L’INCOMPATIBILITA’ TRA CATTOLICESIMO E CAPITALISMO
Lo “spirito” del sistema
Jacques Maritain, nel suo Umanesimo integrale, opera teologicamente controversa ma non priva di elementi di eredità tomista, scrive: «Come rilevava ancora di recente Amintore Fanfani, il capitalismo è esso stesso prima di tutto uno spirito».
Il riferimento di Maritain è ad un’opera del 1934 (il libro del francese è del 1936) – Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo (1) – scritta da un giovane cattedratico di storia dell’economia nell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Amintore Fanfani, erede della tradizione tonoliana del cattolicesimo sociale di matrice anti-rivoluzionaria ossia anti-liberale, in quegli anni simpatizzante, come del resto Papa Pio XI, sulla scia per l’appunto del lascito spirituale e culturale di Giuseppe Toniolo (e di altri, ad esempio La Tour du Pin), per l’esperimento corporativista che in Italia ed altrove si andava all’epoca tentando.
Noto ai più come ministro democristiano del dopoguerra, pochi conoscono il Fanfani storico dell’economia che negli anni precedenti la guerra, insieme ad una intera generazione di cattolici sociali di matrice “tradizionalista”, sperò, da estimatore del corporativismo cattolico, in una correzione di quello, piuttosto hegeliano e statolatrico, realizzato dal regime fascista, perché in esso – opportunamente riformato nel senso dell’autonomia associativa dei sindacati all’interno delle corporazioni di Stato e di un maggior favore verso il lavoro rispetto al capitale (una prospettiva, questa, del resto condivisa con la corrente più sociale del fascismo rappresentata da Giuseppe Bottai) – intravvedeva la concretizzazione degli auspici della Dottrina Sociale Cattolica.
In molti hanno visto negli indirizzi della politica di Fanfani nel dopoguerra – ad iniziare dall’articolo 1 della vigente Costituzione (“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”) che è stato da lui elaborato – il riemergere, nel nuovo clima postfascista, degli ideali corporativi dei quali egli era erede ed ai quali, sulla scia del cattolicesimo sociale di eredità tonoliana, si era formato.
Il capitalismo, per Fanfani, nella sua essenza profonda non è innanzitutto un sistema economico, una metodologia di produzione e scambio, perché esso è prima di tutto uno “spirito”, una cultura, un modo di pensare e di agire. Che, contrariamente a quanto sostenne Max Weber, non nasce con la Riforma protestante ma molto prima ed esattamente al momento della crisi, tra XIV e XV secolo, del mondo spirituale ed etico del Cattolicesimo. Una crisi che si manifestò con l’inizio del tramonto dell’Universalismo medioevale, dei modi di vita comunitari, dell’economia vincolistica e delle solidarietà cetuali e che fu accompagnata dal riemergere di correnti spirituali magico-ermetiche ben presto trionfanti nell’umanesimo.
Lo spirito del capitalismo si identifica con l’individualismo che, contrariamente a quanto sostengono studiosi americani sia protestanti che cattolico-liberali, da Rodney Stark a Michael Novak, non sorge come magnifico effetto del Cristianesimo ma, al contrario, come contestazione e ribellione umanistica contro la sua forma cattolica e l’etica sociale comunitaria che Esso sostiene. Il protestantesimo, i cui iniziatori erano di per sé sfavorevoli all’arricchimento sfrenato quanto i cattolici, ha piuttosto favorito l’espandersi dello spirito individualista del capitalismo, già manifestatosi. Il protestantesimo favorì il già nato “spirito capitalistico” attraverso la frattura che la sua teologia pone tra Dio e mondo, tra Spirito e natura. Questa frattura ha ingenerato, in assenza dell’analogia entis sulla quale si fonda la teologia cattolica, l’emancipazione della società, quindi anche dell’economia, dall’etica cristiana , da ogni guida spirituale, sacrale, e da ogni freno morale. Quindi, al di là ed oltre quelle che erano le personali asserzioni contro la ricchezza e persino contro la pratica del prestito ad interesse espresse da Lutero, Calvino e Zwingli, l’interpretazione protestante della “Lettera ai Romani” di san Paolo, rompendo con la Tradizione, affermando il sola fides toglieva alle opere ogni importanza ai fini della salvezza, spingeva inevitabilmente l’attività economica verso il mero dominio naturalistico, a-morale, e quindi favoriva lo spirito del capitalismo, la ricerca mondana dello sfrenato arricchimento individualistico, che, però era già operante da almeno un secolo nel travaglio della crisi religiosa della Cristianità tardo medioevale.
Quando, infatti, sulla scena storica compaiono i riformatori era già venuta meno la subordinazione, o stava affermandosi impetuosamente l’insubordinazione, del produrre e del commerciare ai fini superiori, spirituali, della salvezza: una rivolta nata in seno alla Cristianità tre-quattrocentesca ma, appunto, come rivolta antitradizionale che contestava, anche quando inizialmente cercava di dissimularsi dietro le apparenti forme di un esteriore rispetto, tanto le restrizioni vincolistiche e corporative all’individualismo, allo spirito individualistico di intrapresa mosso dal desiderio di arricchimento e di potere, sia i precetti economici della Chiesa, contrari non al profitto da lavoro in sé – oggi diremmo economia reale – quanto piuttosto all’interesse da uso del denaro per accumulazione di denaro – oggi diremmo economia finanziaria –, pratica senza della quale non sarebbe stata possibile quella che più tardi Marx avrebbe chiamata l’“accumulazione originaria del capitale”.
La visione cattolica medioevale dell’economia, contestata dall’insorgente individualismo tardo-medioevale, concepiva l’attività economica come un mezzo subordinato ad un più alto fine spirituale. L’economia nel mondo tradizionale medioevale aveva la sola funzione di permettere il sostentamento mondano della persona e della sua comunità di vita, per il soddisfacimento dei bisogni umani primari, vitali, e solo di essi, in vista e nell’attesa dell’unico vero e sommo bene oltremondano, la visione di Dio, cui tutti gli sforzi, anche quelli economici, comprese le opere comunitarie come la costruzione di magnifiche cattedrali che richiedevano non poche risorse materiali, erano massimamente indirizzati. Dunque non conflitto od opposizione ma rapporto gerarchico di mezzo a fine, tra economia e fede, che spiega perché mai in quei secoli le lettere di cambio recavano formule del tipo “Al nome di Dio, pagherete la somma di …” e perché mai parte dei proventi economici, sotto la pressione spirituale ed etica della comunità cristiana, erano destinati, nella forma caritatevole del dono, al sostentamento di opere pie, ospedali, orfanotrofi, mense per i poveri, chiese, scuole, ospizi et similia.
Il primato, nel Cattolicesimo, è dato alla vita spirituale rispetto a quella mondana. Lo spirito capitalista, invece, assegna il primato all’attività nel mondo, quindi all’interesse individuale il cui indice è il successo economico, ed all’arricchimento, mentre la vita spirituale o è minimizzata oppure del tutto negata. Il relativismo etico delle società liberali – a dispetto delle preoccupazioni, alquanto ipocrite, che esso suscita in tanti liberali e conservatori – è nient’altro che l’esito della logica interna del capitalismo. Laddove la fede cristiana ha al suo centro il rapporto tra Dio ed uomo dal quale discende il giusto rapporto tra gli uomini, la logica del capitalismo, nella negazione, ancorché in certi casi “deista”, di Dio, è fondata sul primato autocentrico dell’io a discapito concorrenziale del prossimo.
Il “vangelo” del capitalismo
Lungo i secoli, lo spirito del capitalismo si è dotato di un suo “vangelo”. Si tratta della teoria economica classica. Elaborata tra XVIII e XIX secolo essa è stata, poi, riformulata nel XX secolo nella versione detta neoclassica ed in quella monetarista. Questa teoria, benché ripetutamente smentita dai fatti, presume di avere la chiave universale per la comprensione dell’economia. Gli economisti (neo)classici non si sono mai data pena di domandarsi se tra essa e la concezione cristiana dell’uomo e del mondo c’è compatibilità. Hayek e Mises semplicemente non assegnavano alla questione religiosa alcun rilievo nell’analisi economica. Per essi il mercato è immune da qualsiasi presupposto riconducibile al contesto religioso e quindi di civiltà. Sfere separate e da tenere tali respingendo ogni, nella loro visuale, illegittima inferenza dell’una nell’altra e viceversa.
Tale approccio cela l’accettazione dell’idea che il mercato sia un tutto onnicomprensivo, rispetto al quale ogni altra dimensione dell’essere è sovrastrutturale, e che pertanto esso sia regolato da leggi naturali ovvero da un ordine etico-normativo immanente ritenuto sempre e comunque benefico e pertanto intangibile.
I “cattolici per il mercato”, ordoliberali o neoliberisti che siano, assumono questa separazione come un dato di fatto dal quale partire. Per essi il cristiano potrà adempiere i suoi doveri verso i poveri solo dopo essersi adeguati alle “leggi naturali dell’economia”. Solo dopo essersi arricchiti, seguendo quelle leggi, i cristiani potranno anche aiutare i poveri e così adempiere all’etica cristiana. Poco importa se, per arricchirsi, il cristiano, obbedendo al presunto ordine naturale dell’economia, deve porsi in concorrenza, invece che cooperare, con il prossimo ovvero perseguire amoralisticamente l’interesse individuale ed autocentrico. Machiavellicamente il fine giustifica il mezzo perché solo in tal modo, per l’imperscrutabile volontà della mano invisibile, alla fine il cristiano potrà venire incontro al prossimo dato che il mercato, libero di agire senza vincoli, genera ricchezza e felicità universali.
In realtà, non sono solo queste pur basilare osservazioni etiche a comportare seri problemi per il cristiano che vuole sposare la teoria economica (neo)classica perché essa presenta evidenti difficoltà e contraddizioni anche sul piano teoretico. Essa si riduce in sostanza ad una serie di tautologie senza alcun fondamento empirico né riprova sul piano dell’esperienza. Un piano sul quale piuttosto trova ampie smentite storiche. Questa teoria, in altri termini, è pura astrazione, un tentativo di sistematizzare analiticamente quello spirito individualista e contrattualista dal quale è nato il capitalismo.
«L’economia ortodossa – scrive Charles M.A. Clark –, si dice, fornisce strumenti molto efficaci; essa è convinta di spiegare tutto, ma in tal modo non spiega nulla. (…). La teoria economica … è la “teologia” del capitalismo; è un “Vangelo competitivo”, per utilizzare un’espressione del saggio di Robert Simona, rispetto a quello della cristianità. (…). Entrambi i sistemi di pensiero, il cristianesimo e la teoria economica, sono in fonda basati sulla fede e sulla ragione; ma la fede e la ragione proprie dei Vangeli e del pensiero cristiano (fin tanto che una parte di quest’ultimo non si è messa a servire la causa del capitalismo) si differenziano radicalmente dalla “fede” nella “mano invisibile” e dalla “ragione” che abita la logica del mercato. Il problema che sorge quando si vuole ridurre l’analisi al dato tecnico è che nel quadro teorico vengono sacrificate le finalità essenziali e ultime dei due sistemi di pensiero. Perché essi differiscono non solo nei presupposti sui quali si fondano, ma anche negli scopi cui tendono. Per il cristianesimo il fine è la salvezza, condurre gli uomini il più possibile vicino a Dio; viceversa per la teoria economica e per il capitalismo l’obiettivo è la produzione della ricchezza e il godimento dell’utile, entrambe azioni che, nella prospettiva cristiana, qualora vengano elevate a fine dell’attività umana, diventano barriere tali da impedire il contatto con Dio (come emerge con chiarezza sia dal Vecchio sia dal Nuovo Testamento)» (2).
Michael Novak e gli altri “cattolici per il mercato” si sono trovati esattamente di fronte a questa evidente, ed in ultimo insormontabile difficoltà, ossia l’incompatibilità tra Cristianesimo e spirito del capitalismo. Ecco perché essi hanno, vanamente, tentato di rendere la fede cristiana – a suo discapito, però – meno difforme dal capitalismo e di ridurre la contraddizione tra Vangelo e Mercato.
Il punto dolente sta, però, nel fatto che se per gli economisti ortodossi, la cui teoria economica è accettata dai teologi del capitalismo, non ha alcun rilievo la dimensione spirituale ed etica né la Verità, interessati come sono soltanto al dato tecnico oltretutto trattato in modo astratto e senza realismo storico, per chi fa professione di fede in Cristo dimensione spirituale, etica e veritativa non può essere né trascurata né posta al secondo o terzo posto o negata. Ed è questo che rende maldestro il tentativo dei teo-capitalisti di conciliare la difesa del capitalismo con la teologia cristiana. I “cattolici per il mercato” sono un esito del clima post-conciliare. Un cima nel quale molti nella Chiesa hanno creduto possibile la conciliazione della Fede con il mondo moderno nato dalla rivolta umanistica del XV secolo. In tal senso essi sono la versione liberale dello stesso percorso di conciliazione che altri cattolici postconciliari hanno tentato con il comunismo. Catto-liberalismo e catto-comunismo quali, apparentemente diverse ma sostanzialmente identiche, modalità di abbraccio del mondo a discapito della Fede. Guardate le cose sotto questo profilo si spiega, ad esempio, il percorso di un Michael Novak dalla sinistra liberal alla destra reaganiana oppure l’arruolamento “cattolico” di ex pastori protestanti come Richard Neuhaus, rimasto sostanzialmente luterano anche dopo la formale conversione al Cattolicesimo.
