(Andrea Cavalleri)
Parafrasando la storica frase di Mario Monti, che parlò del “grande successo dell’euro” riferendosi alla situazione della Grecia, vorrei illustrare e paragonare due “grandi successi” delle teorie economiche liberista e marxista.
La carestia irlandese di metà ottocento e quella russo-ucraina degli anni ’30 del novecento rappresentano due perfette realizzazioni delle rispettive dottrine economiche e di pensiero, e mostrano parallelismi talmente stretti da indurre a una successiva riflessione che renda ragione di una tale analogia.
Comincerò dunque col rammentare alcuni capisaldi delle due ideologie.
Le idee basilari.
Il liberismo è una teoria economica avviata da Adam Smith (1723-1790) e che, alla vigilia della carestia irlandese aveva conosciuto significativi sviluppi a opera di David Ricardo (1772-1823) e di
Thomas Robert Malthus (1766-1834).
L’idea di partenza è che, nelle cose economiche, l’egoismo sia un movente perfettamente sano, purché incanalato dalla concorrenza, che costringe l’avidità dei singoli a produrre risultati di utilità generale, sebbene tesa a perseguire il proprio tornaconto. Si tratta della caratteristica del mercato di autoequilibrarsi (la “mano invisibile” del mercato, la chiamano i liberisti).
Pertanto l’economia non deve essere programmata o indirizzata, ma, poste alcune semplici regole iniziali, deve essere lasciata il più possibile alla libera iniziativa delle persone.
Malthus aveva osservato che la popolazione tende a crescere in progressione geometrica, quindi più velocemente della disponibilità di alimenti, che potrebbe crescere solo in progressione aritmetica. L’unico rimedio per prevenire l’esaurimento delle risorse sarebbe la limitazione delle nascite.
Malthus introduce il concetto di salario di sussistenza, cioè il livello del salario necessario per soddisfare i bisogni primari. Poiché con un reddito inferiore al salario di sussistenza non ci si sposa, né si fanno figli, Malthus prevede un controllo demografico legato al censo.
Inoltre teorizza l’invarianza autolimitante di questo “salario naturale”, in quanto con più reddito le famiglie farebbero più figli, creando una maggior offerta di manodopera e quindi un calo dei salari, che porterebbe a procreare di meno, ristabilendo così la situazione di equilibrio.
Ricardo, che era amico di Malthus, riprende la sua idea di salario al minimo di sussistenza, come uno dei due fattori che determinano il saggio del profitto, essendo l’altro la produttività.
Per lui il profitto è il motore dell’economia e, ovviamente, contadini ed operai ne sono esclusi, acquisendo il diritto di esistere semmai come strumenti per quel nobile fine.
Successivamente Ricardo riformulò la sua teoria, generalizzandola secondo il concetto di valore delle merci, inteso come quantità di lavoro occorso a produrle, e che ne determina i rapporti di scambio. Le conclusioni restarono però invariate sui principi testé esposti.
E non può sorprendere che Ricardo considerasse l’economia come un’attività riservata ai capitalisti, in quanto si limitava a osservarla dal suo punto di vista, di ex agente di cambio, divenuto straricco speculando sui titoli emessi per finanziare le guerre napoleoniche.
E, seppure in quantità ben più modesta, anche Smith e Malthus godettero di una rendita.
Pertanto si può legittimamente definire il liberismo come la percezione dell’economia dal punto di vista del capitalista, nonché la giustificazione dei suoi privilegi.
Carl Marx (1818-1883) prende le mosse dalla teoria del valore/lavoro di Ricardo, introducendo delle nuove considerazioni. Il profitto è dato dalla differenza tra il denaro iniziale impiegato dal capitalista e il denaro finale ottenuto vendendo le merci prodotte col denaro iniziale.
Poiché, secondo Marx, il mercato non genera profitto in quanto tutte le merci sono scambiate alla pari (?? mai visti rialzi, ribassi e persino vendite sotto costo?) questo profitto, chiamato plusvalore, sarebbe generato dalla sfera della produzione, in cui i mezzi di produzione cedono il loro valore alle merci. Ma nell’economia capitalistica anche la forza-lavoro è un mezzo produttivo, che viene acquistata dal capitalista, ovviamente a un prezzo inferiore al suo valore, in un regime di sfruttamento.
Per sanare questo peccato originale del capitalismo, che genera un’ingiustizia endemica, Marx propone l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione.
Il marxismo però non si limita a consigliare un sistema economico, ma traccia la via politica per conseguirlo, legando inscindibilmente i due procedimenti.
Secondo Marx, l’antico regime feudale può essere disgregato e superato solo con l’avvento della borghesia capitalistica. Una volta che questa si è affermata, “per necessità storica” subentra la rivoluzione che porta alla dittatura del proletariato. Grazie a questa fase, l’umanità potrà poi raggiungere il radioso sol dell’avvenire in una società fraterna, pacificata dall’abolizione della proprietà privata.
Marx in tutta la sua vita si adoperò sempre a favore della borghesia capitalistica contro l’antico regime feudale, del resto il suo amico fraterno e finanziatore, Engels, era un supercapitalista, straricco speculatore alla borsa di Londra (tanto per cambiare!).
Per quanto riguarda il proletariato, non mosse mai un dito, ma si limitò a osservarlo da lontano, in nome di una cieca fede nella “necessità storica”, che avrebbe prodotto la rivoluzione e bla bla bla.
