L’IMMIGRAZIONE E L’APPARENTE “CORTOCIRCUITO” DEI CRISTIANI
Una apparente contraddizione
La Fede Cristiana è un et-et, non un aut-aut. Essa unisce, riunisce, nell’originaria analogia, Dio e uomo, Creatore e creazione, Spirito e natura. Solo alla luce dell’et-et cristiano si può comprendere l’apparente contraddittorietà dell’atteggiamento cristiano di fronte al problema dell’immigrazione.
La questione è, infatti, delicata e cruciale. Come conciliare l’amore universale per il prossimo con l’amore per la propria comunità patria, per i propri vicini e consanguinei, per gli appartenenti alla stessa cultura e storia nazionale?
L’emergenza, vera o presunta dei migranti, ha aperto, o riaperto, un atavico problema per i cattolici e in generale per i cristiani apostolici. I cristiani, evangelicamente, sono nel mondo ma non del mondo. Devono, quindi, occuparsi delle questioni mondane, politiche, sociali ed economiche, mai dimenticando la provvisorietà della vita e la prospettiva ultima dell’Eternità, sospesa tra salvezza e dannazione.
Ed è qui che si innesta l’apparente contraddizione che se non ben compresa rischia di portare al cortocircuito tra l’amore del prossimo, indipendentemente da chi egli sia, e la prossimità dei legami naturali, quindi politici e sociali, come sono appunto quelli familiari, comunitari, di patria.
Mio prossimo è, senza dubbio, anche lo straniero che incontro per strada, come quello che incontrò il buon samaritano della parabola evangelica, ma prossimo è anche mio figlio, mia moglie, il mio connazionale ai quali sono legato non solo da vincoli spirituali ma anche da naturali legami culturali e naturali. Dunque?
Il cortocircuito sarebbe inevitabile se si dimenticasse la secolare elaborazione teologica in materia. La risposta sta in questo: “Gratiam naturam supponit, non tollit sed perficit”. Ovvero lo Spirito, che è universale ed al di sopra dei vincoli e limiti culturali e naturali, poggia comunque sulla natura, sulle culture, sulle distinte comunità umane. Non le elimina, come auspicano l’umanitarismo ed il globalismo, piuttosto tende a perfezionarle evitandone la chiusura tribalista e bellicista. Il “tribalismo”, infatti, è il primordiale portato del peccato originale, ossia della rottura ontologica della natura umana con lo Spirito di Dio. Il “tribalismo” – il “nazionalismo pagano” –, ossia il rischio di chiusura totale di un gruppo umano contro gli altri, è il rifiuto della Via dello Spirito. Le tribù pellerossa, ad esempio, si facevano guerra per “tradizione” e su questo hanno soffiato gli americani, incentivando gli indiani a scannarsi tra loro, durante l’espansione verso ovest: solo pochi capi tribù, come Sitting Bull, il leggendario Toro Seduto, compresero che bisognava superare il tribalismo, unire la “nazione indiana”, per sperare di opporsi ai bianchi.
Orbene, lo straniero che incontro per strada è mio prossimo sul piano spirituale ma questo non annulla il mio dovere di non privare di nulla mio figlio e la mia famiglia. Non è amore, tantomeno cristiano, quello del padre che toglie il piatto al figlio per darlo allo straniero. Se i piatti sono due allora bisogna soccorrere anche lo straniero. Ma se ne è uno solo le alternative sono solo due: o condividere lo stesso unico piatto, tutti in povertà, o aumentare il numero dei piatti. Per fare questo sono necessari programmi politici ed economici perché la Grazia si serve della natura, quindi anche dell’intelligenza umana se usata a buon fine. Il liberismo globale – ecco il punto!- non aumenta il numero dei piatti, almeno non lo aumenta per tutti ma solo per pochi occidentali al vertice della gerarchia sociale. Non lo aumenta, quindi, neanche per tutti gli occidentali, molti dei quali sono costretti anch’essi ad emigrare.
Il dramma di certi cristiani contemporanei, come Andrea Riccardi, è quello di aver perso di riferimento la distinzione, analogica, tra Spirito e natura e la giusta relazione intercorrente tra essi. Ecco perché essi credendo di mettere in pratica la fede cristiana spesso fanno, o danno l’impressione di fare, soltanto opera umanitaria. Con il rischio diventare strumenti, utili idioti, delle centrali finanziarie globaliste. Papa Francesco incontrando un ipocrita come Macron avrebbe dovuto rimproverargli il comportamento francese, contro i migranti, a Ventimiglia e Bardonecchia. Invece ha dato l’impressione, o ha lasciato che i media diano l’impressione, che la Chiesa benedica le posizioni politiche del “figlioccio” di Jacques Attali e, quindi, l’umanitarismo vuoto, retorico, peloso che nasconde indicibili interessi di egemonia nazionale e di strategia capitalista.
