Violazione radicale della libertà di coscienza, un altro segno della deriva totalitaria dell’Occidente postcristiano. Segnalo in particolare la citazione di Giorgio La Pira nella nota n. 9.
Obiezione di coscienza sotto attacco in Sicilia
Sulla proposta di assunzione di medici non obiettori negli ospedali siciliani.
«La coscienza costituisce la dignità della persona»:[1] così Robert Spaemann ha efficacemente cristallizzato il legame di ordine ontologico che esiste tra la coscienza e l’umanità della persona, tanto da ritenere che proprio la tutela e la protezione della coscienza rappresenti una irrinunciabile acquisizione di ordine giuridico che nessuna legislazione o politica può e deve negare o violare.
In direzione esattamente opposta si muove, purtroppo, la proposta di legge presentata presso l’Assemblea Regionale Siciliana, approvata già in commissione come riportato dalla stampa, che intenderebbe non soltanto escludere dalla procedure di assunzione presso le strutture medico-sanitarie i medici che si sono dichiarati obiettori, ma per di più prevederne l’eventuale licenziamento qualora i medici di nuova assunzione si dichiarino obiettori successivamente alla propria entrata in servizio.
La suddetta proposta di legge regionale appare gravemente contraria alla legge, alle garanzie costituzionali, nonché ai principi generali dell’ordinamento e a quelli costitutivi dello Stato di diritto.
In primo luogo: sembrano radicalmente violati la lettera e lo spirito della stessa legge 194/1978 che, contrariamente all’iniziativa siciliana, sancisce e tutela espressamente il diritto all’obiezione di coscienza ai sensi del suo articolo 9.
In secondo luogo: una siffatta proposta di legge si pone in evidente contrasto con il dato costituzionale che cristallinamente conosce e riconosce la inderogabilità della tutela della libertà di coscienza, tanto che già da tempo la stessa Corte Costituzionale, con la celebre sentenza n. 467/1991, ha esplicitamente ribadito che l’obiezione di coscienza è un diritto fondamentale e costituzionalmente garantito.[2]
En passant, si consideri, peraltro, che proprio su questo assodato ed incontestabile indirizzo giurisprudenziale della Consulta, lo stesso Consiglio di Stato, con ordinanza n. 601/2015, ha sospeso l’efficacia di una parte del decreto del commissario ad acta Zingaretti (‘Linee di Indirizzo regionali per le attività dei Consultori familiari’), in base al quale tutti i medici dei consultori della Regione Lazio, anche gli obiettori, avrebbero dovuto rilasciare la certificazione necessaria per richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza presso le strutture autorizzate.
In terzo luogo: mentre il diritto al lavoro e il diritto all’obiezione di coscienza sono diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, l’interruzione volontaria di gravidanza non soltanto non è un diritto fondamentale, e ciò proprio in virtù di quanto sancito sia dalla legge 194 che dalla celebre sentenza n. 27 del 1975 con cui la Corte Costituzionale ha “legalizzato” la pratica abortiva in Italia che consentono soltanto una mera facoltà di ricorrere ad essa soltanto quando si tratta di tutelare il diritto all’integrità psico-fisica della donna.
La stessa Consulta, infatti, nella predetta sentenza ha riconosciuto per un verso che «la tutela del concepito – che già viene in rilievo nel diritto civile (artt. 320, 339, 687 c.c.) – abbia fondamento costituzionale. L’art. 31, secondo comma, della Costituzione impone espressamente la “protezione della maternità” e, più in generale, l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito» e, per altro, verso che tale diritto può recedere soltanto dinnanzi all’esigenza di interrompere la gravidanza quale mezzo per la tutela del diritto alla salute della gestante.[3]
Inoltre, appare quanto mai errato sul piano del merito e ancor più a livello di metodologia contrapporre il diritto al lavoro del medico obiettore e il suo diritto all’obiezione di coscienza, tanto che l’esercizio del secondo possa essere ritenuto causa di risoluzione del rapporto contrattuale a fondamento del primo.