I fatti.
L’Irlanda all’inizio del 1800 era divenuta una colonia britannica a tutti gli effetti. Gli accordi del “act of union” (1801) prevedevano una rappresentanza irlandese al parlamento del Regno Unito, ma la corona britannica li violò immediatamente, ponendo un veto all’elezione di candidati irlandesi e trasformando così gli abitanti dell’isola celtica in sudditi di categoria inferiore.
Tra le clausole doganali si riscontrava l’abolizione di dazi inglesi su merci provenienti dall’Irlanda e non viceversa, cosa che favoriva l’importazione in Inghilterra di generi alimentari, soprattutto grano, in quanto soggetto a un regime protezionistico e quindi fonte di lauti guadagni.
Tuttavia la situazione dell’agricoltura irlandese era particolare: la maggioranza delle terre coltivabili era proprietà di latifondisti inglesi, che, senza spostarsi dalla madrepatria, li affittavano a dei gestori locali, i quali a loro volta li subaffittavano ai contadini.
L’Irlanda, grazie a un tasso di crescita demografica abbastanza alto, forniva un’abbondante offerta di forza-lavoro e i possidenti sfruttavano senza scrupoli lo squilibrio favorevole alla domanda, imponendo ai lavoranti condizioni miserabili.
In pratica i contadini consegnavano tutto il raccolto in cambio del diritto di consumare le sole patate da essi stessi coltivate e di scaldarsi con la torba che essi stessi raccoglievano: una applicazione alla lettera del salario al minimo di sussistenza!
Oltre tutto, la drammaticità della loro situazione veniva acuita da provvedimenti quali la tassa inglese sulle finestre delle case, che li spingeva a rinchiudersi in tuguri privi di aperture.
In ogni caso tra il 1842 e il 1849 circa 60.000 contadini furono sfrattati con la forza perché impossibilitati a pagare l’affitto, ma quello fu ancora il minore dei mali.
Nell’estate del 1845 si diffuse un’epidemia di peronospera che fece marcire le coltivazioni di patate, ma i proprietari terrieri pretesero comunque la consegna di tutti gli altri raccolti, a cominciare dal grano, come da contratto.
Ai contadini e alle loro famiglie non restava che morire di fame, e così fecero.
Nel 1846 cominciarono i decessi per denutrizione nelle fasce più deboli della popolazione (bambini e anziani), poi, tra l’inverno del 46 e la primavera del 47, la mortalità raggiunse il culmine (mezzo milione di morti solo in quei pochi mesi), sempre a causa della fame degli stenti e delle malattie ad essi collegati.
La situazione rimase critica per altri tre anni, durante i quali molti Irlandesi poveri tentarono di sfuggire alla loro dura sorte scappando dall’isola, ma senza molta fortuna: si pensi che i vascelli con cui si davano all’emigrazione venivano chiamate “navi bara” per via dello spaventoso tasso di mortalità che si verificava durante il viaggio, a causa delle malattie che insorgevano per le pessime condizioni igieniche in cui i poveretti erano costretti e che davano il colpo di grazia al loro fisico già debilitato dalla malnutrizione.
Al parlamento londinese la questione venne discussa e fu presa la decisione inflessibile di mantenere intatto il programma economico liberista che, secondo i politici e gli economisti dell’epoca, era il migliore possibile. Nessun aiuto fu offerto dal governo ai disgraziati che morivano di fame e semmai fu adottato qualche provvedimento che ne esacerbò la sorte.
Il governo si rifiutò di verificare la validità del suo programma con la conta dei morti, con la scusa che fosse impossibile distinguere le morti per fame da quelle naturali: come disse il primo ministro lord John Russell “la polizia avrebbe compreso nel computo dei morti per fame anche chi veniva trovato senza vita in un campo”.
E la politica economica era quella di promuovere i buoni affari, come le esportazioni, cosicché, nell’anno più nero della carestia, il 1847, oltre 4.000 carichi navali trasportarono grano, cereali, carne, e uova dall’Irlanda affamata alla ricca Inghilterra. Del resto questo flusso non fu mai interrotto e, anzi, l’eliminazione dei contadini poveri permise di organizzare in modo ancora più redditizio, per i latifondisti inglesi, il comparto agricolo irlandese di esportazione.
I numeri di questo “grande successo” non possono essere stabiliti con certezza, sia per l’ostruzionismo del governo inglese visto sopra, sia perché le morti durante i viaggi di emigrazione o subito dopo lo sbarco non furono mai conteggiate. Comunque in cinque anni la popolazione irlandese era passata da 8,2 milioni a 6 milioni di persone, apparentemente per via di una carestia assolutamente marginale (relativa alle sole patate), nei fatti a causa di scelte politiche ben determinate, al punto che uno storico come Tim Pat Coogan ha parlato di “genocidio” applicando la definizione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti umani.
Nell’Unione Sovietica, due capisaldi della dottrina bolscevica furono la collettivizzazione delle terre e l’industrializzazione forzata.
La classe industriale però era di piccole dimensioni e perciò si decise di crearla ex novo, mentre i contadini erano detestati, visti come un ostacolo e perciò si decise di eliminarli, o trasformarli attraverso una ricollocazione forzata di risorse umane dalla terra all’industria.
