COMUNICATO di Justitia in Veritate
Milano, 10 maggio 2022
Ormai il progetto di legge sull’eutanasia è vicino all’approvazione, con consenso probabilmente larghissimo.
È un fatto che viene presentato dai suoi sostenitori con il solito mantra del progresso e dell’allineamento con paesi più culturalmente avanzati del nostro. Ciò dà per risolti una volta per sempre una quantità di interrogativi capitali sulla condizione umana e sul senso della vita associata e del diritto, ricattando psicologicamente ed intellettualmente chi quegli interrogativi non sia disposto ad archiviarli ed anzi comprende l’impossibilità di ignorarli.
Tale spostamento e definizione, diremo perimetrazione del campo della discussione, viene quindi dissimulato dietro un registro linguistico in cui la solenne declamazione di principi di difesa e di attenzione affettuosa dello stato verso il cittadino, deforma e distorce la verità delle cose.
Così si sposta indefinitamente la possibilità di cogliere la posta in gioco e, quindi, anche di instaurare in proposito un serio ed approfondito, sia pur aspro, confronto.
Le tecniche di persuasione possono così avere campo libero, un campo i cui vertici potrebbero essere identificati come la lusinga, la seduzione, il ricatto e la minaccia.
Non è qui il caso di richiamare il fatto che l’area della propaganda, che così si delinea, coincide con quella dell’esercizio del nudo potere, con tutto ciò che questo si trascina dietro.
Questa propaganda, però, non sarebbe tanto efficace, se non trovasse una platea già stordita dalle promesse di una vita senza sofferenza, che lo Stato promette di assicurare con il suo apparato legale ed amministrativo.
Come si sia arrivati a ciò è storia lunga, che non si può qui ripercorrere, ma il risultato è un essere umano ridotto alle sue pulsioni, che si affermano come misura della sua autonomia e libertà, riscrivendo ab imis i principi della civiltà giuridica.
La nemesi è che un tale essere umano che si autoidentifica come cittadino prima che come essere umano, è un minore perenne consegnato per intero alle provvidenze di “mamma” Stato e la prima cosa che chiede non è la tutela del suo diritto originario di poter affrontare in matura e coraggiosa libertà tutte le evenienze della sua vita, ma di essere sgravato da ogni difficoltà.
Il prezzo che lo Stato chiede è la totale sottomissione ed il cittadino in irrescattabile condizione di minorità non chiede altro, a questo punto, che desiderarla con tutte le sue forze.
La sofferenza è il punto cruciale di questa degradazione dello humanum e delle istituzioni giuridico-politiche, in quanto è inaggirabile sfida a fare i conti con la realtà ed a crescere nella propria statura di esseri liberi e responsabili, di esseri che in maniera incomprimibile si interrogano e cercano il senso della loro vita.
La società ipnotizzata e anestetizzata richiesta dal rifiuto di affrontare la sofferenza, è ormai in avanzata fase di realizzazione.
La depenalizzazione delle pratiche di aiuto al suicidio, che in realtà si traducono in un omicidio autorizzato e tutelato dallo Stato, è un passo di tale “progresso” verso il nulla.
È questo il terreno culturale e spirituale su cui cresce, fino rivendicare qualificazione e tutela giuridica, la pretesa di essere aiutati a morire e la facoltà di aiutare a morire e qui sta la posta in gioco con questo disegno di legge.
In continuità con la questione di fondo del modo di comprendere e vivere la sofferenza e la morte, la legittimazione e facilitazione giuridica della morte volontaria pone l’interrogativo se si possa immaginare un nesso positivo tra diritto e morte.
Il diritto non può non occuparsi della morte, perché fa parte della vita, ma il problema è in quali limiti ed in che modo se ne possa e debba occupare. Il diritto penale, il diritto civile, il diritto amministrativo si occupano della morte, di disciplinarne le conseguenze e di prevenirla punendo chi la causi ingiustamente.
Può però, il diritto fare proprio l’atto diretto di infliggere la morte?
Ora, la relazione tra diritto e morte è, ictu oculi, di opposizione, in quanto il diritto è innanzitutto una forma di vita, che prende consistenza in relazioni proporzionate ed equilibrate tra gli individui e tra questi ed il contesto ordinamentale in cui si trovano.
L’apparato legale ed amministrativo è subordinato e strumentale a tale finalità primaria e definitoria del diritto, per cui non può contraddirla né sostituirsi ad essa.
Ciò impone a chi ha la responsabilità di custodire ed amministrare il diritto, di intervenire nel modo più energico e misurato per impedire che tale prenda corpo ciò che ne nega l’essenza, pena una contraddizione che conduce all’autoannientamento.
In altri termini, l’inerzia di chi ha le leve della cura, mediante il diritto, del bene comune, ossia dell’ordine che consente ad una società di vivere, significa l’autonegazione del diritto e la dissoluzione della convivenza civile, lo sgretolamento della società.
L’omicidio, l’atto che causa intenzionalmente la morte altrui, frattura e distrugge l’ordine primordiale che rende possibile la società e sconvolge il senso della convivenza umana.
Si potrebbe aggiungere che, se il diritto è nella sua essenza proportio, è del tutto escluso che possa ammettere, sotto qualsiasi forma e qualificazione, l’atto di causare la morte di chi quella proportio non abbia in nessun modo infranto.
La morte, infatti, è la nientificazione di uno dei termini della proportio, il che significa o che uno dei due rapporti che costituiscono la proportio va a zero oppure a infinito, squilibrando insanabilmente la proporzione.