Cause e uso dell’immigrazione
L’immigrazione ha le sue cause prossime nel bisogno del Capitale di provocare concorrenza salariale onde abbassare le tutele dei lavoratori occidentali e le sue cause remote nello sfruttamento delle multinazionali occidentali in terra extra-occidentale: si tratta del cosiddetto “scambio asimmetrico” ossia della divisione internazionale del lavoro che assegna al terzo mondo il ruolo di produttore di materie prime ed, appunto, di riserva di manodopera a basso costo.
Non tutti i migranti migrano per effettive necessità. Ma il fatto che, quindi, tra di essi vi siano moltissimi giovani maschi in cerca di una vita economicamente migliore, e non pertanto in fuga da guerre, non può far dimenticare la presenza, molto alta, anche di donne e bambini. Questo forse è il segno che almeno esse fuggono per davvero da situazioni difficili. La necessità di distinguere tra migranti economici e migranti di guerra è diventato uno dei principali punti all’ordine del giorno dell’agenda politica. Perché l’immigrazione impatta su società, le nostre, prostrate spiritualmente e materialmente.
E’ ormai chiaro che l’immigrazione è incentivata dalle organizzazioni filantropiche, espressioni del potere finanziario globale, come quelle foraggiate dal finanziare e speculatore anglo-ungherese George Soros, amico di tutte le sinistre globaliste ed in rapporti d’affari con tutte le destra liberal-conservatrici.
Alcune centinaia di migliaia di disperati che fuggono da guerra e fame arrivano in un Paese, l’Italia, dove esistono – dati dell’Istat pubblicati di recente – cinque milioni di poveri che non riescono a mettere insieme pranzo e cena. Tra essi molti sono bambini, coetanei di quei figli degli immigrati che le televisioni ci fanno vedere quotidianamente. Mentre sui nostri poveri è calato il silenzio mediatico più totale. Forse perché sarebbe un’accusa all’UE ordoliberista parlarne, forse perché è poco “elegante”, poco radical-chic, pensare ai vicini di casa: meglio filosofare sui lontani che non vediamo, compresi gli immigrati ai quali tanto pensano sempre altri, siano essi lo Stato o le on gol a Caritas. E che, quindi, non ci danno fastidio. Quel che indigna è questa ipocrisia, un umanitarismo retorico e peloso. Su questa grande ipocrisia è stato costruito l’edificio dell’Occidente post-medioevale. I “criminali” che periodicamente si riuniscono a Davos o nelle segrete cerchie del Bildenberg non fanno vittime solo in Africa ma, ormai sempre più, anche da noi. Gli evasori fiscali di Portofino non rubano solo agli immigrati ma anche ai cinque milioni di poveri italici.
Il Grande Criminale resta la finanza apolide, quella che sta davvero distruggendo il mondo: l’Africa come l’Italia e l’Europa. Thomas Stearn Eliot indicava i peccati capitali della modernità in tre cose: Potere, Lussuria ed Usura. Non esiste, probabilmente, migliore requisitoria contro l’Occidente dell’ipocrisia umanitaria e politicamente corretta.
La diatriba intra-ecclesiale
Cristianamente il problema dei migranti comporta la necessità di un maggior approfondimento della questione. Perché, riaffermata la distinzione tra Spirito e natura, resta sempre la parabola del buon samaritano, che è magistero di Cristo in persona, non di Papa Bergoglio.
L’esplodere della questione migranti ha fatto riesplodere anche la diatriba interna alla Chiesa, mai sopitasi del resto, tra conservatori e progressisti, tra tradizionalisti e modernisti (1). Da parte conservatrice si sottolinea, non senza alcune ragioni, che Gesù non ha mai vincolato i suoi fedeli in ordine al modo di aiutare il prossimo, non ha mai stabilito con quali modalità si debba dar da mangiare agli affamati e dar da bere agli assetati. Quindi non è vero che il Vangelo chiede ai cristiani di aprire indiscriminatamente le porte a chiunque ma soltanto di aiutare i bisognosi. L’accusa dei tradizionalisti ai modernisti è quella di leggere il Vangelo alla lettera, in maniera fondamentalista, di voler evitare il grande problema del Cristianesimo che è quello di trovare un punto di conciliazione fra ideale e reale.