Gli effetti di questa politica investirono 10 milioni di famiglie sui 22 milioni di famiglie totali della nazione.
Il grano nei villaggi c’era, ma i contadini non volevano venderlo allo Stato a prezzi stracciati, perché i proventi non bastavano per comprare da quello stesso Stato la sua produzione industriale (di scarsa qualità) in quantità sufficiente. I contadini demotivati lavoravano il meno e il peggio possibile badando ovviamente a procacciarsi almeno il minimo per la propria sussistenza, il partito per tutta risposta pretendeva sempre di più e riscuoteva con la forza.
Ecco che si tornava all’economia primitiva: la città non riceveva più pane la campagna non riceveva più manufatti. Chi fosse avvantaggiato nell’autosufficienza locale è evidente, e la burocrazia cittadina dichiarò guerra alla campagna.
I commissari giungevano nei villaggi e requisivano la parte pretesa dallo Stato incuranti della rimanenza, lasciando sovente il contadino senza nulla.
E gli espropri privavano i contadini non solo di quanto serviva per l’alimentazione propria e degli animali, ma persino delle sementi, producendo un ulteriore crollo della produzione agricola.
Anche gli allevatori, piuttosto che farsi requisire le bestie le ammazzavano e gli animali trasferiti a forza nei kolchoz, per via della disorganizzazione e dell’incuria, conducevano una vita estremamente precaria. Il risultato fu che da 270 milioni di capi di bestiame (bovino, suino, ovino ed equino) presenti nel 1928, nel 1933 ne restavano 117 milioni, con annesse perdite di concime, carne, latte, uova e lana. La sola produzione di carne, che nel 1929 fu di 5,8 milioni di tonnellate, registrò un drammatico depauperamento, arrivando a una quantità inferiore al mezzo milione di tonnellate nel 1932.
Questa prassi produsse un autentico conflitto sociale testimoniato dalle reiterate ribellioni: se nella seconda metà del 1929 ci furono 1.300 manifestazioni e rivolte contadine, nel 1930 oltre 13.000. Solo nel 1930 vennero uccisi 1.200 funzionari in atti di resistenza alle requisizioni.
La NEP (nuova politica economica) aveva limitato l’attività delle piccole aziende agrarie di proprietà privata fino al 1928, ma dall’anno seguente cominciò una campagna di distruzione totale.
Tra il 29 e il 32 vennero espulsi dalle loro case o fattorie 10 milioni di kulak (piccoli proprietari terrieri); la più parte uccisi, molti deportati in regioni desertiche subartiche e ivi abbandonati, molti altri “rieducati” come schiavi industriali o come servi della gleba nelle fattorie collettive.
Destano impressione le testimonianze dei ferrovieri, spaventati dal numero di convogli che partivano per la Siberia.
La repressione della vita contadina semi-indipendente raggiunse l’apice negli anni 1929-1933 con l’adozione di mezzi di sterminio sistematico: reparti armati circondavano i villaggi e facevano fuoco con le mitragliatrici.
I superstiti venivano deportati nella gelida Siberia senza neppure vestiti adatti.
Di fronte alle brutalità disumane che furono costretti a perpetrare, diversi ufficiali e dirigenti locali si suicidarono (tipiche le grida disperate di: “questo non è comunismo, è assassinio!”).
Nel 1932 la fame produsse decine di migliaia di episodi di cannibalismo, che non risparmiarono figli mangiati dai genitori.
In quegli anni i bambini randagi, orfani di genitori assassinati o deportati, raggiunsero il numero di sette milioni, spostandosi dalle campagne alle città ove sopravvissero con espedienti vari e una diffusissima pratica criminale.
Il problema assunse una tale rilevanza che, per reprimerlo, fu introdotta la pena di morte a partire dai 12 anni.
Nel 1932 gli sconvolgimenti della collettivizzazione, le mancate semine e cure dei campi, i bassi redditi agricoli, la necessità di esportare per importare tecnologia occidentale, e l’indifferenza, quando non la voluta politica di affamamento e sterminio dell’eterno nemico contadino, decisa dai dirigenti bolscevichi, provocò la più terribile carestia mai vista nella storia d’Europa.
Il principio elementare che la gente ha bisogno di mangiare per vivere non scalfiva minimamente i programmi del Politburo, così, mentre la carestia infuriava, per finanziare l’industrializzazione si esportavano generi alimentari.
Naturalmente delle scorte furono trattenute da ripartirsi egualmente tra la popolazione, a partire da coloro che erano più uguali degli altri: nei primi mesi del 1933 vennero portate a Mosca e circondario 250.000 tonnellate di grano, quando per tutta l’Ucraina, con una popolazione dieci volte superiore, ne restavano a disposizione 280.000.
Ad ogni modo, la vendita all’estero di cereali, che nel 1929-30 era di duecentomila tonnellate, si ingigantì a cinque milioni nel 1930-31 e rimase a un milione e settecentomila anche durante il crollo della produzione del 1932-33, il burro veniva spedito in Europa mentre i bambini ucraini morivano per mancanza di latte. Nell’autunno del 1930 l’Unione sovietica divenne il primo esportatore mondiale di grano e restò tra i principali fornitori globali negli anni successivi.