Nel loro tentativo di conciliare fede cristiana e capitalismo, i teologi del mercato hanno finito per accostarsi ai libertarians e per sposare la Scuola Austriaca di Economia, intransigente nella perorazione delle virtù del capitalismo ed inflessibile nell’uso dell’individualismo metodologico in economia. Come diremo fra breve, alla radice di tale orientamento vi è il soggettivismo gnoseologico di Carl Menger, formatosi nel clima del liberalismo massonico dell’ottocento austriaco. L’Austria asburgica, infatti, pur essendo sempre rimasta un fedele baluardo del Cattolicesimo, non è stata esente, tra XVII e XIX secolo – si pensi soltanto a Rodolfo II l’imperatore “alchimista”, in stretti rapporti con il rabbino Loew creatore, secondo la leggenda, del “Golem”, o a Giuseppe II l’imperatore illuminista-giurisdizionalista – dagli influssi delle logge, appartenenti al filone esoterico-conservatore della massoneria piuttosto che a quello naturalistico-rivoluzionario sul modello giacobino francese.
Individuo o Persona?
Il cavallo di Troia per introdurre, nella cittadella della filosofia politica e sociale del Cattolicesimo, l’individualismo, ossia il fanfaniano “spirito del capitalismo”, è stata la confusione, appositamente indotta, tra il concetto liberale di “individuo” e quello cattolico di “persona”. Come annota ancora Charles M. A. Clark, i teologi del mercato hanno cooptato le espressioni ma non il significato, vero ed autentico, del personalismo cattolico. In altri termini, dietro un linguaggio esteriormente personalista essi introducono i concetti propri dell’individualismo che, al contrario, i teologi moralisti hanno sempre rigettato e combattuto, molto prima che esso si imponesse con l’Illuminismo.
Laddove il personalismo cattolico concepisce l’uomo, creatura politica, per natura socialmente relato, sicché nella filosofia politica cattolica l’idea del “bene comune” assume un posto principe ed un ruolo chiave, la Scuola Austrica di Economia rigetta qualsiasi propensione dell’uomo alla socialità naturale e pertanto nega ogni rilievo all’affermazione di un bene condiviso. Nella prospettiva “austriaca” l’uomo è homo oeconomicus determinato e definito esclusivamente dalla propria astratta dimensione individualistica per la quale, nei rapporti con i simili, conosce soltanto le forme contrattuali intese a regolare gli interessi e le utilità individuali mediante accordi di volontà di per sé portate, se non ci fosse il “contratto sociale”, a prevalere le une sulle altre. C’è molto di Hobbes, ma anche al rovescio qualcosa di Rousseau, nel contrattualismo utilitarista austriaco. Negata la possibilità stessa del bene comune e la naturalità del vivere in comunità dell’uomo, gli economisti austriaci negano, coerentemente, l’esistenza stessa dell’idea di comunità o società, che nella loro prospettiva altro non sarebbe che una finzione concettuale, un mero nominalismo filosofico che non conosce alcun “universale” (3). Quando la Thatcher affermava che “non esiste la società ma soltanto gli individui” non faceva altro che riprendere un giudizio già espresso, in ambito “austriaco”, da Von Hayek.
«La versione estrema dell’antropologia dell’uomo economico razionale – nota giustamente ancora Charles M.A. Clark –, che ha avuto un ruolo importante nella elaborazione della teoria neoclassica, deriva da Carl Menger, il fondatore della scuola austrica di economia. Per gli economisti della scuola austriaca, gli effetti determinati dal mercato sono per definizione morali ed etici, in quanto il mercato è l’unico riferimento che abbia valore. Riesce difficile immaginare una branca della riflessione economica che più della scuola austrica sia incompatibile col cristianesimo, incluso il marxismo. Se l’Acton Institute (ossa Michael Novak, nda) cerca di difendere il capitalismo, la scuola austriaca è perfetta allo scopo. Ma il cristiano, se è tale, deve guardare altrove» (4).
Ebbene, dal momento che come cristiani, cattolici, dobbiamo guardare altrove, diventa a questo punto inevitabile una ricostruzione storica dello scenario nel quale la teoria neoclassica di Menger emerse. A questo scopo è però preliminarmente necessario comprendere, sempre sotto il profilo storico, le dinamiche della trasformazione spirituale, antropologica e sociale intervenuta nel passaggio chiave dall’età premoderna alla Rivoluzione Industriale. Innanzitutto la questione dell’accumulazione del capitale ovvero della “concretizzazione”, in mezzi di produzione o beni capitali, dei surplus finanziari per l’appunto accumulatisi nella precedente età agricolo-commerciale.
Sebbene anche i mercanti, in età premoderna, agissero organizzati in corporazioni, e quindi in regime vincolistico, l’attività mercantile, più delle altre, è stata quella che ha favorito il formarsi ed il consolidarsi dell’individualismo, ovvero dello “spirito del capitalismo”, e quindi l’accumularsi dei surplus finanziari e monetari, in particolare mediante l’attività creditizia mai del tutto distintasi, almeno fino al XVI secolo, dall’attività commerciale vera e propria. L’espansione degli scambi commerciali e delle tecniche finanziarie e creditizie, a partire dalla lettera di cambio – che solo nel XVII secolo, quando fu assunta dallo Stato come unico mezzo di pagamento delle tasse, divenne moneta legale, mentre in precedenza era soltanto uno strumento di pagamento non monetario tra privati –, consentì il formarsi di quelle enormi fortune mobiliari le quali non appena si profilarono gli avanzamenti tecnologici, che avrebbero introdotto alla cosiddetta “Rivoluzione industriale”, iniziarono a trovare immobilizzazione non più nella terra, e nelle sontuose ville dell’aristocrazia, ma nelle nuove organizzazioni produttive fondate sulla divisione razionale del lavoro, sulla riduzione degli artigiani ad operai salariati e sulla massimizzazione dei profitti ottenuta dalla minimizzazione dei costi ad iniziare da quello del lavoro salariato.
Effettueremo la ricostruzione del retroterra storico-filosofico del mengerismo con l’aiuto delle riflessioni storiche ed etiche, delle quali siamo ampiamenti debitori, di Luigi Pasinetti, docente di economia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore che nei suoi studi è sempre molto attento alle relazioni tra economia ed etica. Di fede cattolica, Pasinetti è economista di indirizzo keynesiano. Il testo pasinettiano che seguiremo, attualmente reperibile sul web, costituì la sua relazione in un simposio organizzato dal Vicariato di Roma (5).
La Formazione del capitale
Alla fine del diciottesimo secolo – dopo che per millenni l’umanità è vissuta di economia agricola, artigianale e commerciale – compare sulla scena storica un nuovo fattore della produzione ossia il capitale. Con questo termine, in genere, si fa riferimento, in tal senso lo usava anche Marx, al capitale fisico ossia all’insieme dei beni materiali che, insieme al lavoro e alle risorse naturali, sono impiegati come strumenti per produrre sia beni di consumo sia altri beni capitali. In tal senso la parola “capitale” indica i “mezzi di produzione”, intorno alla proprietà dei quali si è poi dipanata la querelle tra liberisti e marxisti.
La trasformazione capitalistica della produzione si è imposta solo grazie alla diffusione delle macchine non più azionate da energia umana o animale ma da una serie di nuove fonti energetiche. E’ innegabile che lo sviluppo tecnologico ha comportato un enorme aumento della produzione ma al contempo la “Rivoluzione industriale” ha innescato processi di accumulazione di ricchezza e potere a vantaggio esclusivo dei soli capitalisti, o imprenditori, spesso originando sperequazioni sociali molto più brutali e dure di quelle del tempo antico quando il regime vincolistico, gli usi civici, l’etica cristiana, l’opera di carità della Chiesa e lo stesso paternalismo dei sovrani e dei ceti egemoni, a ciò obbligati dallo spirito cristiano diffuso, facevano in modo di lenire e rendere meno dura la condizione della maggior parte dell’umanità in un mondo povero di per sé o, se si vuole, fondato su una economia di sussistenza. L’industrializzazione, in altri termini, non è stata accompagnata da un’equa o ragionevole distribuzione dei benefici che da essa derivavano.
L’aumento della ricchezza fu accaparrata da ristretti gruppi sociali di capitalisti. L’emergere della fabbrica comportò un cambiamento radicale non solo nei processi produttivi ma anche nelle relazioni sociali della comunità financo all’interno delle famiglie. Questo marcava la profonda differenza con la precedente “fase del commercio” che rimaneva ancora comunque vincolata, per quanto la mercatura fosse scalpitante, al regime comunitario-vincolista. L’artigiano ridotto ad operaio, ossia a “proletario”, non possedeva più nulla, non era più padrone dei mezzi di produzione, ossia della bottega, ed era sovente costretto a separarsi dal luogo di lavoro che fino a quel momento era coinciso, per lo più, con il luogo di residenza della sua famiglia. Ora, il suo lavoro non seguiva più il ritmo naturale del sole, delle feste comandate ossia religiose o di quelle comunitarie, ma aveva l’obbligo di uscir di casa per recarsi in fabbrica secondo orari rigidamente predeterminati ed in posizione subordinata, sottoposto a turni di lavoro pesantemente lunghi ed alla concorrenza di mercato che manteneva i salari ai limiti della sussistenza. La frattura sociale ottocentesca tra due classi sociali distinte dei capitalisti e dei lavoratori – ed il conseguente conflitto fra “Capitale e Lavoro”, nasce qui. Questo era lo scenario storico nel quale Marx scrisse “Das Kapital” e nel quale tanto i socialisti umanitari, da Saint Simon a Comte, da Fourier a Proudhon, quanto i cattolici, sia quelli “reazionari” che quelli “intransigenti-popolari”, elaborarono le loro critiche, durissime, all’avanzante capitalismo nonché le diverse soluzioni da loro proposte.
«Per l’operare di questo processo – scrive Pasinetti – , le economie di libero scambio si sono di fatto trasformate in economie capitalistiche (nel senso di produzione con lavoro e beni strumentali). C’è voluto del tempo per cogliere le implicazioni istituzionali davvero sconvolgenti di questi cambiamenti. Ho altrove io stesso dimostrato, in termini analitici, il diverso impatto, sul sistema economico considerato nel suo insieme, che i beni capitali hanno rispetto ai beni di consumo. Molto brevemente, nel caso dei beni di consumo, il sistema economico non soffre alcuna conseguenza dal modo in cui questi vengono impiegati. I proprietari di beni di consumo sono liberi di prendere qualunque decisione vogliano. Un bene di consumo può essere consumato per intero, può essere messo da parte per il consumo futuro, può essere venduto o regalato, può perfino essere distrutto senza alcuna conseguenza sull’effettivo funzionamento del sistema economico. Non è così nel caso dei beni capitali! I beni capitali “devono” essere mantenuti in esistenza, devono essere utilizzati nel processo di produzione per tutta la loro vita fisica utile e, poi, devono essere interamente rimpiazzati, come mezzi di produzione, altrimenti tutto il processo di produzione si ferma! È importante rendersi conto che l’esistenza, e quindi l’accumulazione, del capitale fisico è una assoluta necessità nel processo di produzione delle economie industrializzate. Senza capitale fisico non ci possono essere i corrispondenti posti di lavoro per i lavoratori. Capitale e Lavoro sono quindi complementari (anche se con talune – limitate – possibilità di sostituzione, comunque rilevanti quasi esclusivamente nel lungo periodo). Ciò significa che i beni capitali – a differenza dei beni di consumo – svolgono una funzione “rilevante per la società nel suo insieme”. Procurano posti di lavoro per i lavoratori. Possiamo ben dire che essi svolgono una “funzione sociale”. Per questa ragione il Capitale e il Lavoro non possono essere posti sullo stesso piano. Non ricoprono un ruolo simmetrico. Dietro al Capitale c’è un particolare modo di impiegare il reddito in eccesso rispetto al consumo. Dietro al Lavoro ci sono persone umane e le loro famiglie! A questo punto sorge immediatamente un problema delicato. Una breve riflessione convincerà chiunque che il punto critico e delicato che sorge concerne la “proprietà dei mezzi di produzione”. Mentre non vi sono difficoltà nel produrre argomentazioni a favore della proprietà privata dei beni di consumo, la proprietà privata dei mezzi di produzione è un tema più controverso, semplicemente perché, in un sistema industriale, ogni decisione sull’uso dei beni capitali ha conseguenze che “riguardano la società nel suo insieme”. Il problema è tuttavia piuttosto scabroso e complesso sul piano istituzionale. In una società libera, la fonte della proprietà dei beni capitali e la fonte della proprietà dei beni di consumo appaiono essere le stesse. Se riteniamo legittimo che ciascun individuo decida di disporre dei propri risparmi nel modo che preferisce, o di accumularli, ad esempio, sotto forma anche di lingotti d’oro, perché si dovrebbe obiettare, o interferire, di fronte alla loro accumulazione sotto forma di beni capitali? Una risposta chiara e non-controversa a questo quesito – che emerge da un problema istituzionale tipicamente nuovo, generato dalla Rivoluzione industriale – non è ancora stata trovata. (…) il problema (è) … come esercitare i diritti di proprietà su un fattore di produzione che ha una funzione sociale da compiere» (6).