I cristiani tradizionalisti e quelli conservatori – ripetiamo: non senza alcune ragioni – ci ricordano che se la Carità non è volontaria essa non è espressione dell’Amore di Dio ma solo una costrizione, una imposizione. Il Vangelo non si può imporre. Non sarebbe vera Carità quella coatta, quella imposta dalla legge. Se, ad esempio, lo Stato costringesse ciascuno a versare parte delle proprie sostanze per sovvenire ai bisognosi, non saremmo di fronte all’attuazione pratica della fede ma soltanto ad un esproprio legalizzato.
L’argomento qui usato, come detto, non è senza alcune ragioni ma è anche un argomento ambiguo, che sembra nascondere farisaicamente la nostra generale – dico “nostra” per dire di tutti, ad iniziare dallo scrivente – incapacità a tirare le estreme conseguenze dalla fede cristiana.
Perché se è vero che Gesù – che non era Che Guevara o Juan Domingo Peròn – non costringeva nessuno ad essere caritatevole, non pretendeva contribuzioni coatte, non ha promesso un “regno di questo mondo” nel quale tutte le ingiustizie sarebbero state eliminate e le ricchezze equamente redistribuite mediante una saggia amministrazione sociale delle stesse, è altrettanto vero che Nostro Signore ha indicato nelle ricchezze di questa mondo l’ostacolo principale alla salvezza, non in questo mondo ma nell’altro ossia nel Suo Regno. Il Regno che Egli, nella risposta a Ponzio Pilato che lo stava interrogando, ha detto appunto “non essere di questo mondo”.
Il giovane ricco, ma pio, se ne andò deluso quando si sentì dire da Cristo che per essere davvero perfetto avrebbe dovuto vendere tutto e dare il ricavato ai poveri. «… difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli … è più facile che una gomena fatta di peli di cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli» (Mt. 19, 23-24).
I cristiani progressisti e modernisti rischiano di mondanizzare, in termini politici e rivoluzionari, l’insegnamento di Gesù – vero! – ma i cristiani tradizionalisti o conservatori dimenticano troppo facilmente la radicalità spirituale ed etica di quell’insegnamento.
Non del mondo ma nel mondo
Il Regno di Cristo non è di questo mondo. Tra le tentazioni del deserto, cui fu sottoposto dall’antico Avversario, c’era quella del Potere su questo mondo ma Cristo lo scacciò attestando che sta scritto «Adora il Signore Dio tuo e a Lui solo rendi culto» (Dt. 6,13). Ossia che il Vero Credente è solo colui che ha piena consapevolezza che solo Dio è l’Assoluto mentre tutto il resto, anche il potere su tutto il mondo, anche la “globalizzazione”, quindi anche tutta la ricchezza mondana, è relativo. Una relatività che non è messa in discussione neanche dalla fame, sulla quale il Tentatore fece leva dopo quaranta giorni di digiuno nel deserto, perché alla sua provocazione, trasformare le pietre in pane, Cristo, che ben avrebbe potuto farlo, ha risposto che «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Dt. 8,3).
Il giovane ricco che se ne andò deluso non aveva compreso che Cristo stava indicando la Via della Salvezza nel trascendimento di questo mondo – pur fatto agli Inizi per accogliere l’uomo in attesa della Incarnazione del Verbo Divino, nella prospettiva escatologica finale della glorificazione trasfigurante della creazione in seno all’accogliente grembo della Gerusalemme Celeste discendente dall’Alto – e che quindi lo spogliarsi delle ricchezze era finalizzato al superamento dell’attuale condizione umana, allo scioglimento di ogni legame terreno, allo svuotamento di sé per consentire alla Luce Taborica di Dio di riempire, non annullare, l’anima umana e salvarla in vista del successivo ricongiungimento al corpo glorioso promesso dal Risorto.
Ora, se questo è il senso metafisico più profondo dell’esortazione da Cristo rivolta al giovane ricco, è anche evidente che da quell’insegnamento, proprio avendone ben presente la direzione ultima che è quella spirituale, discende un’etica e, quindi, anche, in second’ordine, una dottrina politica e sociale, che infatti lungo i secoli la Chiesa ha dedotto, nel magistero sociale dei Papi, dal Vangelo. Perché se l’insegnamento del Vangelo restasse avulso, disincarnato, dalla realtà anche temporale dell’uomo, esso diventerebbe vuoto apofatismo spiritualizzante, al modo di certe gnosi spurie, oppure fariseismo retorico.