Come ciliegina sulla torta, per arrestare la fuga dai kolchoz dei contadini superstiti, il regime impose il passaporto interno, reintroducendo così la vecchia servitù della gleba (abolita dagli “arretrati e autocratici” zar nel 1861, quattro anni prima dell’abolizione della schiavitù nei “progressisti e democraticissimi” Stati Uniti d’America) in una forma persino più dura di quella originale.
La misura del “grande successo” è la seguente: tra il 1930 e il 1932, a causa della repressione contro i contadini, le fucilazioni, il rogo dei villaggi, le deportazioni, l’ammassamento dei superstiti nei kolchoz e la carestia, morirono almeno 10 milioni di contadini (secondo Suvorov 10-16 milioni) dei quali un terzo o anche più furono bambini.
Il pensiero dei contemporanei.
All’epoca della carestia irlandese era in carica un governo Whig guidato da Lord John Russell, sostenitore indefesso di un liberismo rigoroso basato sulla dottrina del laissez-faire.
Questo governo manifestò un’ostilità diffusa contro qualunque piano di aiuti, sostenendo che avrebbe incentivato i poveri ad adagiarsi in una condizione di elemosinaggio.
In particolare il suo ministro del tesoro, Charles Edward Trevelyan, condusse una politica totalmente avversa al destino dell’Irlanda, affermando che inviare scorte di cibo avrebbe solo contribuito ad impigrire i poveri, prevenendone la voglia di lavorare.
I grandi quotidiani e le voci della cultura, di ispirazione liberal malthusiana (ma anche profondamente razzista, in quanto gli Irlandesi erano visti come esseri inferiori) alzarono uno sbarramento contro il solidarismo.
Thomas Wilson, direttore dell’Economist, affermò che “non è compito dell’uomo provvedere al prossimo”, e che l’assistenza ai poveri non avrebbe fatto altro che “spostare le risorse dai più meritevoli ai meno meritevoli”. E un tale spostamento di risorse sarebbe stato un “azzardo morale”, poiché l’impegno (in un certo senso lo spreco) di aiutare i più deboli, avrebbe posto le premesse per ulteriori e ben più gravi carestie.
William Nassau Senior, ancor oggi ricordato (io credo per ragioni umoristiche) come economista, affermava che più vite venivano salvate, più numerosi sarebbero stati i decessi in seguito.
Anche l’alto clero anglicano, che detestava gli Irlandesi in quanto cattolici, sostenne le politiche di non intervento, proclamando, anzi, che la carestia fosse “una benedizione inviata dalla Divina Provvidenza per dare una lezione agli Irlandesi”.
Lo stesso Trevelyan nutriva un sincero e profondo odio anti irlandese che lo spinse ad affermare che Dio aveva punito i cattolici irlandesi per i loro comportamenti superstiziosi e la loro devozione nei confronti del Papa
“In una versione provvidenzialista del malthusianesimo”, scrive Cormac Ó Gráda, “la carestia veniva vista come un piano divino per attenuare il problema della sovrappopolazione”. Soprattutto quella dei Paesi in via di industrializzazione.
Tuttavia non furono solo ragioni ideali a guidare le scelte dei potentati inglesi.
Vigevano allora (anche in Irlanda) le British Corn Laws, leggi volte a proteggere i coltivatori di grano dalla competizione con il mercato estero, con l’ulteriore scopo di mantenere alto il prezzo del grano e di prevenirne la caduta in annate di grande offerta. Ma questa politica protezionistica andava a beneficio dei proprietari terrieri (che, come già scritto sopra, erano inglesi e non irlandesi) i quali, realizzando il massimo profitto con la coltivazione intensiva di grano, vedevano i guadagni decurtati dalla coltivazione di patate.
Se nell’equazione il termine passivo era generato dalla voce “contadini”, la nobiltà latifondista che controllava il governo non si fece scrupolo di tagliare tale termine.
Una lettera di Charles Trevelyan, ritrovata dallo storico Tim Pat Coogan, dimostra che colui che gestì la crisi da plenipotenziario fece di tutto per far morire o costringere all’emigrazione le masse di contadini, consentendo ai proprietari terrieri di convertire la produzione verso modalità più redditizie.
Fin dagli albori dell’Unione Sovietica, nell’agosto 1918, Lenin aveva diramato il seguente dispaccio esecutivo: “E’ necessario organizzare una guardia di uomini scelti e fidati, che diano inizio a un regime di terrore spietato contro i kulak, i preti e le Guardie Bianche. Tutte le persone sospette devono essere internate in campi di concentramento.
Kulak era detto ogni contadino, appena benestante, proprietario del suo appezzamento di terreno, che coltivava da solo o con l’ausilio, anche solo stagionale, di uno o più braccianti; per rientrare nella definizione doveva possedere almeno una macchina agricola poco più evoluta di un semplice aratro, due cavalli e/o tre o quattro vacche.
Dunque può sorprendere che una simile figura minore fosse considerata dai capi bolscevichi un fiero avversario, eppure il fatto è incontestabile e dichiarato apertamente.
Così Lenin, sempre nel 1918: “Non c’è dubbio, il kulak è un feroce nemico del potere sovietico. […] La pace non è possibile: si può, e perfino facilmente, riconciliare il kulak con il grande proprietario fondiario con lo zar e con il prete, anche se prima erano venuti a lite fra loro, ma non lo si può riconciliare mai con la classe operaia. […] Guerra implacabile contro questi kulak. A morte! […] Gli operai devono schiacciare con mano ferrea le rivolte dei kulak”.