Gli economisti classici
Gli economisti di fine Settecento ed inizio Ottocento, conosciuti come “economisti classici”, percepirono l’epocale mutamento di paradigma economico – dalle economie basate sugli “scambi commerciali” a quelle basate sull’‘industria’ – che stava avvenendo nel loro tempo. Agli Fisiocrati francesi come ai loro colleghi britannici, ossia Adam Smith, David Ricardo e Robert Malthus non sfuggì la forte rilevanza del Capitale come nuovo fattore di produzione benché essi non compresero a pieno la relazione tra progresso tecnico ed aumento della popolazione immaginando il rapporto causa-effetto all’incontrario. Per essi l’aumento della popolazione non era l’esito dell’avanzamento tecnico dei metodi di produzione quanto piuttosto era il fattore che metteva in pericolo quell’avanzamento, sicché bisognava ingegnarsi per contenere la crescita esponenziale della popolazione onde evitare che prevalesse la povertà e si perdessero i benefici del progresso. Malthus fu in questo l’esponente più esposto dato che proponeva rimendi come la sterilizzazione dei soggetti dei ceti subalterni e dei popoli non occidentali onde evitare che prolificassero.
Nel XVII secolo, l’epoca di Colbert, in contemporanea con l’affermarsi degli Stati nazionali delle monarchie assolute, la scuola economica del Mercantilismo poneva al centro del problema economica, in chiave di potenza statuale, l’accumulo di oro ed altri metalli pregiati nelle casse dei regni. Un accumulo che, in un’età di regime monetario ancora metallico, si poteva ottenere soltanto mediante politiche di favore verso le esportazioni e di contemporaneo contenimento delle importazioni. Esportare significava vendere merci e quindi introitare oro in forma di moneta, importare significava l’esatto contrario. In tale paradigma pertanto il ricorso al protezionismo ed alle barriere doganali era la norma. Con il XVIII secolo inizia una vera e propria rivoluzione culturale che cambia persino il paradigma economico dominante. Già nella seconda metà del diciottesimo secolo, proprio nella stessa Francia che era stata all’avanguardia del mercantilismo, la nuova scuola della Fisiocrazia smise di preoccuparsi del “commercio” per concentrarsi sulla “produzione” che in quella fase era ancora prevalentemente quella agricola. Si iniziava a pensare che la vera fonte della ricchezza di una nazione non era nell’oro accumulato, mediante gli scambi, quanto nella sua capacità produttiva.
Nel Tableau économique di François Quesnay il concetto di ricchezza non era più concepito come appropriazione di risorse naturali nella forma dei metalli preziosi, secondo l’idea di “stock” propria al Mercantilismo, ma come prodotto netto annuale dell’intera economia – il produit net di Quesnay – che era un “flusso”. Questa nuova concettualizzazione della ricchezza fu adottata anche dagli economisti classici britannici. Laddove Quesnay parlava di produzione agricola generatrice di sovrappiù, al di sopra della sussistenza e della reintegrazione dei mezzi di produzione, restando però nel quadro di un’economia preindustriale, Adam Smith spostò le intuizioni dei fisiocrati nel quadro della nascente “produzione industriale”. Egli indicò per primo quelle che sono le forze che determinano la crescita della “produttività del lavoro” e quindi della ricchezza delle nazioni. Tali forze furono da lui individuate in “skill, dexterity and judgement” (arte, destrezza e intelligenza) indipendentemente dalle circostanze naturali, del clima e dell’ambiente, e dalle relazioni sociali.
Indipendentemente dalla scarsità delle risorse naturali, la ricchezza, secondo Smith, poteva essere prodotta grazie alla specializzazione e alla divisione del lavoro. Come si vede in Smith si ha l’esaltazione di quell’individualismo anti-vincolistico che Fanfani chiama “spirito del capitalismo”. Era, quello esaltato da Smith, a ben vedere, l’affermazione della preminenza dell’Economico sul Politico e sul Sacro. Anzi, si trattava addirittura dell’assorbimento dell’umano, della complessità spirituale ed antropologica dell’umano, nel meccanismo produzione-consumo dell’economia capitalista di mercato. La risoluzione del mondo nel mercato-mondo. Come osservava Karl Polany, con la comparsa del capitalismo l’economia non è più “incorporata”, “embedded ”, nella Comunità politico-sociale ma è quest’ultima che viene liquefatta nel mercato capitalistico.
Pur avendo intuito quale passaggio epocale veniva attuato dalla nuova era industriale, Smith ritenne, tuttavia, le istituzioni economiche già esistenti come sufficienti per assicurare la “convergenza naturale” dei prezzi di mercato e delle quantità prodotte. Egli, in altri termini, affidò alla “naturalezza” del libero commercio fra individui, in concorrenza fra loro e tendenti al perseguimento del proprio interesse in un quadro istituzionale supposto ordinato e ben regolato, lo spontaneo raggiungimento dell’equilibrio economico e dell’armonia sociale. Partendo dalla intuizioni di Smith, David Ricardo pose le basi della teoria oggettiva del valore e della distribuzione del reddito sulla base del “principio dei costi comparati” quale criterio regolatore del commercio internazionale. Ogni Paese è specializzato in una o poche produzione sicché esso deve mettere sul mercato internazionale quanto produce onde acquistare dagli altri Paesi, con la moneta ottenuta dalla vendita della propria produzione, quanto non produce in proprio.
Si tratta, come è evidente, della sistemazione teorica del liberoscambismo che sulla scena storica, lungi dall’essere mai stato riscontrato come operante per moto spontaneo, è stato piuttosto imposto, anche per mezzo delle cannoniere, nel gioco asimmetrico degli scambi tra Stati del Primo, del Secondo e del Terzo Mondo. Fu sulla base della teoria ricardiana che, nel Commonwealth inglese, all’India era impedito di sviluppare una industria tessile moderna perché il suo vantaggio comparativo doveva, per forza, essere nella coltivazione del lino necessario alle manifatture tessili di Manchester: L’India, con le risorse monetarie ottenute vendendo all’Inghilterra il suo lino, avrebbe ricomprato, dalla stessa Inghilterra, il prodotto finito ossia i capi in lino realizzati dai telai inglesi. L’idea che l’India avrebbe potuto dotarsi essa di telai per trasformare in proprio il lino e far concorrenza all’Inghilterra, nonostante i peana liberisti alla libera concorrenza, era ritenuta sovversiva.
Quindi, nel complesso, ai Classici va ascritto il merito di aver intuito gli elementi essenziali del passaggio dall’economia antica a quella moderna, industriale, mediante raffinate indagini economiche sulle basi oggettive delle economie industriali. Essi, però non furono affatto capaci di cogliere che la nuova “fase dell’industria” avrebbe avuto bisogno di nuove istituzioni politiche ed economiche onde ammortizzare e, soprattutto, riequilibrare gli sconquassi sociali apportati dal capitalismo. Pensarono che la “naturalità” del meccanismo produttivo capitalistico e del mercato liberista fossero sufficienti di per sé ad armonizzare il mondo. Intuirono il cambiamento di paradigma, ma non la necessità di pensare nuovi assetti politici per organizzare il nuovo mondo emergente che, senza che essi se ne accorgessero, non era affatto quello dell’armonia attesa. Ciò ebbe effetti disastrosi per la credibilità delle loro dottrine. Fra i Classici, probabilmente, ad intuire la necessità che le Istituzioni politiche intervenissero nei meccanismi del nuovo processo di produzione industriale-capitalistico fu soltanto Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi, svizzero di antiche origini familiari toscane e cristiano, sebbene protestante, attento anche agli aspetti etici del problema redistributivo che l’industrializzazione stava aprendo (7).
I limiti dei Classici furono messi in evidenza dall’irrompere sulla scena del dibattito economico di Karl Marx, il quale mise drammaticamente in discussione l’ingenuità armonizzante della concezione libero-mercatista partendo dai loro stessi presupposti teoretici ed analitici. Sul piano dell’analisi economica, Marx è un dichiarato erede della teoria economica classica. Egli dimostrò una incredibile capacità di muoversi con estrema facilità all’interno del quadro descritto dal paradigma della “produzione industriale”. Egli dimostrò lo stesso intuito che i Classici avevano posto a base dei loro studi. Diversamente da loro, però, Marx lasciò da parte le difficoltà analitiche del nuovo paradigma e ne denunciò le deficienze, ad iniziare dall’aspetto istituzionale e sociale. Ponendo al centro i nuovi problemi sociali che il capitalismo aveva creato, egli ne desumeva l’impossibilità di una sua riforma e ne suonava la campana a morte in vista della prossima rivoluzione proletaria.
«Non essendo in grado di proporre alternative sul piano analitico – scrive in proposito Pasinetti –, (Marx) andò direttamente alle conclusioni estreme, finali, delle sue argomentazioni, puntando su una radicale rivoluzione dell’intero assetto sociale. Marx comprese con rara intuizione le profonde implicazioni “istituzionali” della nuova epoca industriale, che gli economisti Classici non erano stati in grado di cogliere. La “fase dell’industria”, diversamente dalla precedente “fase del commercio”, richiedeva mutamenti profondi nelle “istituzioni sociali”. Rielaborando i concetti ereditati dai Classici, Marx capovolse le loro “innocenti” conclusioni e si adoperò nel riformularle in modo coerente con i propri propositi rivoluzionari. Ciò che sarebbe stato veramente necessario era una rinnovata teoria economica, ma non è su questa strada che Marx si incamminò. Invocò e spinse per una rivoluzione radicale nella realtà pratica, mancando nello stesso tempo di introdurre miglioramenti costruttivi in quella teoria economica che gli economisti Classici avevano soltanto intuito. Da questo punto di vista, il suo lavoro risultò tremendamente distruttivo, anche se sarebbe un grave errore sottovalutare le sue critiche alle istituzioni esistenti (capitaliste). Da allora però la costruzione di un quadro analitico appropriato ad un paradigma economico della “produzione” si è interrotto e non è più andato avanti. Questa è, ed è rimasta, fino ai nostri giorni, la più grave deficienza della teoria economica prevalente, che non ha saputo ancora adeguarsi al dinamismo della nuova società industriale» (8).
In altri termini, Marx è sceso nell’agone sul terreno stesso degli economisti Classici, ne ha usato le stesse armi analitiche per giungere a conclusioni radicalmente contestatrici e rivoluzionarie rispetto all’assetto capitalistico dell’economia. Il punto sta nel fatto che, così facendo, Marx mise con le spalle al muro i difensori della Teoria Classica dato che le sue critiche si muovevano sullo stesso terreno e, quindi, era impossibile controbatterle senza mettere in discussione i postulati medesimi della Teoria. Marx aveva costretto la modernità capitalista al disincanto, a svegliarsi dai sogni “armonistici” ed a prendere atto dei suoi difetti, limiti e contraddizioni. Non fu solo la borghesia ad essere spaventata dal “rasoio” di Marx. Il panico imperversò anche nel mondo accademico della Scienza Economica Classica: non era possibile negare le ragioni del marxismo sulla base del paradigma affermato e difeso. Bisognava arrendersi al comunismo prossimo venturo.
La svolta del decennio 1870-80
Per evitare un “destino marxista” l’unica via di fuga stava nel cambiare Teoria, nel mutare paradigma. Di fronte all’impasse, provocato dal Marx, allo sviluppo della teoria economica, alla fine del secolo XIX, venne proposta, con grande successo, una Teoria Soggettiva del Valore basata sull’utilità marginale, che abbandonava il fondamento oggettivo della Teoria dei Classici e, quindi, di conseguenza, dell’analisi di Marx. La nuova Teoria dell’utilità marginale, negli anni seguenti al 1870, ebbe immediatamente un eclatante successo accademico in quanto permetteva una critica del marxismo che non cadeva nella trappola, posta da Marx, dell’oggettivismo classico ossia del tirar le conclusioni ultime dalla Teoria Classica che si dimostravano in sé favorevoli al marxismo. Il concetto di “utilità” ed il “principio marginale” non erano nuovi all’interno del dibattito scientifico ma, fino a quel momento, erano stati considerati del tutto secondari e come meramente complementari rispetto a quello, ritenuto fondamentalo, della “produzione”. All’improvviso essi emergono per diventare centrali nell’analisi e quindi assurgono a veri fondamenti della scienza economica.