Gli uomini non riusciranno mai ad instaurare, da soli, la perfetta giustizia sociale sulla terra. Lo impedisce la ferita ontologica della loro natura umana. L’uomo riesce a fare del bene, quindi anche del bene politico e sociale, solo nella misura in cui cerca ed ottiene l’aiuto di Dio. Il peccato consiste proprio nella superbia dell’autosufficienza. Nel corso dei secoli molte ideologie hanno fatto eco all’antica tentazione cui hanno ceduto, rovinandoci, i nostri Progenitori, Adamo ed Eva. La tentazione che l’uomo possa instaurare senza Dio la giustizia sulla terra, che possa creare il regno di Dio qui e ora e senza di Lui.
I cristiani progressisti e modernisti cedono alla tentazione quando credono di poter instaurare il regno di Dio in terra mediante i soli strumenti della politica e dell’economia. Il loro attivismo sociale li porta al rischio della dispersione spirituale ed al rischio della superbia fino a pensare che sta a loro fare quel che solo Dio può fare. Il mondo è stato creato in “statu viae”, non perfetto ma perfettibile. Non, però, per mano d’uomo, ma solo per Volontà di Dio, che si è incarnato proprio per questo ossia per trasfigurare il mondo in una prospettiva escatologica trascendente.
Se i cristiani progressisti vedono solo le imperfezioni ed i limiti del mondo, le sue ingiustizie, e pensano che esso debba essere ri-creato con l’impegno sociale, d’altro canto, tuttavia, i cristiani tradizionalisti e quelli conservatori, dall’impossibilità per l’uomo di fare quel che spetta solo a Dio traggono il pretesto per non fare niente. Anch’essi, quindi, soggiacciono ad una forma di gnosi spuria che è quella tipica del “quietismo”. Essi implicitamente finiscono su posizioni luterane perché, pur non affermandolo apertamente, sono convinti che non sono le opere a salvare ma che basti la sola fede inoperosa. Quindi le ingiustizie del mondo devono essere tollerate, sopportate, considerate insanabili anche solo parzialmente.
I migranti, secondo il quietismo conservatore, devono calvinisticamente accettare il loro destino di “dannati della terra”. Non devono neanche provare a fuggire alla persecuzione, ai massacri, ai bombardamenti che i virtuosi e ricchi Paesi occidentali praticano sulla loro pelle chiamandoli “operazioni di polizia internazionale”. Devono lasciar fare alle multinazionali, come la Nestlé e la De Boer, ed ai governi corrotti che li depredano in casa loro dei beni essenziali. Essi avranno la loro ricompensa nell’aldilà.
Che essi avranno la loro ricompensa oltremondana è cosa sicura almeno per coloro che avranno praticato l’Amore, persino l’amore verso i propri persecutori. Ma che essi – e non solo essi ma anche noi – non debbano contestare e tentare di cambiare anche qui ed ora quello stato di cose non è affatto scritto nel Vangelo.
Se dovessimo accettare il “radicale quietismo conservatore” dovremmo dedurne che anche Francesco, quello di Assisi e non il Papa regnante, fosse un fondamentalista, un pauperista talebano, visto che egli voleva seguire il Vangelo “sine glossa”, alla lettera. Ma tra l’atteggiamento di Francesco d’Assisi ed il letteralismo esegetico di Lutero non c’è alcuna assimilazione. Francesco è rimasto fedele alla Chiesa, rispettandone il Sacerdozio, l’agostiniano tedesco no. Né quello di Francesco era pauperismo militante – un fenomeno endemico ai suoi tempi – perché egli non imponeva a nessuno di seguirlo nella via della povertà. Francesco aveva compreso perfettamente il senso metafisico e profondo della risposta di Gesù al giovane e pio ricco del Vangelo. Ecco perché egli rincorreva i ladri che lo derubavano per dare loro anche quel che essi non erano riusciti a portar via. Non era una rivendicazione di giustizia sociale, una performance di sociologia sulla cause della povertà che spinge a rubare, un’accusa alle cattive istituzioni della società che rendono cattivi i ladri altrimenti buoni per natura. Era la volontà di mettere in pratica, alla lettera, la povertà evangelica nella consapevolezza che questa è la Via Regale per unirsi misticamente al Dio d’Amore. Dalla quale unione deriva quella trasformazione del cuore che poi benefica il prossimo bisognoso.