E il primo ottobre 1918, il giornale “Terrore rosso” pubblicava un articolo che conteneva la seguente dichiarazione di intenti: “Noi non facciamo la guerra agli individui. Noi sterminiamo la borghesia come classe”.
E per capire cosa intendessero i bolscevichi col termine borghesia basta osservare la costituzione promulgata tre mesi prima che prevedeva lo status di lisenec, “privato dei diritti”, per tutti coloro che: vivessero di redditi non provenienti dal lavoro, per i commercianti, i religiosi, gli ex collaboratori della polizia, i membri della ex casa imperiale, e tutte le persone che hanno fatto ricorso al lavoro salariato per ricavarne un profitto, a cominciare dai contadini.
La “soluzione finale” veniva promossa il 27 dicembre 1929 in un articolo di Stalin intitolato “liquidazione dei kulak come classe”.
E lo sterminio era stato preparato dalla disumanizzazione della vittima: Lenin, fin dai primissimi anni della rivoluzione, descrive i kulak come esseri demoniaci e subumani; li apostrofa come “i più brutali e incalliti e selvaggi sfruttatori… cupidi, tronfi e bestiali”; li dipinge a guisa di “ragni, sanguisughe e vampiri”.
Come se non bastasse, per distruggere la “borghesia rurale” si affiancarono all’armata rossa i comitati di contadini poveri, a cui erano stati aggregati tutti i disadattati e i criminali che infestavano le campagne, dando loro a intendere che i beni espropriati ai kulak dovessero rimanere a loro disposizione; in questo modo si ottenne un moto sistematico di bullismo, violenza e vessazione, che massacrava i piccoli proprietari terrieri mentre i militari erano impegnati altrove.
Come e ancor più di quanto avvenne in Irlanda, la fame e lo sterminio non furono una disgrazia, ma l’applicazione coerente di un sistema di idee.
Valutazioni critiche.
Stiamo osservando due fenomeni molto simili, la carestia irlandese e quella russo-ucraina, figli di due ideologie che storicamente sono sempre state contrapposte e che si sono sempre reciprocamente accusate di ogni errore e nefandezza.
In realtà, se hanno prodotto gli stessi orrori è perché sono entrambe sbagliate come teorie economiche e negative come ideologie politiche.
Purtroppo, la contrapposizione di queste due dottrine non ha fatto che promuoverle nel consenso generale a fasi alterne: se verso la fine del millennio il liberismo è tornato prepotentemente in auge, lo si deve in gran parte al fallimento del marxismo sovietico, in quanto i liberisti hanno interpretato il crollo dell’avversario come una prova che avessero ragione; e se nell’ultimo lustro assistiamo a una ripresa del marxismo, anche in sede accademica, lo dobbiamo certamente al disagio e all’incipiente fallimento provocati dalla galoppata liberista, privata dei precedenti freni, che ha indotto i marxisti a fare un ragionamento perfettamente speculare.
Il liberismo prende le mosse dall’idea che fare qualcosa di utile per gli altri sia conveniente per se stessi. Da qui l’affrettata conclusione che la ricerca dell’utile personale sia il metodo più semplice e naturale per contribuire all’utilità generale. L’idea iniziale può essere giusta ma non autorizza a incoraggiare l’egoismo come metodo, perché esiste il rovescio della medaglia: infatti anche tenere in ostaggio qualcosa di utile per gli altri è egualmente, o ancor più, conveniente per se stessi.
E fin dalla notte dei tempi l’uomo ha appreso a sfruttare a proprio vantaggio questa sorta di ricatto in particolare con due tipologie di beni: la proprietà terriera e, soprattutto, il denaro.
Se il latifondo costringendo l’affittuario a cedere al proprietario una parte forse eccessiva dei propri prodotti, non intaccava comunque il principio che la ricchezza proviene dal lavoro, l’accumulo di denaro, sequestrato dalla circolazione e ivi reintrodotto dietro pagamento di un riscatto, detto interesse, aveva invece creato l’illusione che la ricchezza potesse coincidere con il mezzo di scambio.
Tuttavia il ricatto funzionava perfettamente e al tempo di David Ricardo si era creato un gruppo ristretto di “maestri ricattatori” (di cui lui stesso era membro eminente) che vivevano di rendita e per questo stesso fatto si reputavano persino migliori degli altri.
E’ interessante considerare in proposito il pensiero del già citato comico (pardon, “economista”) William Nassau Senior: gli uomini sono spendaccioni, spreconi e improvvidi, consumando oggi ciò che serve domani. Pertanto i pochi accorti e virtuosi accumulano capitale, che crea quella disparità tra domanda e offerta finanziaria da cui nascono gli interessi. E senza gli interessi non esisterebbe incentivo all’educazione di un’umanità dissipatrice (quindi l’interesse sarebbe un premio alla virtù!) né esisterebbero risparmio e capitale.
Un vero economista come Gesell debella e mette in ridicolo questo approccio mercantilistico e pseudomoralistico, che, in modo inconscio, pervade ancora oggi la nostra cultura.
Ecco le sue tre obiezioni.
1) se gli uomini sono dissipatori e spensierati sul futuro, come ci si può arrischiare a prestare loro del denaro? (Che poi è il mezzo tramite cui il capitalista arricchisce).