L’errore è duplice, non soltanto perché l’introducenda disciplina regionale crea una conflittualità tra diritti fondamentali che non esiste e non può esistere, ma anche e soprattutto perché crea una gerarchizzazione tra gli stessi che non sussiste nel panorama giuridico e costituzionale.
Sebbene questo sia l’errore metodologico più grave che è stato avallato – soprattutto a causa della pigra sciatteria logico-giuridica e della insipienza filosofica della gran parte della stessa classe dei giuristi – durante il periodo pandemico che ha visto contrapporre conflittualmente in una prima fase il diritto alla salute dei più anziani e fragili contro il diritto alla salute dei più giovani,[4] e, in una seconda fase, il diritto al lavoro contro il diritto alla salute,[5] specialmente tramite l’introduzione del cosiddetto “green pass”, ciò non vuol dire che un tale gravissimo errore giuridico e concettuale possa e debba essere accettato fino a diventare ricorsivo in ogni tempo e in ogni luogo e in tutto il resto dell’ordinamento fino a coinvolgere praticamente tutti i diritti fondamentali costituzionalmente riconosciuti.
Se durante la pandemia, per aver tutelato il proprio diritto alla salute non si doveva avere il demerito dell’essere anziani, come per l’esercizio del diritto al sostentamento proprio e della propria famiglia attraverso il lavoro non si doveva avere il demerito di non possedere il green pass, così la proposta di legge siciliana pretende che per l’esercizio del diritto al lavoro da parte del medico non si abbia il demerito di sollevare obiezione di coscienza dinnanzi alla pratica abortiva.
Il problema è, dunque, grave e sistemico, poiché si sta slittando silenziosamente e gradualmente – con la complicità dei giuristi che sembrano brancolare nella più totale cecità teoretica e nelle tenebre che occludono i passi verso una coerenza logico-sistematica della giuridicità – verso una tutela dei diritti fondamentali non più fondata sulla loro stessa ontologia giuridica, ma sui meriti o demeriti che il loro titolare può conseguire nel corso del tempo, tornando indietro cronologicamente e logicamente, cioè verso una concezione dei diritti ottriati in sostituzione dei diritti naturali.
Sarebbe bene ricordare, infatti, che la Costituzione riconosce e non costituisce o graziosamente concede ed elargisce i diritti fondamentali, come ha insegnato, ex plurimis, Francesco Santoro-Passarelli per il quale, infatti, «la nostra Costituzione contiene un lungo elenco di libertà, che non possono essere tolte alla persona e sono inviolabili da parte dello stesso Stato […]. Le altre libertà, libertà personale, libertà di opinione, libertà di associazione, libertà religiosa, sono tutte libertà essenziali, riconosciute ugualmente a tutti e a tutti egualmente spettanti[…]. La garanzia contro i pericoli e gli abusi dell’azione dello Stato è costituita dalla libertà e dalla struttura pluralistica di questa forma di Stato[…]. Di qui il riconoscimento nella Costituzione, e non la concessione, delle ricordate libertà inviolabili; di qui il limite essenziale dell’azione dello Stato».[6]
Con tutta evidenza non si tratta qui di discutere né della riproposizione della teoria dei cosiddetti “diritti tiranni”,[7] né dell’antigiuridica “mesiteiafilia” che pur contraddistingue e affligge l’attività ermeneutica di rango costituzionale,[8] ma del riconoscimento del pianto onto-assiologico, quindi meta-normativo e come tale costitutivo, dei diritti fondamentali costituzionalmente riconosciuti in genere e, del diritto al lavoro e all’obiezione di coscienza in particolare.
Delle due l’una: o i diritti fondamentali sono tali, e lo sono sempre e per tutti, cioè sostanzialmente pre-ordinamentali (tanto che la Carta costituzionale utilizza il verbo “riconoscere” e non “costituire”), pre-costituzionali, ultra-statali, sovra-politici, meta-normativi, poiché ancorati e ancorabili alla struttura ultima dell’essere umano, ovvero alla sua umanità, essendo cioè il riflesso giuridico della sua dimensione ontologica, oppure non lo sono e quindi diventano manipolabili o eliminabili in base alle circostanze di volta in volta diverse e cangianti nel corso del tempo.