Se è vero che l’uomo è incapace a guarire da sé – e per questo il Verbo si è Umanato e Sacrificato in Croce – è altrettanto vero che da ciò non si può desumere la legittimazione di un atteggiamento quietista, dunque protestante. Gesù Cristo, se non ha mai predicato la Rivoluzione in senso politico, ha, però, chiesto a tutti noi una trasformazione del cuore aiutata dalla sua Grazia. Se questa è una rivoluzione non lo scrivente non sa dirlo ma Dio – a parte i miracoli – nell’ordinario opera in tal modo. Ora quando la “teologia”, che è cosa seria ed importante, diventa un pretesto per non cambiare allora si cade nel fariseismo.
La Misericordia non è comunismo e la Chiesa fa il suo mestiere
Quanto qui affermato è dallo scrivente detto – sia chiaro! – innanzitutto a se stesso, consapevole della sua indegnità, dei suoi peccati, della sua incapacità a seguire Cristo come ha fatto l’Assisiate.
Come tutti, credo, anche lo scrivente ha fatto esperienza di molti confratelli che trovano rassicurante, per la loro coscienza, non fare elemosina – sì, chiamiamola così, con il suo nome tradizionale che non indicava qualcosa di indecoroso, come oggi dopo secoli di regia scristianizzante – con il pretesto per il quale i mendicanti ed i barboni sono generalmente affiliati a bande criminali che li usano per estorcere denaro alla “buona gente” e poi ridono alle spalle degli ingenui cristiani, pronti a intenerirsi davanti ad una madre con in braccio un bambino piangente.
Lo scrivente sa benissimo che il bambino mendicante che gli si avvicina è lo strumento di un qualche racket tribale o mafioso ma sa anche che quel bambino – o quella donna con bambini – se la sera non riporta qualcosa viene picchiato. Pertanto una moneta – ed è pochissimo, lo ammette e se ne vergogna – non se la sente di negargliela. Gli si potrebbe obiettare che in tal modo non si sottrae il bambino al suo triste destino e dalle grinfie del racket e che neppure si combatte adeguatamente quest’ultimo. Ma ecco il punto: può lo scrivente farlo da solo? No. Può però lo scrivente aiutare il bambino almeno a non prenderle? Si. Di questo, spera solo di questo, gli sarà chiesto conto, non del racket. Certo, gli si potrebbe ulteriormente obiettare: perché mai allora non prende con se, in casa sua, quel bambino? Forse, lo ammette e se ne vergogna, non ne ha il coraggio, anche nel caso in cui bambino fosse dichiarato adottabile. Vedete quanto è difficile essere coerentemente cristiani?!
Perché – lo dice il Vangelo – la misura con cui saremo giudicati non sono i nostri libri né la nostra cultura ma l’aver dato da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, l’aver visitato i carcerati. La Chiesa, non da oggi, fa esattamente questo e, facendolo, sollecita tutti i cristiani a fare altrettanto. Allo scrivente non pare che questa sia “teologia della liberazione”. O meglio lo è, ma nel senso di Cristo non in quello di Marx.
«Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia» (Mt 5,7). Questo non è comunismo, è una delle beatitudini indicateci da Cristo che riprendeva l’Antico Testamento nel quale è attestato che, nella grandiosa teofania del Sinai, il Signore ha rivelato a Mosè: «Io sono un Dio pietoso, che serba le sue misericordie per mille generazioni» (Es. 34, 6-7).
Se questo fosse cripto-comunismo, pericoloso comunista diventa anche San Giacomo apostolo che nella sua Lettera (5, 1-6) ha scritto: «E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato ed ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza».
Quando il regnante Pontefice, citando sua nonna, dice che “il sudario non ha saccocce”, per dire che nulla di quanto possediamo porteremo con noi nell’aldilà, dice, forse, cose diverse da San Giacomo? O da quanto ha detto Cristo nella parabola del ricco epulone? Allo scrivente non sembra.
Il Papa – e se al posto di Bergoglio vi fossero ancora Ratzinger o Wojtila ma anche Pacelli nulla cambierebbe – fa il suo mestiere richiamando i cristiani alla Carità soprannaturale. Poi, certo, vi sono anche la politica e l’economia ed i cristiani devono tenere conto anche della cose terrene perché pur non essendo del mondo vivono nel mondo. Sant’Agostino, di fronte ai vandali che assediavano la sua Ippona dopo aver devastato Roma, diceva di essi “barbari eppure umani”, dichiarando in tal modo che come uomini quei barbari dovevano essere considerati. Il Papa e la Chiesa sollecitano Misericordia perché è il loro dovere, la consegna ricevuta direttamente da Nostro Signore. Il Quale ci ha insegnato che l’unica vera rivoluzione, capace di sortire effetti eterni, è quella della conversione del cuore, in interiore homine. La rivoluzione che, nei secoli, hanno praticato i santi, i quali non facevano rivoluzioni politiche ma operavano verso il prossimo per amore del Signore.