Nel caso della morte naturale si apre il campo delle domande ultime e decisive sulla condizione umana e al diritto, che non può certo varcare i confini della morte, rimane la regolamentazione delle sue conseguenze materiali, patrimoniali ed amministrative.
Nel caso della morte intenzionalmente ed ingiustamente inflitta, il campo del diritto viene fratturato e se la frattura non viene ricomposta indirettamente o su di un altro piano, quel campo si inclina verso la sua dissoluzione.
Perché avviene ciò? Perché qualcuno si è eretto a signore della vita altrui e ha così infranto ogni proporzione, qualcuno si è eretto a dominus del diritto e della vita associata.
Senza entrare nella dimensione religiosa del discorso, ciò significa consegnare il campo della vita e della convivenza alla legge del più forte e allo strapotere della tecnica, non importa se questa sia una tecnica sanitaria e palliativa, non importa se l’infantilismo del cittadino desidera tale forma di benevolenza e si sottomette volentieri alle sue pratiche filantropiche.
Fondere la giustizia nel crogiuolo del potere significa introdurre una contraddizione insanabile e distruttiva; questa ha una potenza di dissoluzione inarrestabile.
Nulla possono le “buone” intenzioni, vere o immaginarie che siano, nulla può la volontà, sia individuale che collettiva. In questa linea, non appare casuale che il disegno di legge sull’aiuto al suicidio, in realtà sulla depenalizzazione dell’omicidio del consenziente, stia maturando in tempi di violenza e di isteria sanitaria, in cui moltissimi sembrano non desiderare altro che il conformarsi alle disposizioni governative.
Qualche nota tecnica sul disegno di legge: il testo unificato delle varie commissioni parlamentari che se ne sono occupate e che verrà sottoposto all’Aula, recita: “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”.
Risaltano all’aggettivazione della morte, prima come volontaria e quindi come medicalmente assistita. La morte può essere un atto volontario?
Gli infiniti omicidi e la stessa pratica del suicidio sembrano mettere in ridicolo la domanda.
A guardare meglio, però, si nota che la volontà umana può adottare dei mezzi per facilitare o causare la morte, ma la morte rimane un evento fuori dalla sua portata. Così come, all’estremo opposto, l’uomo può manipolare indefinitamente l’inizio della vita, ma non la può in nessun modo creare ex nihilo.
La morte non può essere direttamente voluta, ossia specificare l’atto di volontà che la intende, in quanto non si può volere il nulla.
Se si ammette una vita oltre la soglia della morte, tutto ciò che oltre quella soglia ci sfugge.
In questo senso la morte rimane un mistero inviolabile e non è certo il diritto a poterne sciogliere i nodi: l’ordinamento che pretende di farlo semplicemente deraglia dal suo senso, dai suoi fini, abusa dei suoi stessi mezzi.
Non a caso il disegno di legge aggiunge subito l’assistenza medica.
Così facendo la morte viene subordinata ad un intervento tecnico, qualificato verbalmente come “assistenza”.
Si noti che, in tal modo, si segna anche la fine della medicina, in quanto quella “assistenza” non è certo il frutto di una valutazione clinica e di un conseguente atto terapeutico, ma registra la volontà del malato e la attua con una qualche tecnica di rottura dell’integrità biologica, sia pur ormai profondamente minata dalla malattia, del “paziente”.
È un intervento che interrompe il funzionamento di organi o lo svolgimento di processi vitali. Ancora una volta, trionfa il nulla, ma il nulla rimane nulla.
Insomma qualificare la morte volontaria medicalmente assistita come decesso cagionato da un atto autonomo, sembra una forzatura inaccettabile dei concetti e della realtà delle cose.
Di conseguenza, il nulla partorisce la menzogna.
Aggiungere che, così, si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole, fa dipendere la qualità umana e morale dei momenti ultimi della vita da un intervento anestetico, ossia dalla cancellazione dei presupposti stessi della consapevolezza.
La dignità, termine peraltro ambiguo e indeterminato, viene appesa alla tecnica, alla tecnica della morte che un qualsiasi assassino “compassionevole” sa usare.
Direi che l’atto eutanasico segna anche l’autoestinzione della medicina come arte che il compito divino di alleviare la sofferenza.
Il richiamo alla qualità della vita non fa, oltre alla sua indeterminatezza, che dilatare lo sfalsamento dei piani per cui si fa coincidere un qualcosa che è in sé un tutto, come la vita di un essere vivente, con la eventuale somma dei suoi attributi.
È chiaro che, in tal modo, viene negato funditus il diritto di vivere, che residua solo come il risultato di una sorta di accreditamento sociale, culturale e psicologico; insomma, una vita a punti.
Non solo quanto c’è di più sacro, dal punto di vista dell’esistenza nel tempo, viene messo nelle fredde mani della burocrazia statale o in genere sanitaria, le mani quelle di un contabile per cui tutto è misurabile.
Il riferimento, enfatico, all’adeguato sostegno sanitario, psicologico e socio-assistenziale alla persona malata e alla famiglia, sembrano a questo punto solo delle maschere dell’espropriazione totale, a carico dell’uomo che soffre e lotta di fronte al muro ultimo della sua vita ed a carico dei suoi cari, di tutto ciò che, alla vita stessa, dà un senso ed un valore inestimabile.
Gli interrogativi sollevati dalla legalizzazione dell’omicidio del consenziente sarebbero ancora tanti; basterebbe, però, prendere sul serio quelli esposti per capire come così non solo non si rende più umano il momento del trapasso, ma ci si muove velocemente verso l’eutanasia di una intera civiltà.