverso tali condotte gli attivisti enfatizzino il loro rifiuto di responsabilità per la civiltà storicamente costituita. Sono dunque fiancheggiatori e talora ultrà della dilagante cultura della cancellazione. Condividono inoltre con la sinistra più radicale la volontà di farsi banditori di una nuova umanità, da creare attraverso “le più forti misure di coercizione”. Le vicende degli ultimi anni, con la libertà conculcata, modi e abitudini di vita terremotati dalla crisi pandemica ed energetica e dalla progressiva imposizione di abitudini alimentari estranee alla specie (alimentazione umana a base di insetti) danno ragione alla Levet. Soprattutto, allarma la concezione della persona, “puro materiale umano plasmato dall’ideologia.” L’umanità a cui aspirano “non è vincolata a ad alcuna comunità storicamente costituita” ed è modellata/manipolata attraverso un sistema educativo completamente ridisegnato, che prescinde dalla trasmissione della conoscenza, del passato comune e delle grandi opere dello spirito. Al posto della “vecchia” cultura la scuola tende a formare generazioni di attivisti che si oppongono alla civiltà europea in quanto “oppressiva con le donne, le minoranze sessuali ed etniche”.
Tutti i salmi progressisti finiscono in gloria, qualunque sia il movente iniziale sottostante. L’ambientalismo radicale risulta un epifenomeno dell’articolato movimento di distruzione della civiltà europea dall’interno. Il modus operandi è lo stesso degli altri filoni “woke”: la volontà tenace di cancellare – insieme con le visioni cui si oppongono- anche chi le sostiene, escludendoli dal dibattito come indegni e malvagi. In effetti, le opinioni- e le persone fisiche – di migliaia di scienziati oppositori dell’ideologia del cambio climatico con ragioni e competenze di grande spessore, vengono schernite, sottoposte ad attacchi mediatici, escluse dagli spazi pubblici, espulse dal contraddittorio. Oltreché private delle cattedre e allontanate dai circuiti di potere e guadagno. Il radicalismo green, con l’intimidazione, ma anche il silenzio, il conformismo e la mancanza di coraggio degli avversari, rende assordanti e univoche le sue grida, come se non esistesse nella società nessun’altra visione. Le sue richieste “ideologiche e moralizzanti” (entro una moralità capovolta) “impediscono ai politici da prendere decisioni razionali, ad esempio sul tema dell’energia nucleare.” Questo punto è assai controverso, ma le negazioni di principio impediscono che la discussione avvenga su basi razionalmente fondate. Fu lo storico e filosofo francese Bertrand de Jouvenel, alla fine del secolo passato, a porre la questione nei termini corretti: l’uomo occidentale ha stretto un patto millenario con la terra, che deve essere rinnovato in base alle esigenze di un tempo del tutto diverso dai precedenti. La cornice, per Jouvenel, deve essere “la chiara coscienza della fragilità, vulnerabilità e bellezza che ci è stata affidata”. Bérénice Levet ha elaborato la sua critica all’attivismo ambientalista utopico in un’opera pubblicata nell’anno corrente, L’ecologie ou l’ivresse de la table rase (L’ecologia o l’ebbrezza della tabula rasa), una forte denuncia del “totalitarismo verde” e insieme l’appello per un’ecologia “dei sensi e della gratitudine”.
L’ecologia ha conquistato gli spiriti degli occidentali. Tuttavia, per come si incarna oggi nei Verdi, in certi esponenti di estrema sinistra e soprattutto nei movimenti militanti (animalisti, antispecisti, vegani, “zadisti”) è impegnato in una vasta, furiosa e fatale impresa di decostruzione delle nostre società. Il termine zadisti nasce dall’acronimo francese ZAD (zone à defendre) e indica gli attivisti ambientalisti che occupano luoghi o proprietà altrui e le utilizzano per svilupparvi progetti politici o sociali. La nuova ecologia radicale peraltro, è altra cosa rispetto all’ ecologia profonda teorizzata dal norvegese Arne Naess, che si basa su un sistema di valori ecocentrico, poco compatibile con i movimenti ecologisti “politici”. Nell’analisi della Levet, l’ambientalismo reale- ancorato a suggestioni e convinzioni comuni all’intera sinistra radicale e alla cultura nichilista dei “risvegliati” (woke) – è più interessata a modificare comportamenti e mentalità, convertire anime e rimodellare la nostra immaginazione e i nostri sogni che a preservare ciò che deve essere preservato dell’ambiente di cui siamo utenti e custodi. Fuoriuscire dalle nostre civiltà sarebbe, per le anime belle verdi, la via della salvezza. Da qui la porosità ideologica e le alleanze con il femminismo dell’intersezionalità, con settori dell’Islam politico, e con l’intero caravanserraglio di una sinistra orfana, in cerca d’autore da trent’anni. Un altro millenarismo utopico che trascina all’ebbrezza della tabula rasa e della rigenerazione dell’umanità, una tentazione ricorrente in tempi di incertezza e di eclissi dei principi.