Il Cristianesimo non è un movimento politico che deve realizzare un programma. San Paolo rimandò lo schiavo fuggiasco al suo padrone raccomandando a quest’ultimo, che si professava cristiano, di trattare il suo schiavo con carità. San Paolo non era però neanche un “quietista” e si aspettava dal padrone dello schiavo la conversione del cuore. Si può per questo dire, come alcuni hanno detto, che San Paolo fosse allineato con la concezione schiavista del suo tempo? San Paolo non voleva certo difendere o consolidare l’istituto della schiavitù, addomesticando l’istinto ribelle degli schiavi, ma soltanto era cosciente che solo il cambiamento dei cuori, nell’Amore di Dio, avrebbe alla fine contribuito alla scomparsa graduale della schiavitù e che dunque non era suo compito fare marce di protesta o organizzare ribellioni contro l’autorità romana. Madre Teresa di Calcutta, esercitando la Carità, ha fatto in termini rivoluzionari molto più di Che Guevara, nella sua pur rispettabile militanza ideologia. Lo ha riconosciuto lo stesso Fidel Castro quando, qualche anno fa, ha incontrato Benedetto XVI. Quindi il Papa e la Chiesa si muovono su questo piano e non su quello politico né in senso rivoluzionario, come credono i critici di destra, né in senso filo-capitalista, come credono i critici di sinistra.
Evitare l’uno e l’altro errore
Detto questo, è poi ovvio che, per noi che non siamo santi come Madre Teresa, resta in campo anche l’opzione politica.
La posizione realistica dei conservatori, i quali contestano accoglienze indiscriminate, tocca un aspetto della questione che anche i progressisti dovrebbero aver a cuore se non fosse che il loro progressismo è soltanto un vezzo radical-chic strumentale alle strategie del grande Capitale transnazionale. Le implicazioni politiche ed economiche di una indiscriminata accoglienza verso i migranti sono tali da compromettere seriamente la stabilità sociale nei Paesi che praticano una apertura senza condizioni.
Le migrazioni se non pilotate sono, certo, agevolate dagli Organismi Transnazionali, dal FMI alla Banca Mondiale, interessati a sostenere il Pil occidentale mediante l’incremento demografico sostitutivo portato dai migranti. I quali, però, va detto, non possono essere considerati i responsabili del disastro demografico europeo ed occidentale che è soltanto l’esito di secoli di progressiva decristianizzazione. Le responsabilità, quindi, anche i cristiani conservatori, dovrebbero cercarle in casa, senza accodarsi ai “nuovi crociati occidentali” che, “atei devoti”, innalzano la Croce senza mai aver assistito in vita loro una Santa Messa.
Del resto che una migrazione incontrollata sia un favore al Grande Capitale era la convinzione di un grande economista – il padre della scienza economica italiana del dopoguerra – di tendenze certamente né conservatrici, né reazionarie, né precipuamente confessionali (per quanto qualcuno abbia definito il suo magistero economico un “cristianesimo laico”). Parliamo di Federico Caffè, conterraneo dello scrivente. Caffè, a proposito dell’immigrazione, consapevole dell’uso strumentale che di essa fa il Capitale per mantenere bassi i salari, diceva: «La conseguenza nel voler mantenere aperte le frontiere a tutti i costi (e gli argomenti retorici di certo non mancano) è quella di far ricadere sui lavoratori ogni impegno di accrescere la competitività sul piano internazionale».
Nella prospettiva delle conseguenze economiche dell’immigrazione, nessuno dunque ha il diritto di fare il generoso ipotecando il futuro dei figli. L’arrivo incontrollato dei migranti crea inevitabilmente una concorrenza al ribasso nei confronti della mano d’opera europea. I migranti sono disposti a lavorare per qualsiasi salario. In questo modo, benché involontariamente, essi fanno dumping salariale ai lavoratori autoctoni permettendo al Capitale di ricattare questi ultimi. La disponibilità dei migranti a lavorare per qualsiasi cifra comporta minori salari e peggioramento delle condizioni di vita per la working class europea, già allo stremo per la crisi iniziata dal 2007. La “guerra tra poveri” non si risolve neanche con proposte come il salario minimo garantito perché, in un contesto di globalizzazione e quindi di libertà per le imprese di delocalizzare, il Capitale ha sempre il coltello dalla parte del manico e potrà comunque imporre che il minimo salariale legale tenda al basso piuttosto che verso l’alto.