Si trattò di una svolta teorica inaspettata la cui unica spiegazione soddisfacente: «non (può) prescindere – ci dice Pasinetti – dagli effetti combinati di due rilevanti aspetti reali dell’ambiente europeo del tempo: 1) la pubblicazione della critica di Marx alle economie capitaliste (il primo volume del Capitale di Marx apparve nel 1867), e 2) la diffusa inquietudine e il disagio sociale che caratterizzarono quegli anni travagliati (9). (…) l’effetto pratico indotto dall’appello lanciato da Marx per una rivoluzione sociale fu quello di sollecitare una forte e immediata reazione da parte delle classi dominanti. L’intero establishment delle società occidentali, alla fine del diciannovesimo secolo, ne era terrorizzato. Era difficile rispondere con gli strumenti analitici dell’economia politica apprestati dai Classici. Marx era un economista classico nel pieno senso della parola. Riprese e sviluppò l’atteggiamento classico alla realtà economica, il che diede enorme vigore alla sua analisi, dato che la produzione – e la produzione con capitale – costituisce indubbiamente la caratteristica centrale di ogni moderno sistema industriale. Da un punto di vista soggettivo, tuttavia, Marx usò la teoria Classica per scopi che erano diametralmente opposti a quelli degli economisti Classici. Questi ultimi – seguendo una linea di pensiero che discende direttamente dal pensiero fisiocratico – avevano accettato le istituzioni della società in cui vivevano come parte di un ordine naturale; Marx le considerò come fasi di passaggio nella transizione dal feudalesimo del passato al socialismo del futuro. Gli economisti Classici avevano generalmente condotto le loro analisi in termini di armonia di interessi tra le varie classi sociali; Marx concepì le relazioni economiche in termini di conflitto di interessi e di lotta di classe. I Classici avevano cercato di individuare come il sistema esistente operava, allo scopo di contribuire a farlo funzionare meglio; Marx si propose di “svelarne le contraddizioni”, allo scopo di affrettarne la fine tumultuosa e rivoluzionaria. Nello stesso tempo proprio quelle stesse caratteristiche che agli economisti Classici erano apparse come difficoltà analitiche difficili da sormontare (si pensi al problema analitico delle relazioni tra prezzi relativi di produzione e distribuzione del reddito, che avevano travagliato le teorie ricardiane e che sono state chiarite soltanto recentemente da Piero Sraffa) venivano da Marx trasformate in ulteriori accuse contro le economie capitaliste. Tutto ciò era sconvolgente. Alle orecchie di molti suonava assurdo. E tuttavia, nel loro complesso, le argomentazioni di Marx non si potevano confutare facilmente. Il procedimento più naturale da seguire sarebbe stato quello di metterne in discussione le premesse logiche. Ma proprio in ciò stava la difficoltà. Le premesse logiche di Marx erano esattamente le stesse di Smith e Ricardo, cioè dell’economia politica Classica prevalente. Proviamo ora a fare questa ipotetica considerazione: se solo qualcuno avesse potuto proporre una teoria economica che non facesse riferimento alcuno al lavoro, ai mezzi di produzione, possibilmente nemmeno al fenomeno produttivo come tale … questa sarebbe stata esattamente il tipo di teoria a cui un establishment impaurito non avrebbe potuto che dare il più caloroso benvenuto. La teoria dell’utilità marginale offriva precisamente questo. (…). E ciò che accadde è davvero notevole. Nel decennio successivo al 1870, la teoria dell’utilità marginale, dovunque venne proposta, incontrò un pieno successo» (10).
Il paradosso della svolta “marginalista” sta nel fatto che essa compiva una virata radicale all’indietro. I Marginalisti non facevano altro che tornare al concetto pre-industriale di ricchezza, ossia un insieme, uno stock, di risorse naturali date e scarse. Ciononostante essi riuscirono ad elaborare schemi analitici superiori a quelli dei Classici. Il loro schema era formalmente elegante e sofisticato ma presupponeva, come abbiamo detto, un concetto premoderno di ricchezza intesa come un fondo di risorse naturali quantitativamente scarse. In questo essi avevano un legame con uno dei Classici ossia Malthus. Da un punto di vista teologico, si tratta di uno schema che risente chiaramente di un influsso anti-biblico giacché si fonda su una visione pessimista della creazione – l’idea di una Natura Matrigna – e nega l’Abbondanza Donativa del Creatore nell’atto di dotare, all’interno dell’Alleanza, l’uomo, nel mondo, di ogni gratuità benefica.
Il Marginalismo, spiega Pasinetti, consistette in una « … riformulazione dell’intera teoria economica in termini di un elegantissimo modello matematico, diventato poi noto col nome di “modello dell’equilibrio economico generale”, che diede l’impressione di un salto di qualità, verso un’analisi economica che sembrava finalmente aver imboccato la strada della “scientificità”. In realtà, sul piano concettuale, significava una ritirata in un ambito ristretto, in cui tutti i fenomeni economici venivano ridotti a processi di massimizzazione di funzioni-obbiettivo matematiche, supposte tutte perfettamente note, esprimenti le utilità dei singoli individui o i profitti dei singoli imprenditori, o quant’altro si potesse formulare in termini di un “comportamento razionale” dei vari individui, tutti agenti sotto il potente movente del tornaconto egoistico individuale, e soggette ai vincoli di una distribuzione delle risorse esistenti accettate come date e da non discutere. Ne seguiva la dimostrazione che le soluzioni di questo modello di massimizzazione vincolata – ottenute lasciando agire i vari individui in mercati liberi e competitivi e tendenzialmente perfetti – portavano ad una allocazione finale delle risorse, che era “ottima” in senso relativo (cioè relativamente alla data distribuzione originaria delle risorse), e quindi ritenuta efficiente. Va aggiunto che questo schema di fondo (qui espresso evidentemente in modo semplificato) ha continuato ex-post ad essere perfezionato negli anni successivi al 1870, e poi per tutto il secolo XX. (…) l’espressione più elegante, e forse simbolica, di questo modello matematico di massimizzazione vincolata (è) … quella che è stata formulata da Paul Samelson nella sua opera “Foundations of Economic Analysis”, 1947. Trovo impressionante l’entusiasmo di questo insigne studioso, premio Nobel per l’Economia 1970, per quella che ha definito una “Mathematical Economics Revolution” (…). (…) le novità che vengono segnalate (sono) soprattutto di carattere formale, ispirate alle scienze naturali e alla matematica. (…) (mancano) invece gli aspetti … più importanti, ossia gli accenni ad almeno una presunta migliore rappresentazione e comprensione della realtà. Anche lo stesso processo di produzione, che pur doveva essere considerato, vi è stato inserito come se fosse un processo di scambio inter-temporale. Lo schema è persino sopravvissuto, (nonostante la parentesi Keynesiana) alla grave crisi economica del 1929. Si sta ora cercando di farlo sopravvivere anche all’attuale crisi del 2008, allorché persino le transazioni finanziarie sono state inserite nella stessa forma analitica, cioè come dei processi di massimizzazione del valore delle imprese, così come questo risulta dalle quotazioni di mercato. Le basi “scientifiche” di questo schema, quando se ne accettino le (irrealistiche) supposizioni sono state ritenute logicamente solide, tali da sovrastare ogni altra alternativa. Esse portano in sostanza a 3 risultati tradizionali, che vengono reiterati, confermati e messi al servizio della politica economica: i) la libertà nelle contrattazioni di mercato, con un minimo di regole, idealmente lasciate all’iniziativa privata, ii) l’accettazione della esistente distribuzione delle risorse e/o di quella dei redditi, così come i processi di produzione e la concorrenza di mercato viene a determinarli, iii) la proprietà privata (tendenzialmente) di tutti i beni» (11).
Misconoscendo la realtà problematica e conflittuale dell’epoca del dinamismo industriale, i Marginalisti non posero affatto al centro dell’indagine economica il problema del miglioramento delle condizioni di vita dei ceti più svantaggiati nella dinamica capitalista della produzione ma il problema della gestione efficace delle risorse esistenti, presunte scarse, facendo assegnamento sul supposto comportamento razionale di individui astratti, irrelati, che non conoscono altri legami sociali se non quelli contrattuali, utilitari, e che inseguono ciascuno il proprio tornaconto in una società stazionaria, competitiva e strettamente atomistica.
Riproponendo nella teoria economica il concetto luterano del “peccato salutare” – gli uomini, giacché corrotti, non possono evitare di peccare ma Dio a suo arbitrio, indipendentemente dalla trasformazione del cuore, ne salva alcuni nonostante anch’essi restino integralmente corrotti – i Marginalisti affidano agli effetti an-intenzionali, ossia indiretti ed involontari, garantiti dalla “mano invisibile”, secolarizzazione ambigua del Dio della teologia, l’ottenimento, attraverso l’egoismo teorizzato e praticato, del bene generale, universale, per tutti e per ciascuno. In tal modo l’“armonismo” dei Classici era sì salvo ma in un quadro concettuale falsificato che non corrispondeva affatto alla realtà della società industriale. Della quale tuttavia si pretendeva di spiegare il funzionamento economico sulla base di presunte “leggi naturali universali” – fondate sul principio del tornaconto individualistico ossia il fanfaniano “spirito del capitalismo” – che in realtà sono mere astrazioni concettuali e matematiche. Le quali, lungi dall’essere le “leggi naturali” dell’economia, mai hanno trovato effettiva concretizzazione nei diversi scenari storico-sociali conosciuti dall’umanità nella sua storia, come, ad esempio, la realtà vincolistico-comunitaria premoderna testimonia. Lo schema marginalista era analiticamente affascinante ma del tutto astratto non solo dalle circostanze storiche della sua epoca ma, in generale, da qualsiasi contesto storico concreto attuale o passato. Esso, tuttavia, svolgeva perfettamente una funzione di legittimazione teoretica del capitalismo predatore ed antisociale e dell’egemonia indiscussa ed indiscutibile del Capitale sul Lavoro. Ecco perché la Teoria Marginalista fu accolta tanto nell’Accademia quanto nella cultura politica conservatrice. Essa permetteva di rispondere al marxismo cambiando, in astratto, il terreno dello scontro e togliendo a Marx il terreno sotto i piedi.
Nella sua essenza di una astrazione matematica, formalmente elegante quanto si vuole, il marginalismo, oltretutto, non tiene affatto conto della complessità antropologica dell’uomo – il quale si denota per essere essenzialmente e prima di tutto “homo religiosus”, non “homo oeconomicus” – e della complessità del Reale, che conosce molteplici livelli ontologici ed ambiti e dimensioni di esistenza e nessuna di esse contempla come normativa l’individuo (casomai la “persona” che è l’antitesi dell’individuo perché, a differenza di quest’ultimo che è concetto di irrelazione, essa si definisce proprio in virtù delle sue relazioni, verticali, verso Colui che la trascende, ed orizzontali, verso le altre persone in un contesto comunitario).
«Vorrei far presente, specialmente ai colleghi economisti, – dice ancora Pasinetti – che l’immagine ingannevole sta proprio qui, cioè proprio nel fatto che il modello matematico dell’equilibrio economico generale è il più elegante e logicamente rigoroso modello matematico finora proposto che è in grado di dare una giustificazione in termini di raggiungimento di posizioni (relativamente) ottime, alla prescrizione di lasciare agire i singoli individui secondo il loro tornaconto individuale. Da qui tuttavia il passo è lungo, e quindi aperto a travisamenti, malintesi ed errori anche notevoli, quando lo si voglia adottare in concreto come l’unico schema logicamente coerente che giustifichi una generale politica economica di laissez faire. Non solo. Il passo diventa ancor più lungo e temerario, quando viene usato, troppo immediatamente e per estensione, per giustificare quello specifico assetto istituzionale che è il capitalismo di mercato, tutto centrato sul potente movente della massimizzazione dei profitti e delle utilità individuali. Eppure questo è proprio ciò che è stato fatto. Ci si deve render conto che in questa funzione esso è interamente ingiustificato. Naturalmente, sappiamo bene che il meccanismo competitivo di mercato è un delicato meccanismo istituzionale, che si è lentamente evoluto nei secoli – specialmente in quelli che hanno caratterizzato le “economie del commercio” – che ha tanti meriti, purché vengano prese le necessarie precauzioni e vengano seguite le opportune regole, che vanno continuamente cambiando, parallelamente alle condizioni esterne, e che devono essere sottoposte continuamente ad esami e revisioni. Sappiamo inoltre altrettanto bene che esso non funziona incondizionatamente. Addirittura, in certe condizioni, non funziona affatto. In ogni caso, richiede vigilanza e prudenza. Ora, la svolta che l’avvento della teoria marginalista ha compiuto, e che è poi stata continuata e canonizzata con l’elaborazione del modello matematico dell’equilibrio economico generale sopra descritto consiste nell’aver scelto un particolare insieme di condizioni – che derivano dal precedente paradigma del commercio – e averle innalzate a unico insieme di condizioni che definisce il meccanismo istituzionale del mercato ideale, con la tendenza a dare per scontato che in ogni caso siano approssimativamente soddisfatte, per tutti i propositi rilevanti e in tutte le occasioni. In questo modo si è in pratica costruito una rigida gabbia entro cui tutte le relazioni economiche vengono idealmente costrette (non importa quanto lontane possano essere dalla realtà). In sovrappiù – e questo è l’aspetto veramente grave – penalizzando tutte le ricerche, che non prevedono questo adeguamento analitico, come “non scientifiche” e quindi da non considerare» (12).