2) I primi spreconi sono proprio i capitalisti, che, lesinando i finanziamenti per non far scendere il saggio di interesse, sprecano la laboriosità del popolo e lo sottopongono a disoccupazione forzata, supremo schiaffo alla miseria.
3) La stoica parsimonia che fosse esercitata dalla classe operaia, riuscirebbe, al termine di tanti sacrifici, a consumare il risparmio dei poveretti con una bella crisi da sovrapproduzione (contrazione della domanda e successiva disoccupazione per l’operaio-risparmiatore).
All’inizio dell’ottocento, l’élite di redditieri inglesi era lo stesso gruppo di persone che aveva prodotto la teoria economica corrente e non può destare stupore che questa teoria riflettesse le loro vedute di parte.
La concorrenza, tra lavoratori, aumentava il potere d’acquisto del loro capitale? ed ecco che la concorrenza diventava la chiave universale per il progresso economico; vincoli e regolamenti avrebbero potuto far perdere loro qualche lucroso affare? ed ecco il miracoloso “lasciar fare” che garantiva l’equilibrio al mercato.
Non può sfuggire che la teoria liberista sia totalmente sbilanciata dalla parte della domanda.
E, nel tempo, l’applicazione del libero mercato ha prodotto esattamente gli effetti promessi, purché si sappia comprendere la promessa.
Si dice che il libero mercato “permette di allocare le risorse con la massima efficienza”.
Ebbene, chi le risorse non le ha non alloca niente e il mercato non gli offre nessuna libertà pratica (pur mantenendo l’illusione di libertà).
Chi le risorse le ha, chi è ricco, può godere della massima libertà e ottenere il massimo rendimento dall’impiego dei propri averi.
Quindi, in pratica, il libero mercato promette ai ricchi di diventare sempre più ricchi, cosa che puntualmente è avvenuta, come testimoniano le statistiche Oxfam e tutte le pubblicazioni dei centri studi che si occupano di distribuzione della ricchezza.
A questo serve il liberismo e questo ha prodotto, come nel luminoso esempio irlandese del 1847: missione compiuta.
Il marxismo, a differenza del punto di vista individuale liberista, prova a offrire un’interpretazione dell’economia dal punto di vista della collettività.
Tuttavia la collettività descritta da Marx non è quella reale, del popolo nella sua totalità, ma è una collettività artificiosamente suddivisa in classi, contrapposte fra loro in uno stato di inimicizia mortale.
E se una discussione sulla remunerazione delle categorie di lavoro è assolutamente legittima, la pretesa che debba esistere un’unica categoria, quella del lavoratore industriale (il proletario), è paradossale e totalmente disfunzionale.
Uno Stato privo di tecnici, dirigenti, intellettuali, scienziati, artisti e giornalisti, semplicemente si abbrutisce e va in rovina (come accaduto per esempio alla Cambogia dei khmer rossi), mentre in Unione Sovietica queste categorie furono per lo più reintrodotte, appena camuffate da qualche ampolloso ritrovato retorico.
Ciò non toglie che l’improponibile dogma classista potesse essere applicato a discrezione: per certe professioni che potevano essere strumentalizzate per propagandare il verbo comunista esistevano tolleranza e larghezza di vedute, per altre non strumentalizzabili solo feroce repressione.
E il contadino non poteva essere strumentalizzato: non esisteva il grano comunista, ma solo quel grano più o meno identico a quello di mille anni prima, che la terra offriva a tutti i coltivatori allo stesso modo, progressisti o reazionari che fossero.
E comunque, pur con tutti i trucchi narrativi del caso, la presunta dittatura del proletariato, come prevista dalla teoria, fu totalmente smentita dai fatti. Infatti il comunismo creò una nuova classe non menzionata nel “capitale” che esercitò un’oppressione gravosa, peggiore di quella capitalista e una tirannia sanguinaria e assolutamente totalitaria: la classe burocratica che soprintendeva all’edificazione del paradiso in terra; e decideva arbitrariamente chi dovesse starci e chi no, destinando gli esclusi a una morte crudele.
Ma la svista economica più clamorosa Marx la compie, ancora una volta, riguardo al denaro.
Ponendo l’equivalenza merci-denaro non vede, o finge di non vedere, che la domanda si esercita in denaro (non in merci, pii desideri o esclamazioni di estasi) e che quindi il capitalista finanziario, avendo il potere di bloccare la circolazione strangolando la domanda, tiene in ostaggio tutto il circuito produttivo e commerciale.
Altroché plusvalore generato nella sfera della produzione! (fantasia senza senso).
Gesell interviene anche a questo proposito rimarcando che se non si riconosce il potere superiore del denaro rispetto alle merci (evidente ad esempio per gli sconti quantità: per grossa quantità di merci si applica sconto in denaro e mai per grossa quantità di denaro sconto in merci) nemmeno si riconosce lo sfruttamento del consumatore attuato dalla “cosiddetta Internazionale dell’oro, della Borsa e dell’usura”, né si vede “quella disponibilità di forza bruta, di strumento di coercizione, di cui sono provvisti i possessori di denaro e i re della borsa , che invece Marx attribuisce in esclusiva ai proprietari dei beni strumentali”.