Lo scrivente ha letto qualcosa di san Tommaso d’Aquino. Ora, però, per alcuni, e gli sembra che i cristiani tradizionalisti o conservatori possano essere annoverati tra questi o comunque vicini a questi, il Cristianesimo coincide solo con la teologia di san Tommaso d’Aquino, il quale è senza dubbio uno dei maggiori teologi della Cristianità ma non è né l’unico né è dogmatica ogni sua parola (2). Nella Chiesa esistono diverse teologie non tomiste ma egualmente accreditate dal Magistero. Anche precedenti Tommaso.
Il punto per discriminare se un pensiero teologico è cristiano o meno è quello della sua compatibilità con la Fede che viene prima della stessa teologia. La Chiesa ha sempre usato questo metodo per discernere ed infatti ha sempre ammesso il pluralismo teologico ma a condizione che le diverse scuole fossero fondate sul dogma di fede. Ora, Tommaso d’Aquino ha avuto il merito di aver pensato l’aristotelismo alla luce della Fede facendone nascere una feconda scuola teologica. Ma, prima di lui, Agostino aveva fatto la stessa cosa con Platone ed ancor prima i Padri della Chiesa si erano cimentati, anche criticamente, con il neoplatonismo.
Nei teologi bisogna tenere sempre fermo quanto deriva eternamente dalla fede mentre bisogna saper relativizzare quanto in essi è legato al loro tempo ed al sistema culturale nel e con il quale hanno lavorato. Ad esempio, Agostino e Tommaso credevano scientificamente accreditata la teoria tolemaica. Noi sappiamo che non è fondata. Quindi di essi dobbiamo prendere quanto è legato all’Eterno e non certo quanto è troppo strettamente connesso con questioni filosofiche e culturali del loro tempo.
Per quanto riguarda in particolare l’ordine della Carità, Tommaso d’Aquino ha il merito di aver tenuto insieme, senza contrapposizioni, soprannaturale e naturale (“Gratia naturam supponit, non tollit sed perficit”). In tal modo egli sostiene, giustamente, che se la natura non accoglie la Grazia essa non raggiunge la perfezione per la quale è stata creata da Dio ed, al tempo stesso, che la Grazia non può far a meno della natura sulla quale opera e che quindi non elimina (“non tollit”). I luterani, influenzati dall’apofatismo neognostico riemerso con l’umanesimo quattrocentesco, hanno fatto esattamente questo errore: hanno svalutato del tutto la natura e spiritualizzato, ossia disincarnato, la fede.
Tuttavia, non in Tommaso ma in tanti suoi succedanei, compresi i volgarizzatori della neo-tomistica otto-novecentesca (che è altra cosa dai suoi volgarizzamenti), ha finito per prevalere una sorta di razionalismo teologico la cui tentazione è quella di racchiudere il Mistero Infinito di Dio, che pertanto supera la ragione umana, in formulette e sillogismi (si tratta dell’errore contrario a quello di tanta teologia moderna che, per reazione a detto razionalismo teologico, abbandona completamente la ragione per sconfinare in una mistica spuria del tutto apofatica).
Ora, Tommaso ha ragione quando afferma che nella Carità vi è un ordine naturale per cui il padre di famiglia deve prima provvedere ai figli e poi, solo dopo, anche agli estranei, per cui bisogna beneficare prima il connazionale e poi lo straniero. Ma, attenzione!, questa norma, che mette in evidenza che ordinariamente la Grazia opera sulla natura trasformandola nel senso della carità, e quindi opera per successive approssimazioni, non può ritenersi assoluta e tale da “catturare” completamente, nel proprio ambito meramente etico-giuridico, l’Amore di Dio, pretendendo di rinchiuderlo nella norma stessa al modo di un codicismo asfissiante. Ossia pretendendo di costringere Dio ad operare sempre nel rispetto della natura e mai al di fuori di essa. Pretendere questo, come pretendono i (falsi) tradizionalisti “talebani”, significa dire a Dio che Egli non può fare miracoli, che non può sospendere le leggi di natura!