La Teoria Marginalista, il cui padre fu l’economista viennese Carl Menger, divenne ben presto nota sotto il nome di “Teoria Neoclassica” ed all’ombra di essa nacquero tutte le scuole neoliberiste oggi conosciute, sia la cosiddetta “Scuola Austriaca” (Friedrich August Von Hayek, Ludwig von Mises) sia l’“Ordoliberismo” friburghese (Ludwig Erhard, Walter Eucken, Franz Böhm, Hans Grossmann-Doerth, Alfred Müller-Armack e Leonhard Miksch), sia il “Monetarismo” (Milton Friedman). Pur ciascuno con le proprie caratteristiche concettuali, che lo differenzia rispetto agli altri, tutti questi filoni neoliberali hanno quale radice comune il “marginalismo mengeriano” il quale a sua volta – e questo dovrebbe essere un caveat per quei cattolici che si proclamano ordoliberisti o semplicemente liberisti – nasce da una chiara scelta di campo filosofica favorevole al soggettivismo ossia all’individualismo. Non è infatti pensabile il marginalismo senza premetterne le basi filosofiche cartesiane, hegeliane, husserliane ossia razionalistico-idealistiche e fenomenologiche. Riducendo l’oggetto al soggetto, la realtà oggettiva all’io senziente, il marginalismo asserisce essere il valore economico una funzione del gradimento soggettivo-individuale, sempre più marginale mano a mano che il bisogno o il desiderio sono soddisfatti. Non quindi un attributo oggettivo, in sé, dei beni nell’ambito di un più vasto Kosmos simbolico-reale, sicché l’uomo è, poi, in grado di esprimere giudizi di valore proprio perché in lui è riflessa l’immagine della stessa Intelligenza che il mondo ha creato, secondo una prospettiva etica, e donato all’umanità.
La Chiesa scende in campo
Alla fine del XIX secolo, dunque, si assisteva allo spettacolo di una teoria economica, raffinata nelle sue formulazioni matematiche, ma totalmente astratta ed estranea al contesto storico e sociale della società industriale e dei suoi conflitti. Al quale poi si pretendeva di applicarla. Ed è proprio alla fine del secolo XIX, che Leone XIII, con grande buon senso, prese l’iniziativa nel nome del Vangelo. Era ormai improcrastinabile necessità della Chiesa affrontare la sfida epocale della modernità intervenendo esplicitamente coi suoi ammonimenti etici in tema economico-sociale. Nasceva così il corpus magisteriale che sarebbe stato denominato Dottrina Sociale della Chiesa. Il suo primo atto fu la Lettera Enciclica Rerum Novarum (1891), promulgata da Papa Pecci. Essa, però non nasceva dal nulla perché, in realtà, raccoglieva, sistematizzava e sanciva con l’Autorità della Cattedra Petrina le spinte spirituali, teoriche e soprattutto pratiche già manifestatesi, e gradualmente sviluppatesi, in seno all’opposizione tradizionalista ecclesiale alla modernità che, a partire dagli albori stessi della Rivoluzione Industriale e della Rivoluzione Francese, avevano dato vita ad una operosa ed attiva corrente sociale interna al Cattolicesimo.
Non è, infatti, affatto vero che la Chiesa abbia iniziato a preoccuparsi delle realtà mondane, in specie dei problemi posti dall’economia, soltanto alla fine del XIX secolo, come se Essa, fino a quel momento, avesse praticato una sorta di spiritualismo disincarnato e non fosse stata, invece, come da insegnamento di Cristo in Persona, attenta alla salvezza globale dell’uomo nella sua integrale costituzione, metafisico-antropologica, spirituale, psichica e corporea, e quindi attenta anche alla corporeità ossia il livello ontologico connesso con i problemi posti dalle necessità vitali primarie ovvero l’economia. Il punto differenziale tra l’epoca premoderna e l’epoca moderna sta soltanto nei mezzi e nella prassi adottata, più assistenziale-caritativa in passato, anche aperta oggi al confronto con la politica economica in un mondo trasformato dalla rivoluzione tecnologica. Quel che sembra un intervento tardivo, di fine Ottocento, con la Rerum Novarum, fu in realtà soltanto il primo atto moderno, ovvero adeguato alla realtà mutata dei tempi, del Magistero sociale della Chiesa la cui radice prima si chiama Carità. Per questo il Magistero sociale, può dirsi, è apparso, implicito, insieme alla Rivelazione. In altri termini la Dottrina Sociale della Chiesa è sempre esistita mentre nella seconda metà dell’Ottocento nasce soltanto la sua versione moderna che si sarebbe sviluppata lungo il secolo successivo leggendo ed interpretando i cambiamenti nell’ottica di sempre e quindi mettendo in rilievo luci ed ombre dei processi in atto.
Ai tempi di Leone XIII si poneva come immediato il problema di cercare una soluzione ai guasti sociali posti dalla Rivoluzione Industriale. Il Magistero era consapevole che la critica di Karl Marx, assorbendo dagli economisti Classici i tratti analitici essenziali di un “paradigma economico della produzione”, giocava sul terreno delle contraddizioni degli stessi Classici che credevano potessero essere salvaguardate, nonostante le trasformazioni, le istituzioni liberali. La Chiesa che con il liberalismo politico si era già scontrata sin dal suo nascere, perché la sua essenza stava nella pretesa “liberazione” (che del resto, successivamente Marx, che era intrinsecamente un liberale, fece propria) dell’uomo da Dio e del singolo dalla comunità, non ebbe difficoltà a comprendere prima degli economisti, anche se non diede (non era il suo compito) risposte in termini di paradigmi e teorie economiche, l’insufficienza del liberalismo nell’affrontare i problemi sociali che erano sorti dalla Rivoluzione Industriale, ad iniziare dal diffuso scontento sociale, generato dal disagio delle classi lavoratrici, costrette a vivere in condizioni disumane, sia in fabbrica che in famiglia. Marx le incitava alla rivolta senza condizioni; in pratica ad una rivoluzione radicale dell’intero quadro istituzionale esistente – politico, economico, sociale, e, non ultimo, religioso. La Chiesa rifiutò questa prospettiva perché, nella Sua Sapienza, ben vide quale era la radice e quale sarebbe stato l’esito ultimo del marxismo ossia l’avvento del nichilismo lungo un percorso storico mediato, in una fase intermedia, dalla immanentizzazione delle speranze escatologiche sostenute dalla Rivelazione. Ma non per questo la Chiesa poteva rinunciare a dare il suo giudizio sullo scenario sociale impostosi con la modernità e non esitò a mettere sotto accusa innanzitutto il liberalismo in un quadro analitico, teologico e storico, nel quale il marxismo fu visto come una conseguenza estrema del liberalismo. La Chiesa non rigettava le critiche marxiste, che anzi considerava fondate e giuste, ma rifiutava il marxismo perché, figlio del liberalismo, aveva lo stesso, inaccettabile, obiettivo “paterno” della sconsacrazione definitiva e totale del mondo.
Di fronte al fallimento, da parte del mondo accademico, nel formulare un nuovo paradigma economico in grado di interpretare i nuovi eventi e di indicare, al mondo del Lavoro, un’alternativa efficace al marxismo, la Chiesa, conscia di essere espressione storica dell’Eterno e quindi di essere depositaria di una continuità sapienziale pur nel cambiamento delle forme storiche della società, indicò nell’adattamento alla realtà nuova dei modelli organicisti dei tempi della perduta Cristianità la soluzione cristiana. Quando Leone XIII, nella sua enciclica, riconosceva l’esigenza di sindacati “anche di soli operai” prendeva atto, contro le illusioni tradizionaliste, superate dai tempi, del ripristino delle corporazioni di tipo premoderno, delle trasformazioni intervenute con l’industrializzazione che avevano fatto emergere il dualismo capitale-lavoro in un modo che nell’età antica era quasi sconosciuto, sicché non si poteva sic et simpliciter riproporre l’antico organicismo ma bisognava aggiornarlo in considerazione del fiorente sindacalismo moderno. La aggiornata piattaforma “corporativista-sindacale” inaugurata da Leone XIII – che non è venuta meno, quale caratteristica del Magistero, neanche dopo il travolgimento delle esperienze novecentesche, dato che essa persiste in forma diversa anche nel Magistero Sociale più recente – trovava la sua ragione in questo senso di continuità ecclesiale. Quel che è piuttosto mancato, nonostante poche e per questo brillanti teorizzazioni di alcuni grandi studiosi, è stata la traduzione, nei termini della scienza politico-sociale e della scienza economica, delle indicazioni etiche e sociali del Magistero.
A differenza degli economisti Neoclassici – i quali anziché riconoscere ed affrontare la sfida del cambiamento epocale che era intervenuto ed elaborare un parallelo cambio di paradigma teorico si rifugiarono nell’astrazione matematica – la Chiesa non scelse la strada della fuga dalla realtà del nuovo mondo industriale per un ri-adagiamento nel solco del vecchio paradigma economico “del commercio”. La Chiesa ruppe con detto paradigma. Così mentre i Neoclassici, anche se con versioni varie da un autore all’altro, rimanevano concordi nella raccomandazione alle Autorità pubbliche di astenersi il più possibile dall’interferire nelle contrattazioni economiche del mercato – quindi nel sollecitare una politica economica di sostanziale laissez faire, cioè del non fare nulla o il meno possibile, lasciando alla presunta spontaneità del mercato la soluzione dei problemi economici, ossia al meccanismo dell’iniziativa privata in un mercato competitivo e con la implicita indifferenza verso il modo con cui i guadagni derivanti da tale meccanismo si redistribuiscono tra le classi sociali – Essa, al contrario, sin dalla “Rerum Novarum” ha invocato e chiesto esplicitamente l’intervento correttore dell’Autorità politica. In tal modo la Chiesa entrava in contrasto con il capitalismo di mercato e lo è sostanzialmente rimasta anche oggi checché ne pensino i neocattolici “per il mercato”, come Novak.
Nella Introduzione alla Rerum Novarum è chiaramente detto: «Ciò che altre volte facemmo a bene della Chiesa e a comune salvezza … crediamo per gli stessi motivi di dover fare la medesima cosa adesso sulla questione operaia» perché per «L’ardente brama di novità, che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. Infatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria, le mutate relazioni tra padroni e operai, l’essersi accumulata in poche mani la ricchezza e largamente estesa la povertà … questo insieme di cose … hanno fatto scoppiare il conflitto …tra proprietari e proletari, tra capitale e lavoro (…). Il quale è di tale e tanta gravità … che oggi non vi è questione che interessi maggiormente il mondo (…). Comunque sia, è chiaro … che occorre venire in aiuto dei proletari, che per la maggior parte si trovano indegnamente ridotti ad assai misere condizioni … indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza».
La Chiesa non era cieca come i Neoclassici ma prendeva atto dei “portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria” e delle “mutate relazioni tra padroni e operai” e condannava gli esiti disastrosi dell’economia moderna con la sua polarizzazione tra un ceto ristretto di banchieri e capitalisti, percettori in esclusivo dei profitti garantiti dalla maggior produttività permessa dalla rivoluzione tecnologica, ed un ceto di lavoratori, costituito dagli ex artigiani proletarizzati e da folle di contadini migrati dalle campagne alle città, malpagato per i bassi salari, conseguenti alla competizione di mercato, sottoposto all’eccessivo orario di lavoro ed alla distruzione delle famiglie comportato dal pesantissimo lavoro minorile e femminile. Mentre i marginalisti mengeriani postulavano dalle cattedre le loro eleganti ma astratte conclusioni analitiche, la Chiesa giungeva, nella linea di una Sapienza Primordiale, a mettere a nudo il re della scienza economica dominante.
I problemi, si badi, affrontati nel Magistero Sociale da Leone XIII, e più tardi dagli altri pontefici del XX secolo, non sono cose del passato. Le iniquità e gli abusi del capitalismo liberista non appartengano ad un’epoca trascorsa perché essi, a causa della globalizzazione, che ha provocato l’arretramento dell’intervento dello Stato – invece a suo tempo sollecitato dai Papi, con le loro encicliche, al fine dell’aggiustamento necessario nella inaccettabile divaricazione tra i ceti sociali in sede di ripartizione della ricchezza prodotta e del conseguente conflitto sociale – sono tornati a riproporsi, dopo la parentesi novecentesca, su una scala amplificata ossia mondiale sia nel Primo che nel Secondo e Terzo Mondo. Tutti gli analisti, infatti, segnalano concordemente che la globalizzazione, al di là delle trionfali coreografie accademiche e mediatiche che l’hanno accompagnata, ha di nuovo divaricato la forbice sociale facendo arretrare in Occidente le conquiste del lavoro senza per questo migliorare sostanzialmente nel resto del mondo la sorte delle popolazioni emergenti.