Gesell profetizzò nel 1917 (data di pubblicazione del suo “Sistema economico…”) che anche statalizzando i mezzi di produzione, il premio di liquidità e l’interesse avrebbero prodotto uno sfruttamento del popolo russo, rimarcando con indignazione che “attualmente, ovunque nel mondo, il servizio di guardia davanti al tempio di mammona sia svolto dalla Guardia Rossa”.
L’economista prussiano colse nel segno e la sua previsione si avverò: nonostante le collettivizzazioni e le statalizzazioni, la Russia rimase soggetta a sfruttamenti capitalistici i cui simboli più straordinari furono la privatizzazione della banca centrale sovietica nel 1937 (che finì persino in mano di azionisti stranieri) e l’apertura nel 1973 di una filiale della Chase Manhattan Bank dei Rockefeller sulla piazza rossa di Mosca, mentre la gente comune faceva la fila per il pane.
Se il liberismo aveva considerato l’economia solo dal punto di vista della domanda, si potrebbe dire che il marxismo sia un tentativo maldestro di considerarla solo dal lato dell’offerta.
E al di là del fatto che il comunismo sovietico possa essere stato un tentativo di applicazione tradito, (dalla classe burocratica), resta comunque la prova provata di un tentativo fallito che smentisce la teoria marxista, proprio perché non ha potuto preservare l’apparato produttivo dallo sfruttamento finanziario.
In ogni caso non funziona nessuna delle due visioni parziali, né quella liberista favorevole alla domanda né quella marxista propizia all’offerta, perché l’economia ha bisogno sia della domanda sia dell’offerta, che si armonizzano in una circolarità interscambiabile.
Alle radici dell’errore – considerazioni finali.
Nelle precedenti valutazioni mi sono limitato sostanzialmente a rilievi nella sfera socioeconomica.
Ma la visione dell’economia non è, e non può essere, autonoma rispetto a una visione del mondo che la precede.
Perciò, facendo un primo passo a ritroso, si può dire che le due riduzioni a vantaggio l’una della domanda e l’altra dell’offerta, riflettessero due istanze ideali sbilanciate l’una dalla parte della libertà e l’altra dalla parte della giustizia.
Ed entrambe queste opzioni sono necessariamente fallimentari, in quanto la libertà individuale senza giustizia si tramuta in sopraffazione del forte sul debole, in conseguente ribellione e in caos perpetuo. Viceversa la giustizia, non liberamente scelta e perseguita, diventa tosto oppressione, omologazione di massa e prigione della creatività personale.
Falsa libertà e falsa giustizia sono quelle per cui una delle due esclude l’altra.
Un ulteriore approfondimento nel retroterra strategico ci mostra queste due dottrine non più speculari, ma addirittura appaiate.
Mi riferisco al fatto che entrambe si focalizzano su di un aspetto strumentale quale fosse una finalità ultima: il liberismo sul mercato e il marxismo sulla lotta di classe.
Queste attenzioni ossessive ai processi, piuttosto che ai risultati, sono tipiche delle ideologie utopistiche, che, ammantate di un’aura di apparente perfezione, inducono chi le professa ad applicarle con criteri integralistici.
Il liberismo è la rappresentazione archetipica dell’utopia tecnocratica: il mercato sarebbe lo strumento perfetto che risolve ogni problema, senza bisogno di progettazione o manutenzione in quanto è autoregolante, esente dalla necessità di aggiustamenti o ripensamenti.
Naturalmente questa visione esprime nient’altro che la parvenza razionalizzata di un desiderio, tant’è che gli studi moderni dimostrano che un mercato perfetto può garantire solo dei risultati molto modesti in ordine al benessere della popolazione e che per farlo deve soddisfare una lunga lista di precondizioni, che hanno la caratteristica precipua di non presentarsi mai contemporaneamente.
Ma la sensazione di potenza e di superiorità agli ostacoli che infonde la suggestione utopistica fa sì che l’ideologo non ne veda i difetti; e di fronte ai fallimenti concreti nelle realizzazioni della sua teoria ne attribuisce la colpa al fatto che non è stata applicata bene o in misura sufficiente, cosicché rincara la dose incurante degli effetti apparenti.
E in casi estremi l’utopista arriva a negare il problema, come fece il noto economista Joseph Schumpeter che nel 1934, in piena crisi, affermò: “Le depressioni semplicemente non sono il male”.
In modo perfettamente analogo il marxismo incarna l’utopia storicistica: così come per l’induismo al Kali Yuga, epoca oscura, seguirà l’età dell’oro, il Satya Yuga, o come per la new age l’avvento dell’era dell’Acquario porterà a una rifioritura del mondo, allo stesso modo la mitologia comunista prevede che all’era della borghesia capitalista succeda l’era della dittatura del proletariato, che a sua volta sfocerà nel paradiso terrestre.
In tutte queste cosmogonie la successione degli eventi non sembra decisa dall’uomo e dalle sue scelte, ma da uno schema preordinato delle epoche, che risulta qualcosa di astratto e separato dalla realtà e retto da uno stato di necessità, creduto per fede.
Come per i liberisti lo strumento “mercato” prevale sul fine del benessere, allo stesso modo per i marxisti lo strumento “lotta di classe” è più importante degli effetti che questo genera nella vita dei proletari.