Orbene, se è vero che la Carità, anche per ordine naturale, deve rivolgersi al “prossimo” e che, ordinariamente il prossimo sono i nostri familiari e connazionali, lo scrivente si chiede e vi chiede come allora Tommaso spiegherebbe – o meglio, come la spiegano i ripetitori pedissequi, quindi anche sovente gli snaturatori, del suo pensiero (perché, in realtà, Tommaso la spiegava, del tutto coerentemente con la fede, nel senso della Carità soprannaturale che non contraddice l’ordine di natura ma lo supera infinitamente) – la parabola del buon Samaritano nella quale Gesù Cristo ci ha insegnato a guardare oltre l’appartenenza familiare e nazionale come invece facevano e tuttora fanno gli ebrei (ed infatti quella parabola scandalizzò le orecchie farisaiche che l’ascoltarono)?
Il “prossimo” letteralmente è chi ci sta vicino non solo per legami di storia, cultura e di sangue ma anche per vicinanza spazio-temporale e quindi anche chiunque incontriamo sulla strada. Chiunque ci tende la mano benché non lo conosciamo. Questo insegnamento è già presente nel Vecchio Testamento dove è ripetuto in continuazione – proprio nel bel mezzo delle lotte feroci di Israele, unico depositario del Monoteismo, con i popoli pagani territorialmente vicini – che a Dio è gradito chi soccorre lo straniero, la vedova e l’orfano (e come tali, soccorritori degli indifesi – colui che è in terra straniera è per definizione un “indifeso” –, della vedova e dell’orfano, erano “creati” i cavalieri medioevali). Cristo ha poi portato a compimento e perfezione tale insegnamento veterotestamentario già tendenzialmente universale.
Se Francesco d’Assisi avesse avuto una idea eccessivamente moralista e legalista della Carità non sarebbe andato dal sultano per provare a convertirlo senza armi, in modo – questo era l’altro dei suoi obiettivi – da sollecitare i suoi fratelli “cruce signati” a provare la via dell’accordo diplomatico. Esattamente quella via che qualche decennio dopo, anche grazie al suo esempio, seguì Federico II di Svevia riconquistando Gerusalemme alla Cristianità senza combattere (benché il Papa dell’epoca, in questo dimostratosi un “talebano”, non abbia affatto gradito l’accordo tra Federico e Malik al Kamil).
Ora – sia chiaro! – bisogna stare attenti anche all’opposta deriva che tenta oggi tanti cristiani e che è quella di negare l’esistenza di un ordine di natura nell’espressione della Carità e, quindi, di ritenere che l’Amore di Dio sia qualcosa di A-Nomos, senza distinzioni e senza aggettivi. Qui sta la radice dell’umanitarismo il cui esito è il puntuale fallimento, come anche la vicenda dei migranti sta dimostrando. Un “Amore Anomico” non è cristiano ma piuttosto luciferino perché Lucifero è il Sovvertitore di ogni ordine, sovvertitore del Kosmos, dell’Ordine che Dio ha impresso alla Sua creazione. Insomma, è necessario evitare, navigando tra Scilla e Cariddi, tanto il “talebanismo” di tanti (falsi) tradizionalisti, troppo sensibile al richiamo pagano del possesso della terra, con le sue ricchezze, al richiamo del “suolo e del sangue” – per un cristiano l’amore alla Patria è senza dubbio una meritevole forma dell’Amore di Dio ma la Patria rimane sempre una mondanità e quindi qualcosa di relativo e mai di assoluto –, quanto l’anarchismo, spesso globalista in senso terzomondista, di tanti cattolici ecopacifisti, arcobaleno, inclusivi ed accoglienti ma, sovente, a spese e sacrificio altrui, mai loro.
Luigi Copertino
NOTE
- Chi tra i cosiddetti tradizionalisti pensa che le diatribe intra-ecclesiali siano solo una cosa odierna, magari un portato dello “scellerato” Vaticano II, è pregato di andare a studiare un po’ di storia ecclesiale: si accorgerà che di diatribe interne la Chiesa ha sempre vissuto e che perfino gli apostoli, anche alla presenza del Signore, litigavano fra loro.
- Senza contare, poi, il fatto che le fonti di Tommaso, più e prima di Aristotele, sono i Padri, Agostino, lo Pseudo-Dionigi e quindi, tramite essi, quel retaggio platonico che lui riuscì a fondere con quello aristotelico, elaborando qualcosa di diverso sia dal platonismo che dall’aristotelismo tout court.