«La scintilla era scoccata – scrive Pasinnetti –. Ci si era convinti che la “questione operaia” richiedeva urgenti misure da parte delle autorità pubbliche, mentre appariva irresponsabile la fiducia astratta nei risultati finali dei meccanismi, supposti efficienti, del libero mercato. La Chiesa stessa al pari della classe dirigente di fine secolo era ugualmente preoccupata degli incitamenti ad una rivoluzione da parte del movimento socialista, che nella sua concezione della rivoluzione sociale includeva anche la scristianizzazione delle masse operaie (ricordiamo solo la famosa frase: “la religione è l’oppio dei popoli”). Ma l’atteggiamento non poteva che essere molto diverso. Non ci si poteva associare ad una classe ristretta di arricchiti capitalisti, pur di fronte al pericolo di una scristianizzazione delle masse operaie» (13).
Da allora la linea del Magistero non è cambiata, nonostante gli adattamenti alle trasformazioni storiche successive, e se essa non è cambiata è perché – un “dettaglio” del quale pochi si accorgono e lo stesso Pasinetti non sembra aver adeguatamente colto – si tratta essenzialmente dell’esplicitazione storica della Sapienza eterna custodita dalla Chiesa. Non a caso anche nella recente Enciclica Caritas in Veritate quella Sapienza è tornata a far capolino nel riferimento “trinitario” di Papa Benedetto XVI ai distinti ambiti dimensionali dell’uomo che la Tradizione eterna, anche extrabiblica, ha codificato nella tripartizione “Sacro-Politico-Economico” corrispondente all’antropologia tripartita dell’uomo in “spirito, anima e corpo”. Il fil rouge dell’enciclica testé citata, di Benedetto XVI, è la tripartizione tra Stato, mercato e società civile, dove al primo compete la “giustizia distributiva”, al secondo la “giustizia commutativa” ed alla terza la “gratuità del dono” con chiaro riferimento, per l’appunto, alla carità. Riportiamo, a titolo dimostrativo, i passaggi centrali dell’enciclica:
«La “carità nella verità” pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza. L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende — per dirla in termini di fede — dal peccato delle origini. La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell’interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società: “Ignorare che l’uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell’educazione, della politica, dell’azione sociale e dei costumi” […]. All’elenco dei campi in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato, si è aggiunto ormai da molto tempo anche quello dell’economia. Ne abbiamo una prova evidente anche in questi periodi. La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione poi della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano. Come ho affermato nella mia Enciclica “Spe salvi”, in questo modo si toglie dalla storia la “speranza cristiana” […], che è invece una potente risorsa sociale … nella libertà e nella giustizia. La speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà […]. È già presente nella fede, da cui anzi è suscitata. La carità nella verità se ne nutre e, nello stesso tempo, la manifesta. Essendo dono di Dio assolutamente gratuito, irrompe nella nostra vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia. Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l’eccedenza. Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in noi e della sua attesa nei nostri confronti. La verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come insegna sant’Agostino [Sant’Agostino espone in modo dettagliato questo insegnamento nel dialogo sul libero arbitrio (De libero arbitrio II 3,8 sgg.). Egli indica l’esistenza dentro l’anima umana di un «senso interno». Questo senso consiste in un atto che si compie al di fuori delle normali funzioni della ragione, atto irriflesso e quasi istintivo, per cui la ragione, rendendosi conto della sua condizione transeunte e fallibile, ammette al di sopra di sé l’esistenza di qualcosa di eterno, assolutamente vero e certo. Il nome che sant’Agostino dà a questa verità interiore è talora quello di Dio (Confessioni X,24,35; XII,25,35; De libero arbitrio II 3,8), più spesso quello di Cristo (De magistro 11,38; Confessioni VII,18,24; XI,2,4)]. Anche la verità di noi stessi, della nostra coscienza personale, ci è prima di tutto “data”. In ogni processo conoscitivo, in effetti, la verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta. Essa, come l’amore, “non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo si impone all’essere umano” […]. Perché dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini (…). La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna né … diventare una comunità veramente universale: l’unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore. Nell’affrontare questa decisiva questione, dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento e dall’esterno e, dall’altro, che (l’economia) … ha bisogno … di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità. Il “mercato” … è l’istituzione economica che permette l’incontro tra … operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta “giustizia commutativa”, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della “giustizia distributiva ” e della “giustizia sociale” per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza. Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. (…). È … da ritenersi errata la visione di quanti pensano che l’economia di mercato abbia strutturalmente bisogno di una quota di povertà e di sottosviluppo per poter funzionare al meglio. È interesse del mercato promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle. L’attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della “logica mercantile”. Questa va “finalizzata al perseguimento del bene comune”, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica. Pertanto, va tenuto presente che è causa di gravi scompensi separare l’agire economico, a cui spetterebbe solo produrre ricchezza, da quello politico, a cui spetterebbe di perseguire la giustizia mediante la ridistribuzione. (…). La dottrina sociale della Chiesa ritiene che … (la) sfera economica non è né eticamente neutrale … (…). Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente. (…). I comportamenti economico-imprenditoriali … trovano prevalentemente un punto di incontro nel rispetto della giustizia commutativa. La vita economica ha senz’altro bisogno del contratto, per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti. Ma ha altresì bisogno di “leggi giuste” e di “forme di ridistribuzione” guidate dalla politica, e inoltre di opere che rechino impresso lo “spirito del dono”. (…). Il mio predecessore Giovanni Paolo II aveva segnalato questa problematica, quando nella “Centesimus Anno”, aveva rilevato la necessità di un sistema a tre soggetti: il “mercato”, lo “Stato” e la “società civile”. Egli aveva individuato nella società civile l’ambito proprio di un’“economia della gratuità” e della fraternità, ma non aveva inteso negarla agli altri due ambiti. (…). Accanto all’impresa privata orientata al profitto, e ai vari tipi di impresa pubblica, devono potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici e sociali. (…) l’“autorità politica” ha un “significato plurivalente” che non può essere dimenticato, mentre si procede alla realizzazione di un … ordine economico-produttivo, socialmente responsabile e a misura d’uomo. (…) si deve promuovere un’autorità politica distribuita ed attivantesi su più piani. L’economia integrata dei nostri giorni non elimina il ruolo degli Stati, piuttosto ne impegna i Governi ad una più forte collaborazione reciproca. Ragioni di saggezza e di prudenza suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la fine dello Stato. In relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere, riacquistando molte delle sue competenze» (nn. 34, 35, 36, 37, 38, 41).
Come si vede Benedetto XVI si pone lontano dalle ingenuità ordoliberali circa la smithiana “empathy” quale movente del libero mercato. Affrontando il tema della “gratuità” nello svolgimento dell’attività economica Benedetto XVI prende le mosse dalle conseguenze che il peccato originale ha avuto sulla natura umana. Conseguenze che se non state tali da corromperla completamente, come pensava Lutero, sicché resta una possibilità di spontanea gratuità, soprattutto se interviene direttamente la Grazia a sanare la ferita naturale, non possono essere trascurate sicché non c’è garanzia di giustizia commutativa senza giustizia redistributiva, compresa quella sua specie che è la giustizia sociale. Che solo l’Autorità politica, se eticamente orientata, può garantire per il bene stesso non solo della comunità politica ma anche del mercato.
Il principio del dono gratuito, nonostante la sua quasi ovvietà per il cristiano, è diametralmente opposto al principio-base dell’economia classica e neoclassica ossia il principio dell’interesse individuale che è il fondamento del modello economico-matematico sul quale è costruita l’economia dominante, quella mengeriana formulata in eleganti termini analitico-matematici a partire dal 1870 e che ancora oggi è per gli economisti mainstream tanto affascinante. La teoria economica egemone, nonostante ogni smentita pratica ed il costante schiaffeggiamento che ha subito nel corso della storia, continua a considerare il principio del tornaconto individuale il fondamento “razionale” del problema dell’allocazione ottimale delle risorse laddove invece, come osserva Benedetto XVI, esso rappresenta piuttosto un “offuscamento” della razionalità indotto dalla ferita ontologica del peccato ed è, quindi, afferente ad una “razionalità malata” rivelandosi alla fine del tutto “irrazionale”. Ed è da questa irrazionalità del principio dell’interesse individuale che nascono le crisi economiche e l’incapacità del mercato di realizzare quel che promette in termini di felicità e pace universale. Laddove l’economia dominante, a cominciare da Adam Smith, resta agganciata a questo principio, la Chiesa rovescia le posizioni di partenza invitando innanzitutto ad abbandonare l’individualismo, l’egoismo, l’avarizia ed ad aprirsi a quel dono di Dio che è la speranza nel Trascendente la quale opera come “potente risorsa sociale … incoraggiando la ragione e dandole la forza di orientare la volontà”.
Ma c’è un altro punto da mettere in rilievo.
Pasinetti scrive che « … la veste nuova, bella ed affascinante, di un modello economico matematico di massimizzazione vincolata (ha generato) … l’illusione di un (falso) avvicinamento al “rigore” delle scienze naturali. Questa astratta modellistica, basata su una concezione, all’origine essenzialmente statica (timeless, come si è anche detto), dell’intero sistema economico, non dovrebbe più trarre in inganno» (14).
Alla luce delle radici hegeliane del mengerismo – che per la mediazione idealistica lo ricollegano alla spiritualità olistica orientale – l’ordine “atemporale” del mercato assume più il senso dell’eterno divenire ciclico della ruota cosmica emanata del Brahman che il senso di un ordine verticalmente orientato sulla base di una legge etica partecipata e donata dall’Essere auto-sussistente. Per i fideisti del libero mercato il tempo non è una creazione ma una illusione come tutta la realtà ricondotta all’utilità di una soggettività edonistica, frammento particolare nel quale si manifesta emanazionisticamente l’immanente e perfetta unità di un mondo chiuso nel suo equilibrio olistico.
Ancora sulle illusioni di Novak verso il capitalismo
Michael Novak, morto di recente, curò nel 1984 una critica introduzione – “La tendenza anticapitalista del cattolicesimo” – all’ennesima riedizione americana del saggio di Amintore Fanfani dal quale siamo partiti, “Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo”. In detta Introduzione, in sostanza, Novak accusava lo studioso italiano di non aver mai conosciuto la realtà del capitalismo americano, libero, pulito, non colluso come quello europeo con lo “statalismo” sia nella sua forma totalitaria sia in quella keynesiana (dimenticava, però, Novak il New Deal rooseveltiano, anzi cercava di riportarlo, quale caso eccezionale e transitorio dovuto a circostanze storiche particolari, nell’alveo della normale tradizionale liberale statunitense). Per questo, sosteneva Novak, la descrizione storica della formazione del capitalismo fatta da Fanfani risentiva dell’ambiente europeo e del clima degli anni ’30. Il fanfaniano “spirito del capitalismo” non poteva, secondo Novak, ridursi al gretto individualismo giacché proprio in America, al contrario, quello “spirito” aveva mostrato connotati diversi, di generosità creativa, di apertura al benessere collettivo ed alle virtù della laboriosità includente.
La narrazione novakiana dello “spirito del capitalismo”, elaborata negli anni ruggenti dell’edonismo reaganiano, ha fatto molta strada nel mondo culturale cattolico mano a mano che, con l’implodere del comunismo, venivano scemando anche le tendenze catto-comuniste che, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, erano diventate egemoni nei settori più impegnati politicamente della Chiesa. Novak rappresentò la rivincita dei cattolici conservatori – non, attenzione, di quelli tradizionalisti! – che da sempre, sin dall’ottocento, si sono mostrati disposti a patteggiamenti con il liberalismo. Solo l’estendersi dell’influsso politico-culturale “progressista” aveva costretto in una unica trincea di difesa i cattolici conservatori e quelli tradizionalisti. Caduto il comunismo, mentre i tradizionalisti erano ormai fuori gioco per il fatto stesso che il mondo era ormai ben lontano dai modelli premoderni della perduta Cristianità cui essi guardano, ai catto-conservatori si aprirono fino ad allora insperate ed inedite strade di nuova presenza culturale e politica. Da qui i peana rivolti a Novak, Neuhaus e Weigel, quali nuovi profeti dell’alleanza tra Chiesa e mercato che avrebbe messo fine alle secolari incomprensioni e diffidenze cattoliche verso il liberalismo, determinate dalle circostanze del passato. Il Pontificato di Giovanni Paolo II – artatamente interpretato come soltanto anticomunista – sembrava coronare il disegno catto-conservatore.