Per quanto sia certamente vero che la stessa Costituzione consenta e preveda delle limitazioni e delle regolamentazioni per i diritti e le libertà che essa stessa contempla, è anche altrettanto vero che ammettere le temporanee compressioni non significa ammettere anche le eventuali soppressioni, come in passato si è verificato con l’introduzione del green pass che ha escluso senza limiti dalle attività lavorative o ricreative chi ne fosse sprovvisto, così come oggi si vuole sopprimere il diritto al lavoro del medico che intendesse sollevare obiezione di coscienza contro l’aborto, o sopprimere il diritto all’obiezione di coscienza del medico che intendesse lavorare.
E’ opportuno precisare, peraltro, che il diritto al lavoro non costituisce soltanto un diritto fondamentale, essendo il cardine della Costituzione italiana – sia in senso formale e normativo (art. 1, 2, 4, 35, 36) sia in senso etico e sostanziale rappresentando la sintesi aurea della policromatica fonte di valori che è stata l’Assemblea Costituente –,[9] ma esprime la dimensione socio-giuridica e assiologica dell’esistenza in quanto sociale e in quanto umana.
Per parte sua il diritto all’obiezione di coscienza, oltre il suo addentellato costituzionale alla luce degli articoli 2, 3, 19 e 21 della Costituzione,[10] trova il suo pieno riconoscimento anche a livello internazionale, proprio in ossequio alla sua inderogabile universalità, essendo, infatti, riconosciuto in modo diretto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che per l’appunto al comma secondo dell’articolo 10 stabilisce che «il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio», e indirettamente dall’articolo 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che tutela la libertà di coscienza.[11]
L’uno e l’altro non possono reciprocamente escludersi, né entrare in contrapposizione, come accade, invece, seguendo la disciplina regionale siciliana in corso di discussione e approvazione.
Non a caso sulla tutela dei diritti fondamentali il Consiglio di Stato ha chiarito come «negli ordinamenti democratici e pluralisti si richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. Così come per i diritti (sentenza della Corte costituzionale n. 85/2013), anche per gli interessi di rango costituzionale (vieppiù quando assegnati alla cura di corpi amministrativi diversi) va ribadito che a nessuno di essi la Carta garantisce una prevalenza assoluta sugli altri. La loro tutela deve essere “sistemica” e perseguita in un rapporto di integrazione reciproca».[12]
Un ordinamento giuridico, dunque, che contemplasse il diritto al sostentamento tramite il lavoro al prezzo della libertà di coscienza non sarebbe riflesso di uno Stato di diritto, ma di uno Stato totalitario in cui il lavoratore non è una persona, ma una res priva di anima che deve rinunciare alla sua propria dimensione etica per poter ottenere il merito necessario per accedere al diritto al lavoro; analogamente un ordinamento che al fine di garantire la libertà di coscienza negasse il diritto al lavoro sarebbe altrettanto biasimevole poiché negherebbe le esigenze primarie e materiali per il sostentamento della persona che invece è sempre unione di anima e corpo, di forma e materia, di spirito e biologia.
In conclusione, dunque, la proposta legislativa promossa all’ARS, come altre eventuali simili iniziative ovunque dovessero essere intraprese, sembra non soltanto del tutto fuori contesto rispetto all’assetto ordinamentale e costituzionale italiano, ma soprattutto sembra volersi inscrivere all’interno di quella lotta ideologica che negli ultimi anni si sta consumando per erodere gli spazi della libertà di coscienza, dimenticando la preziosa lezione di Ernst-Wolfgang Böckenförde per il quale «il rispetto della coscienza da parte dello Stato, il riconoscimento della sua inviolabilità e la rinuncia, in caso di conflitto, ad “offenderla”, esigendo un sacrificium conscientiae, non costituiscono quindi una dissoluzione dello Stato e del suo potere decisionale vincolante, ma piuttosto il presupposto e la legittimazione dello Stato stesso».[13]
Aldo Rocco Vitale
[1] Robert Spaemann, Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, Laterza, Bari, 2007, pag. 164.