Nessun comunista ha mai considerato come risultato apprezzabile il fatto che gli operai stessero un po’ meglio (non sia mai!), in compenso non si sono mai fatti scrupolo di assoggettarli a pesanti sacrifici e a drammatici peggioramenti del tenore di vita purché seguissero la via prescritta dal loro mito storicistico. E a una pace sociale vantaggiosa per tutti, hanno sempre preferito la conflittualità, perseguita per dogma e dannosa per l’intera nazione.
Il fatto è che ogni utopia promette uno stato di cose perfetto e, non potendo esibirlo qui o là, lo promette per domani (ripetendo lo stesso l’indomani).
Il futuro è il tempo dell’utopia e a questo futuro viene regolarmente sacrificato il presente.
Non solo, il beneficiario delle magnifiche sorti che brilleranno al sol dell’avvenire non è mai la persona fisica concreta, ma sempre qualche categoria astratta: il mercato, la classe operaia, l’umanità…
E, al contrario, ogni persona fisica che non rientri nel teorema ideologico utopistico viene vista come inutile zavorra sacrificabile o, più spesso, come nemico da sopprimere, fossero pure milioni.
Ho già citato sopra parecchie dichiarazioni piuttosto esplicite degli artefici delle due carestie, ma voglio sottolineare ancora due casi esemplari.
La prima è la dichiarazione del liberista e malthusiano William Nassau Senior che ogni vita salvata al presente avrebbe poi provocato più morti: in sostanza venne enunciato e applicato (agli altri) il geniale principio secondo cui il rischio di morire domani può essere scongiurato morendo oggi.
Devo inserire una breve parentesi per ricordare che, fin dalle origini, sempre e ovunque il pensiero liberista fu legato a quello malthusiano.
Il fatto che una trascurabile minoranza con epicentro alla London School of Economics tenti oggi di contrapporre i due filoni (e con argomenti errati che non posso confutare qui per ragioni di spazio) non intacca minimamente il connubio e indica solo un tentativo di giustificazione del liberismo agli occhi di quelle culture che lo hanno rigettato per i suoi risvolti malthusiani (in particolare quella cattolica e quella evangelica, soprattutto nei settori impegnati pro life).
Comunque, la frase del Nassau è un compendio di utopismo: si vede qui la superiorità del futuro rispetto al presente, il disprezzo per la vita fisica delle persone, la predominanza delle (sue) idee sui bisogni concreti (altrui).
L’altra dichiarazione è un tale capolavoro, da meritare il frontespizio del manuale del perfetto utopista e da non aver bisogno di alcun commento.
La dobbiamo a Lenin e suona così: “Costringeremo l’umanità a essere felice, costi quel che costi”.
Esiste un’ultima radice delle ideologie, che è la più profonda e che attiene all’ordine religioso.
Talvolta esplicitamente, più spesso implicitamente, è il pensiero religioso il seme da cui scaturiscono le teorie politiche ed economiche.
Liberismo e marxismo non fanno eccezione e provengono il primo dal Calvinismo e il secondo dall’Ebraismo.
Il Calvinismo considera l’uomo ineluttabilmente malvagio, e solo gli eletti (per insindacabile scelta di Dio) sono salvati, non potendo mai scadere dalla grazia.
In base a queste premesse coloro che si considerano predestinati reputano di poter fare ciò che vogliono con l’approvazione di Dio. E l’abbondanza di ricchezze viene considerata una prova dell’elezione.
Ecco qui raffigurato in nuce il libero mercato dove chiunque fa ciò che vuole, ma in cui i benedetti arricchiscono sempre più, e i poveri si auto accusano con la loro miseria di essere reprobi.
L’Ebraismo, una volta rigettato Gesù perché il suo regno “non è di questo mondo”, ha proiettato l’antica promessa in un’ottica decisamente materialistica, focalizzata sul regno di questo mondo.
Lo stesso messia viene identificato con il popolo di Israele, a cui si appartiene per nascita, che ha missione regale ed è chiamato a dominare tutti i non ebrei, animali parlanti creati per servirli.
Marx, che discendeva da una dinastia di rabbini, traspone molti di questi elementi nella sua teoria:
la classe operaia, a cui si appartiene per nascita, ha una missione regale, la dittatura del proletariato, ed è chiamata a pacificare l’eterno conflitto, dominando l’umanità e liberandola dai “ragni, sanguisughe e vampiri” (animali parlanti) delle altre classi.
In entrambi i casi queste due religioni, che io personalmente considero superstiziose e opportunistiche, con le loro applicazioni economico-politiche hanno creato delle autentiche caste in cui si dividono i buoni e i cattivi: plutocrati e miserabili nel liberismo, comunisti e borghesi nel marxismo.
Scrivo “comunisti” e non “proletari” nel caso del marxismo perché sempre le dirigenze rosse ebbero un tenore di vita tutt’altro che proletario, sovente molto più elevato di quello degli odiati “sfruttatori borghesi”.
Se il liberismo ha creato la casta plutocratica e, partendo da un puro potere di fatto, ha cercato di legittimarla moralmente, il comunismo ha creato la casta burocratica in nome di una legittimazione morale, che si è trasformata in un puro potere di fatto: gli estremi si sono toccati.
Una storiella sagace che circolava nella Russia sovietica può degnamente concludere queste riflessioni: “Compagni, sappiate che nell’occidente capitalista regna lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo! -E qui da noi?- l’esatto contrario!”.