Pronto ad accusare Fanfani di dipendenza dal clima europeo e “statalista”, Novak non si accorse della sua dipendenza dal clima neoliberista trionfante con Reagan e la Thatcher né si accorse della tempesta in arrivo che avrebbe mandato in frantumi il suo bel quadretto narrativo sulle virtù etiche e sociali del capitalismo americano.
Ci soccorrono, in proposito, al fine di spiegare le distorsioni esegetiche di Novak, le lucide, puntuali, taglienti osservazioni del già citato Charles M. A. Clark per il quale: «Novak … (era) … completamente fuori strada quando (pensava) … che il capitalismo americano sia esente dagli abusi che caratterizzano il capitalismo fuori dall’America, specialmente se da … anni si susseguono rivelazioni sugli abusi contabili delle grandi aziende (e quale azienda ha seguito lo “spirito del capitalismo” meglio della Enron?) (Clark scriveva quando la crisi del 2008, della quale gli episodi come quelli della Enron erano solo un annuncio, gli scricchiolii prima del cedimento, non era ancora arrivata, NdA). In America la concentrazione del potere economico e politico nelle mani delle grandi aziende è maggiore che altrove, a riprova della irrilevanza delle tesi di Novak. Il ragionamento di Novak sull’efficienza del capitalismo va incontro a due difficoltà. La sua conoscenza della storia economica per prima cosa rivela, a voler essere eufemistici, alcune lacune. (In una conferenza, a Baylor) … egli ha citato Bill Gates e la sua Microsoft quale esempio del successo del capitalismo, volendo con ciò dimostrare che una persona di mezzi economici modesti era potuta diventare ricca da accumulare oltre cento miliardi di dollari di patrimonio (…). Su questo si può anche essere d’accordo, a condizione che si dica che Bill Gates, effettivamente nato povero, è riuscito a superare questo handicap grazie all’aiuto del nonno, che gli ha messo a disposizione un capitale che oggi vale milioni di dollari. (…) Novak omette di dire che la ricchezza generata da Bill Gates e dalla new economy è basata interamente su sussidi governativi (ciò che in altri contesti Novak definisce socialismo). I contribuenti pagano per Internet e gli altri servizi della new economy e solo un limitato numero di imprenditori ne gode i benefici economici. In effetti, il periodo di maggior espansione economica è coinciso con lo sviluppo dello Stato sociale, vale a dire con un programma economico di tipo socialista (dunque fortemente osteggiato da Novak e dall’Acton Institute). (…) la seconda difficoltà cui vanno incontro le tesi di Novak è che da nessuna parte nei Vangeli e nella tradizione millenaria del pensiero della Chiesa cattolica, che egli (ha cercato) … di riscrivere, è possibile vedere Gesù proporre un messaggio del tipo “seguitemi e sarete ricompensati con un SUV o con una borsa di Gucci”. La tesi che intende dimostrare la superiorità del capitalismo sul socialismo avrebbe senso davanti ad una platea materialista, ma Novak parla a un pubblico di cristiani e i cristiani, come ci ricorda l’“Hebrew national commercial”, sono tenuti a rispondere ad un’autorità più alta. (…). L’essenza del capitalismo …, come ben sapevano Adam Smith, David Ricardo, John Stuart Mill, Karl Marx, William Stanley Jevons ed i marginalisti, Thorstein Veblen e gli istituzionalisti, John Maynard Keynes e i keynesiani, è la spinta ad accumulare ricchezza utilizzando il denaro per ottenere ancora più denaro attraverso gli scambi di mercato. Si possono sicuramente portare ottimi argomenti a sostegno di quel sistema sociale ed economico, ma tali argomenti non possono essere fondati sui Vangeli che, per la maggior parte, considerano con disprezzo la pratica di far denaro unicamente allo scopo di fare altro denaro. L’obiettivo dello studioso cristiano dovrebbe essere quello di giungere a una comprensione cristiana del fenomeno che egli sta studiando, dal momento che il cristianesimo è una concezione del mondo che racchiude in sé ogni aspetto della vita. Compito del cristiano è rielaborare il mondo perché sia coerente col messaggio dei Vangeli di Gesù Cristo e non di rielaborare i Vangeli per renderli coerenti col mondo» (15).
L’ultima osservazione di Clark è importante perché evidenzia che l’errore dei catto-liberisti è lo stesso errore dei catto-comunisti ossia quello di ridurre il Cristianesimo ad una ideologia socio-economica, di mondanizzare la fede, di adeguarla alla tendenza umana verso le cose seconde e relative obliando il Cielo. Che è, per l’appunto, lo “spirito del capitalismo” che Fanfani, da storico cattolico dell’economia, ha studiato a partire dai suoi albori nel XV secolo.
Ma, dal momento che è stata proprio la speranza oltremondana a rendere possibile la tensione dei cristiani verso la trasformazione del mondo, nel tentativo non facile di avvicinarlo all’ideale evangelico – è stata infatti quella speranza a consentire a Benedetto da Norcia di organizzare in modo efficiente, sotto un profilo economico, le abbazie dei suoi monaci ed è stata sempre quella speranza a spingere Jacob Fugger, il capostipite della più potente dinastia tedesca di banchieri tra XV e XVI secolo, lacerato tra la sua sincera devozione religiosa e la sua pratica bancaria che lo esponeva al peccato di usura, a devolvere cospicua parte dei suoi proventi nella fondazione di una rete di alloggi gratuiti per poveri, che resiste ancor oggi, con il solo obbligo per i beneficiari di pregare una volta al giorno per la sua anima (16) – dobbiamo dire qualcosa sull’unico passo evangelico, dimenticato da Clark, nel quale sembra che sia lodata l’attività finanziaria. Ci riferiamo alla nota parabola dei talenti in Matteo 25, 14-30 ed in Luca 19, 12-27. Per capire il senso vero e profondo di tale parabola, che certo può avere anche risvolti etico-economici, non va dimenticato che essa, in Matteo, è premessa, immediatamente, al discorso escatologico di Cristo ed, in Luca, è inserita nel contesto esegetico dell’annuncio della punizione per il Vecchio Israele per non aver riconosciuto in Lui il “nobile di stirpe”, partito per ritornare un giorno da Re dell’Universo, ed aver pertanto non saputo diffondere, ossia moltiplicare, l’unica mina, quella più preziosa, ossia la Rivelazione, ad esso lasciata in custodia, nascondendola ossia impedendo anche ai pagani di coglierne i frutti.
Se la parabola per essere compresa deve essere letta secondo l’esegesi teologico-escatologica, non si può nasconderne, come si accennava, che essa comporta implicazioni anche di etica economica che sembrano contrastare con la costante condanna biblica dell’usura – condanna già veterotestamentaria benché in contesto antico soltanto intra-ebraica e non ancora universale come sarà con il Cristianesimo – dato che in essa si rimprovera il servo poco coraggioso e pigro di non aver perlomeno consegnato il denaro ai banchieri affinché, sopperendo alla sua incapacità “imprenditoriale”, provvedessero essi a moltiplicare il denaro che poi il padrone al ritorno avrebbe riavuto con tanto di lucro da interesse.
Qui è possibile affermare che se i talenti, che in origine erano monete, diventano nella parabola – e tali sono rimasti nel senso che la parola ha assunto a partire dai Vangeli (si pensi all’espressione “talento artistico”) – anche l’immagine delle capacità spirituali e vocazionali che Dio dona a ciascun uomo, mediante le “informazioni” nel senso proprio di archetipi incorporei trasmessi attraverso le “lettere” dei geni del patrimonio cromosomico ereditato dai genitori (la base chimica è solo veicolo dell’informazione che la trascende), si apre uno spazio anche per sviluppare un’etica dell’uso del denaro. Che non è condannato fino a quando esso è rivolto a far fruttare i talenti, ossia le capacità naturali, per migliorare il mondo e le relazioni tra gli uomini. Il denaro usato in investimenti produttivi, nell’economia reale, non cade sotto la condanna dell’attività usuraica caratterizzata, invece, dal desiderio di accumulare denaro attraverso altro denaro, di far fruttare denaro dal denaro ossia dalla speculazione improduttiva e parassitaria e non dal lavoro produttivo. In tal senso anche il banchiere può teoricamente assolvere ad uno scopo eccentrico invece che autocentrico – come in diversi casi ricorrenti nelle esperienze storiche della Cristianità, dai quattrocenteschi monti di pietà alle ottocentesche casse popolari – se non fosse per il fatto che, salvo l’intervento di puntuali legislazioni repressive, la tendenza che si riscontra, causa ferita originale, è verso i comportamenti autocentrici, speculativi.
La parabola dei talenti, dunque, insegna, sul piano dell’etica economica, che la moneta deve essere usata – all’estremo anche donata (“prestate senza nulla sperare”, Luca 6.34-35) – per il bene comune e non desiderata per avidità e potere. Come evidenziato da Fanfani, lo “spirito del capitalismo”, basato sull’autoreferenzialità individualistica, compare sulla scena storica quale esatto contrario dell’etica economica suggerita dai Vangeli anche nella parabola dei talenti.
Il punto equivoco di Novak e dei catto-liberali è che essi, quando indagano sulle relazioni tra Cristianesimo e capitalismo, fanno leva soltanto sui documenti del Magistero Sociale più recenti. Questi vengono oltretutto presi in modo a sé stante e quindi per tale via falsificati. Perché se presi senza alcun riferimento all’intera tradizione magisteriale che li precede possono dare effettivamente l’impressione di una apertura – una resa? – alle ragioni del capitalismo laddove, invece, si tratta solo di adattamento, fermi rimanendo i principi, alla diversità epocale della loro redazione. Novak ha dimenticato che la tradizione sociale della Chiesa vanta duemila anni di attenta riflessione teologica su come il cristiano deve approcciare l’attività economica. Una riflessione che ha posto Cristo quale fondamento e premessa di ogni discorso in campo socio-economico e che quindi, pur nel variare dei tempi, si è sempre sforzata di guardare ai fenomeni economici attraverso il filtro dei Vangeli.
Leone XIII nel paragrafo 14 della “Rerum Novarum” avverte, non a caso, che: «niente è più utile che guardare al mondo per come effettivamente si presenta e allo stesso tempo guardare altrove per cercare rimedi ai suoi guai». E il documento vaticano “Linee guida per lo studio e l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa nella formazione dei preti” aggiunge: «… nell’osservare e giudicare la realtà, la Chiesa non è e non può essere neutrale in quanto non può che cercare di adattare le scale di valori enunciate nei Vangeli. Se, parlando per assurdo, si dovesse conformare ad altre scale di valori, il suo insegnamento non sarebbe quello che è in realtà, ma si ridurrebbe a una filosofia e a un’ideologia distorte». In altri termini, qui si sta ribadendo una questione implicita nel corso dei secoli ma basilare ossia quella per la quale il criterio che una politica economica cristiana deve seguire non è quello dell’efficienza economica, per quanto anch’essa deve essere tenuta in conto, quanto invece preliminarmente e principalmente il criterio dell’eticità, intesa come giustizia anche sociale, al quale, in caso di contrasto, è l’efficienza che deve cedere il passo. Questo, è evidente, significa che l’economia non ha il primo posto e che il suo pur giusto spazio di autonomia viene selezionato sulla base delle dottrine economiche che maggiormente si avvicinano e si conformano al prioritario principio etico della giustizia sociale. Viene, cioè, ripresa la tradizionale gerarchia sacro-politico-economico e riaffermata contro la sovversione liberista. Naturalmente, per la Chiesa non si tratta innanzitutto di una ricetta di politica economica quanto piuttosto di conversione del cuore, trasformazione interiore, apertura alla Luce purificatrice di Dio, senza la quale gli uomini chiamati ad applicare la dottrina, e le scelte politico-economiche assunte nelle date circostanze storiche, non farebbero opera di salvezza nel sociale ma soltanto sociologia.
Non è il mercato a creare il Politico perché questo non è una marxiana sovrastruttura ma è la dimensione umana alla quale anche il mercato è subordinato e che a sua volta è subordinata al Sacro. Il capitalismo di mercato è instabile non solo perché non è capace di realizzare da solo la piena occupazione o la stabilità dei prezzi ma soprattutto perché esso, con la sua pretesa di autonomia negatrice del Politico e del Sacro, erode lo stesso spazio vitale di cui ha bisogno per sussistere. Erode le basi teologiche ed antropologiche dell’umanità implodendo nel nichilismo. Nonostante tutte le risorse finanziarie e produttive che il capitalismo di mercato riesce a mobilitare, nel trionfo dell’“egoismo benefico” versione secolare del luterano “peccato salutare”, non potrà mai riempire il buco nero del nulla che esso apre nel cuore dell’uomo. L’esito del capitalismo di mercato è solo uno: il suicidio, da inedia e depressione esistenziale, dell’uomo e dei popoli.