[2] «A livello dei valori costituzionali, la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, dal momento che non può darsi una piena ed effettiva garanzia di questi ultimi senza che sia stabilita una correlativa protezione costituzionale di quella relazione intima e privilegiata dell’uomo con se stesso che di quelli costituisce la base spirituale-culturale e il fondamento di valore etico-giuridico. In altri termini, poiché la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione, essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima»: Corte Costituzionale n. 467/1991.
[3] «L’interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venire in collisione con altri beni che godano pur essi di tutela costituzionale e che, di conseguenza, la legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi adeguata protezione[…] quando sia accertata la pericolosità della gravidanza per il benessere fisico e per l’equilibrio psichico della gestante».
[4] Aldo Rocco Vitale, Elementi per un rapporto tra allocazione delle risorse sanitarie e diritto alla salute come problema biogiuridico nell’emergenza del COVID-19, in GiustiziaInsieme, 21 dicembre 2020.
[5] Aldo Rocco Vitale, Del green pass, delle reazioni avverse ai vaccini e di altre cianfrusaglie pandemiche come problemi biogiuridici: elementi per una riflessione, in GiustiziaInsieme, 21 settembre 2021.
[6] Francesco Santoro-Passarelli, Libertà e Stato, in Iustitia, 3/1957, pag. 209 e ss.
[7] Sul tema cfr. Corte Costituzionale n. 85/2013; per la dottrina cfr. Luciano Butti, Non esistono diritti tiranni. Come orientarsi tra diritti in conflitto, Mimesis, Milano, 2023.
[8] Cfr. Vincenzo Vitale, L’antigiuridica mesiteiafilia della Consulta. Dal bilanciamento dei diritti fondamentali al trans-umanesimo, in GiustiziaInsieme, 7 aprile 2023.
[9] In tale direzione chiarissime le parole di Giorgio La Pira nella seduta pomeridiana dell’Assemblea Costituente dell’11 marzo 1947: «Intendiamoci bene: quando vedete gli uomini associati nel fatto produttivo, voi che cosa vedete? Vedete una convergenza di sforzi verso il bene comune, vedete diversità di funzioni; non una struttura meccanica, ma, come si dice, una struttura finalistica. Da ciò una visione finalizzata della proprietà e dell’impresa. C’è un libro molto importante del Renard, il quale dice così: l’impresa va concepita in maniera istituzionale, non secondo la categoria del contratto di diritto privato, ma secondo, invece, quella visione finalistica per cui tutti coloro, che collaborano ad una comunità di lavoro, sono membri, sia pure con diverse funzioni, di quest’unica comunità che trascende l’interesse dei singoli; quindi gli strumenti di produzione si proporzionano a questa concezione: e allora avete una concezione della proprietà, che pur essendo presidio della libertà umana, tuttavia diventa strumento di questa opera collettiva, quindi dà una dignità al lavoratore, che non è più un salariato, ma, come le Encicliche pontificie ricordano, deve tendere a diventare il consociato, il compartecipe di questa comunità di lavoro»: Giorgio La Pira, 11 marzo 1947, nella seduta pomeridiana, l’Assemblea Costituente prosegue la discussione generale del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
[10] Luciano Eusebi, Obiezione di coscienza del professionista sanitario, in AA.VV., I diritti in medicina, in Trattato di biodiritto, a cura di Stefano Rodotà – Paolo Zatti, Giuffrè, Milano, 2011, pag. 180.
[11] Cfr. Aldo Rocco Vitale, Introduzione alla bioetica. Temi e problemi attuali, Il Cerchio, Rimini, 2019.
[12] Consiglio di Stato n. 8167/2022.
[13] Ernst-Wolfgang Böckenförde, Il diritto fondamentale della libertà di coscienza, in Stato, Costituzione, democrazia. Studi di diritto della costituzione e di diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 2006, pag. 297.