Bérénice Levet analizza e denuncia questo grande regolamento di conti e propone un approccio ambientalista diverso, un’ecologia dei sensi fondata sulle persone, le loro esperienze, i loro radicamenti identitari, le loro lealtà, il loro bisogno di continuità e stabilità, disposizioni dell’anima derise dagli ecologisti ufficiali. Un libro prezioso soprattutto perché provvede a smentire un luogo comune difficile da sradicare, il disinteresse del pensiero conservatore per le tematiche ambientali. Facile ricordare l’impegno della Nouvelle Droite, di Alain De Benoist e, in Italia, la pubblicistica legata ai G.R.E. (Gruppi di Ricerca Ecologica), ma il problema è sfondare il muro di un establishment ambientalista ufficiale schierato altrove che chiude inesorabilmente gli spazi. Ma dobbiamo anche rilevare l’indifferenza e il fastidio rispetto ai temi ambientali dei terminali politici della destra ufficiale. Appiattiti sullo “sviluppismo” a ogni costo, sulla crescita illimitata, concentrati ciecamente sulla curva del PIL, negano o minimizzano la portata di scelte devastanti per il pianeta. Anche su questo versante, gratti il conservatore e trovi il liberale.
Pure, le questioni di ecologia e sostenibilità sono di fondamentale importanza per l’esistenza di una comunità. Utilizzando l’esempio di diverse civilizzazioni estinte, il geografo Jared Diamond ha mostrato che lo sfruttamento eccessivo delle risorse o un rapido cambiamento delle condizioni ambientali, è stato un fattore decisivo del loro collasso. Queste problematiche giocano un ruolo crescente nel dibattito pubblico. Ciò genera la consapevolezza che queste società vivono sempre più nella dissipazione, consumando risorse che non possono mantenere e rinnovare a sufficienza.
La visione del mondo tradizionale europea vede le persone come portatrici di un’eredità da trasmettere intatta alle generazioni future, principio che si adatta perfettamente a un corretto rapporto tra l’uomo e il suo habitat naturale. Considera inoltre le persone custodi dei fondamenti naturali e culturali della vita comunitaria. E’ una visione del mondo basata su una comprensione olistica dell’ecologia, orientata alla protezione di tutti i fondamenti della vita, individuali e comunitari, compresi i pilastri spirituali e culturali.
Dal punto di vista della dottrina sociale cristiana, papa Benedetto XVI accolse con favore il dibattito sull’ecologia poiché la ricerca della sostenibilità, della persistenza della comunità e l’attenta gestione dei beni materiali, intellettuali e culturali, è una parte fondamentale dell’impegno per il bene comune, asse centrale dell’azione politica.
Purtroppo mancano validi interpreti della declinazione umanistica e conservatrice del pensiero ecologico, nato originariamente in Germania in quella tradizione, come dimostrano i fratelli Juenger e altri esponenti della Rivoluzione Conservatrice. Il grande intellettuale britannico Roger Scruton trovava addirittura scioccante che il mondo conservatore non avesse “ riconosciuto come propria la causa della protezione dell’ambiente, avvelenato dall’ascesa del pensiero economico nei politici moderni, interessati a formare alleanze con chi ritiene inutili e superati gli sforzi per preservare l’ambiente”.
Uno storico errore, un fatale fraintendimento che lascia al materialismo, ai detriti postmarxisti e a un’anticultura nemica della creatura umana, uno dei temi decisivi della contemporaneità.