«La tradizione del pensiero sociale cattolico – scrive a chiosa Charles M. A. Clark – è perfettamente consapevole dell’essenza del capitalismo, il cosiddetto “spirito del capitalismo”, perché quello spirito è basato su una nozione centrale nella teologia cristiana: il peccato originale. Il pensiero sociale cattolico guarda con scetticismo agli argomenti addotti in difesa del capitalismo, ad esempio che i vizi privati promuovano la pubblica virtù, perché sa bene che gli individui saranno chiamati a rispondere dei propri vizi. L’argomentazione che la grettezza (l’interesse personale) promuova il progresso economico e la creazione della ricchezza può essere ben congegnata, ma per il cristiano non sono importanti né il progresso economico né la ricchezza, bensì il benessere spirituale dell’individuo. Se è del tutto inutile, ai fini della salvezza, disporre dell’intera ricchezza della terra, inutile, a maggior ragione, è avere il patrimonio di Bill Gates. (…) è questo il problema col quale l’economista cristiana è chiamato a misurarsi» (17).
In fondo “nihil novi sub sole” perché il Clark fa eco all’ammonimento di Nostro Signore Gesù Cristo: «Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?» (Marco 8,36).
L’incompatibilità tra Cattolicesimo e “spirito del capitalismo” è tutta racchiusa in questo ammonimento. E non ci sono argomenti validi che la possano superare.
Luigi Copertino
NOTE
1. L’opera è stata riedita in Italia, per la Marsilio di Venezia, nel 2005 con una ampia e bella introduzione del prof. Piero Roggi, ordinario di Storia del pensiero economico presso la Facoltà di Economia dell’Università di Firenze, una prefazione di Antonio Fazio, già governatore della Banca d’Italia, ed il patrocinio della Fondazione Amintore Fanfani. Il libro, non più pubblicato nel nostro Paese dopo la sua seconda edizione del 1944, è invece molto conosciuto negli Stati Uniti dove esso ha avuto diverse edizioni ed è stato per anni l’opera di riferimento principale, in tema di storia e critica economica, sia dei cattolici democratici sia dei cattolici tradizionalisti, prima che questi ultimi cedessero alle erronee e distorcenti interpretazioni, intese ad illegittimamente sposare etica cattolica e capitalismo, avanzate in trionfante clima reaganiano dai cosiddetti “teologi del capitalismo”, Michael Novak, George Weigel e Richard Neuhaus, ossia gli alfieri, insieme a sociologi protestanti come Rodney Stark, del neo-teo-conservatorismo negli ambienti cattolici americani, immeritatamente strombazzati in Italia, sull’onda del berlusconismo, da associazioni catto-conservatrici, funzionali alla deriva del tradizionalismo verso il liberismo, come Alleanza Cattolica e da circoli ordoliberali quali l’Acton Institute italiano. La riedizione italiana del 2005, infatti, riporta, come documentazione del dibattito accesosi negli Stati Uniti intorno al libro dello storico aretino, le prefazioni delle ultime edizioni americane dell’opera di Fanfani: quella, del 1984, vanamente demolitrice di Micheal Novak, che da giovane seminarista negli anni ’50 leggeva Fanfani per poi abbandonarlo all’atto della sua assunzione nell’American Enterprise Institute, un think tank neocons, seguita da quelle, del 1984 e del 2003, efficacemente demolitrici della prefazione di Novak e felicemente riaffermatrici dell’importanza, ancor insuperata, dell’opera storiografica di Fanfani, per la comprensione storica e spirituale del dissidio tra etica cattolica e spirito capitalista, di Charles K. Wilber, Charles M. A. Clark e di Giorgio Campanini.
2. Cfr. Charles M. A. Clark “Cristianità e capitalismo all’inizio del XXI secolo” ora in appendice a A. Fanfani “Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo”, Marsilio, Venezia, 2005, pp. 252-253.
3. E’ certo interessante questo nominalismo sotteso all’indirizzo mengeriano. Veniamo in tal modo a comprendere il sostanziale liberalismo filosofico al quale si ispirava, magari inconsapevolmente, Umberto Eco. Un nominalismo che nella sua traduzione in economia, storicamente bollata l’utopia socialista essa stessa a ben vedere intrinsecamente individualista (la collettività come contratto tra individui di per sé irrelati), diventa inevitabilmente proclamazione di individualismo ossia di liberismo, anche contro le intenzioni di Guglielmo di Baskerville, l’autobiografico personaggio del romanzo echiano “Il Nome della Rosa”.
4. Cfr. Charles M. A. Clark, op. cit., pp. 254-255.
5. Cfr. Luigi Pasinetti “Dottrina Sociale della Chiesa e Teoria Economica”, Relazione presentata il 24 giugno 2010 nella Sessione di Apertura del VII Simposio Internazionale dei Docenti Universitari organizzato dal Vicariato di Roma.
6. Cfr. L. Pasinetti, op. cit..
7. Cfr. Umberto Mazzei, “Sismondi, précurseur ignoré par Marx”, Slatkine Erudition, Genève 2018. Mazzei ha svelato come Marx abbia distorto e manomesso le idee pionieristiche di Sismondi, appropriandosi, senza citarlo, di quanto in esse faceva al caso suo. In un certo senso Sismondi può essere considerato un keynesiano ante litteram. Nei suoi studi (Nouveaux Principes d’Économie Politique, 1819 e 1827, e Études sur l’Économie Politique, 1837), egli sostiene che il capitalismo, all’epoca nascente agli albori della Rivoluzione Industriale, può essere redento dai suoi peccati se i governi intervengono, con politiche sociali, per correggere le disuguaglianze estreme e dirigere l’economia verso una crescita equilibrata e sostenuta. Proprio per questo Marx lo squalifica chiamandolo “socialista piccolo borghese”. Quello che preoccupava Marx è che Sismondi propone ricette per raddrizzare e salvare il capitalismo, non per distruggerlo. Sismondi, analizzando gli aspetti disarmonici del capitalismo non colti da Smith e Ricardo, introduce, nel dibattito ottocentesco, a sua volta riprendendolo dal retaggio cristiano, il concetto di equità nella distribuzione delle ricchezze che il capitalismo dimostra di saper produrre più efficacemente ma non di saper spontaneamente distribuire in modo equo. A lui Marx ha sottratto anche l’idea del plusvalore. Sismondi, tuttavia, non crede che il lavoratore possa migliorare le sue sorti al di fuori del quadro di un capitalismo opportunamente corretto. Ecco perché egli sottolinea il ruolo che, nella nuova “fase industriale”, i governi devono assumere mediante leggi a tutela del lavoro, le pensioni, l’educazione, la regolazione anti-speculativa del sistema bancario. Anticipando la critica di Keynes alla teoria del Say, in contrasto con i suoi colleghi liberisti difende il salario del lavoratore perché è questo che lo rende capace di comprare, quindi di consumare e di mantenere la crescita dell’economia, ossia di sostenere la domanda sulla quale, e non sull’offerta, si basa l’economia. Sismondi parlava di salari affermando che non soltanto devono compensare le ore lavorative ma devono anche essere sufficienti per assicurare una buona vecchiaia o il reddito del lavoratore durante le malattie. Introduce anche l’idea di un “salario familiare” ossia commisurato alle esigenze della famiglia. Quel che più tardi sarà conosciuto come “assegna di famiglia”. Pur riconoscendo i benefici del libero scambio Sismondi lanciò segnali di allarme perché comprese che commercio e industrializzazione possono destabilizzare la società. Individuò la tendenza del capitalismo alla sovrapproduzione causata dalla contrazione della domanda per lo strabismo di considerare il profitto quasi tutto ed il salario quasi niente. Il ginevrino fu determinato nelle sue critiche al sistema capitalista ma realista nelle sue proposte: invocò interventi statali come necessari, addirittura indispensabili, per “socializzare” l’efficienza economica del capitalismo a vantaggio sia degli imprenditori che dei lavoratori. Riteneva che la proprietà privata lungi dall’essere abolita doveva essere resa accessibile a tutti grazie ad un saggio riformismo. Sismondi, prima dello stesso Marx, utilizza l’espressione lotta di classe ma con l’obiettivo di ridurla, possibilmente eliminarla, attraverso l’intermediazione della mano pubblica. Inventa il termine “proletariato” per perorare il dovere dello Stato di intervenire al fine di migliorare le condizioni di vita dei ceti meno abbienti, in un quadro di etica sociale. Sembra, dunque, che Marx si sia appropriato di molte idee di Sismondi, nella pars analitica, ma lo abbia poi criticato, nella pars terapeutica, perché il ginevrino mirava a politiche sociali regolatrici e non al comunismo. Infatti le prime hanno bisogno dell’Autorità politica, dello Stato, il secondo sarebbe apparso, a detta di Marx, soltanto dopo la graduale estinzione dello Stato, dopo l’iniziale fase temporanea della “Dittatura del proletariato”. Il comunismo esattamente come il libero mercato rigetta l’idea di Stato.
8. Cfr. L. Pasinetti, op. cit..
9. Cfr. L’Europa in quegli anni era sotto gli effetti di impressionanti ondate rivoluzionarie. Nel 1864 si era costituita a Londra la Prima Internazionale socialista ed aveva tenuto i suoi quattro congressi, nella seconda metà degli anni sessanta del XIX secolo (1866 a Ginevra, 1867 a Losanna, 1868 a Bruxelles, 1869 a Basilea). Alla fine della guerra franco-prussiana del 1870, c’era stato il primo tentativo rivoluzionario comunista: la Commune di Parigi, nel marzo-maggio 1871.
10. Cfr. L. Pasinetti, op. cit..
11. Cfr. L. Pasinetti, op. cit..
12. Cfr. L. Pasinetti, op. cit..
13. Cfr. L. Pasinetti, op. cit..
14. Cfr. L. Pasinetti, op. cit..
15. Cfr. Charles M. A. Clark, op. cit., pp. 255-257.
16. Qui si deve fare un cenno alla vexata quaestio dell’“invenzione del purgatorio” introdotta da Jacques Le Goff. Il grande storico francese, in realtà, non ha mai parlato di “invenzione” nel senso di un dogma costruito di sana pianta per venire incontro alle difficoltà di uomini come il Fugger in un’epoca nella quale il fanfaniano “spirito del capitalismo” era ormai libero dai vincoli che in precedenza lo reprimevano. Le Goff sapeva benissimo che la dottrina del purgatorio ha sicure basi bibliche, persino veterotestamentarie, e che quindi la sua riscoperta, o meglio il suo approfondimento a partire dal tardo medioevo, era piuttosto una “infernalizzazione” dello stato purgante. Del resto, questa infernalizzazione aveva preceduto lo stesso XV secolo. Dante, ad esempio, ne è già perfettamente al corrente Dante Alighieri nello stendere La Commedia. In altre parole, tra XIII e XV secolo l’immaginario relativo al purgatorio, come luogo di pena, inizia ad assomigliare all’inferno piuttosto che ad un luogo di quasi serena espiazione in attesa della Visione Beatifica. Le Goff ritiene che questo infernalizzazione del purgatorio sia stata indotta nella Chiesa, la cui legge principale è quella della “salus animarum”, dall’emergere esplosivo della nuova economia mercantile-creditizia che si scontrava frontalmente con l’etica economica anti-usuraica da Essa propugnata. A fronte delle tensioni di coscienza che nascevano nei fedeli dediti alla nuova economia, la Chiesa sarebbe loro venuta incontro rendendo più duro il purgatorio ma lasciando così anche a questi homines novi una speranza di salvezza. In sostanza sarebbe stata un’operazione che, benché mossa da esigenze pastorali, diventò funzionale alle aspettativa del nuovo ceto mercantile-bancario. Quel che, tuttavia, Le Goff, da storico poco avvezzo con la mistica, dimentica è il fatto che il processo di infernalizzazione del purgatorio fu in realtà accompagnato da un approfondimento teologico affiancato e sollecitato innanzitutto dalle esperienze extracorporee – molto simili alle odierne e diffuse esperienze di pre-morte ma non del tutto eguali ad esse – di cui la letteratura lasciata dai mistici iniziava ad abbondare. Si può anche laicamente non prestare fede a detta letteratura, o interpretarla in modo disincantante, ma resta tuttavia il fatto che di esperienze reali si trattava, come quella di cui testimonia nelle sue lettere san Paolo benché in relazione al “Terzo Cielo”. Le descrizioni degli stati post mortem, di detta letteratura mistica, influenzò l’immaginario, anche teologico e non solo popolare, molto più delle pur contingenti considerazioni di natura pastorale nei confronti dei mercanti. Si dà il caso che, in termini metafisici, gli stati post-mortem, infernali come pure quelli purganti e paradisiaci, siano molteplici, quasi quanti i trapassati nel senso che ciascuno li vive secondo quanto ha seminato in vita, sicché la “scoperta” medioevale di purgatori simili agli inferni altro non era che l’approfondimento, per via di esperienza mistica, di realtà oltremondane in precedenza note solo per quelle più vicine ai paradisi. Da qui il mutamento in seno alla Cristianità dell’immaginario prevalente sul purgatorio.
17. Cfr. Charles M. A. Clark, op. cit., p. 259.