Minima Cardiniana 438/4
Domenica 29 ottobre 2023, San Narciso
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Gerardo Padulo, L’ingrata progenie. Grande guerra, Massoneria e origini del Fascismo (1914-1923), Siena, Nuova Immagine Editrice, 2018.
Gerardo Padulo, storico con all’attivo importanti studi sull’Italia tra primo conflitto mondiale e periodo fascista, ha pubblicato nel 2018 questo testo, con ampia documentazione di fonti, che approfondisce i rapporti tra massoneria e fascismo giungendo alla conclusione che il fascismo è stato incubato ideologicamente nelle logge ossia che gli ideali della massoneria fossero in sè “pre-fascisti” ancor prima della comparsa del movimento fascista. Una paternità ideologica che però il fascismo, non appena giunto al potere, ripudiò dimostrandosi pertanto una “ingrata progenie”.
Benché la tesi sulla derivazione massonica del fascismo, o di una parte cospicua di esso, sia ampiamente suffragata dalla documentazione offerta, il libro resta tuttavia alquanto silente sui motivi, quelli che il recensore ritiene i più autentici, del rinnegamento fascista e, sempre a giudizio del recensore, non dà il giusto peso “filosofico” al ruolo che ebbe Mussolini in quel ripudio. Per cercare una risposta convincente del voltafaccia fascista si dovrebbero approfondire i retaggi dell’antimassonismo del periodo socialista che Mussolini non aveva deposto ed i retaggi, non immediatamente coscienti al capo fascista, dell’educazione cattolica ricevuta dalla madre, Rosa Maltoni. Una educazione che Mussolini aveva accantonata, più che consapevolmente rigettata, mentre rimase esplicita nel fratello Arnaldo e nella sorella Edvige. Questi retaggi sono stati senza dubbio cause o concause determinanti dell’“ingratitudine fascista” verso la massoneria che, invece, il fascismo aveva sostenuto e tenuto a balia nello sviluppo delle idee. La ricerca di Padulo tuttavia non segue questo terreno nel tentare una risposta. Così, però, sulla scena resta soltanto il tatticismo politico di Mussolini impegnato nell’obiettivo di preparare il campo alla Conciliazione, ritenuta strumentale al consenso per il regime.
Padulo indaga soprattutto sui rapporti tra il fascismo emergente e la massoneria di Palazzo Giustiniani, ossia il Grande Oriente d’Italia, e non anche sui rapporti con la Grande Loggia di Piazza del Gesù. Le due Obbedienze erano il risultato dello “scisma” intervenuto il 24 giugno 1908 a causa del diverso atteggiamento da tenersi nei rapporti con la Chiesa Cattolica. Che era di chiusura integrale da parte dei massoni radicali e di possibile apertura ad una collaborazione, in chiave conservatrice, da parte dei massoni inclini a moderare l’anticattolicesimo in un’ottica non dissimile da quella che nel 1913 avrebbe portato al Patto Gentiloni tra liberali moderati e cattolici conservatori in funzione antisocialista. Quando Leonida Bissolati, massone e socialista riformista, propose alla camera la sua legge sull’abolizione dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari, le divergenze provocarono la definitiva scissione con la fuoriuscita dal Grande Oriente dei massoni conservatori che fondarono la Grande Loggia d’Italia con sede a Piazza del Gesù. Sorvolando su questa scissione, Padulo si concentra sul ruolo determinante avuto dalla massoneria di Palazzo Giustiniani nei tre eventi fondamentali per la storia del fascismo e dell’Italia della prima metà del XX secolo, ossia la fondazione il 15 novembre 1914 de “Il Popolo d’Italia” recante il sottotitolo di “quotidiano socialista” e più tardi “quotidiano dei combattenti e dei produttori”; la nascita ufficiale dei fasci di combattimento nell’adunata di piazza San Sepolcro del 23 marzo 1919; la marcia su Roma del 28 ottobre 1922.
Onde comprendere la matrice massonica non del fascismo in sé quanto delle idee di “democrazia nazionale e sociale” che inizialmente lo caratterizzarono, Padulo parte dalle cause che portarono l’Italia alla dichiarazione di guerra, rintracciate in una molteplicità di fattori. Dalla debolezza del sistema parlamentare albertino, il quale produceva governi privi di forte base popolare, all’opera della “massoneria internazionale” nella caduta di Salandra, fino al susseguirsi alla presidenza del consiglio dei massoni Boselli e Orlando. Ne risulta che la Grande Guerra, in Italia, ma – ci sentiamo di aggiungere – anche altrove nell’Europa del tempo, deve essere intesa, in una certa misura non indifferente, come un evento voluto, guidato e governato dalla massoneria. La ricerca di Padulo include nel novero delle cause del primo conflitto mondiale anche il ruolo che ebbe, benché in modo certamente non esclusivo, la massoneria. Un elemento causale che va ad unirsi ad altri fattori quali la geopolitica, la questione irredentista, il completamento del Risorgimento, il conflitto interno tra interventisti e neutralisti. La quantificazione del peso effettivo della massoneria nell’entrata in guerra dell’Italia non sembra, tuttavia, la questione più importante della ricerca, anche perché quel peso fu condiviso con il ruolo svolto dai “poteri forti” del tempo, grandi banche e grande industria, spesso, ma non sempre, intrecciati con la massoneria stessa. Pochi anche i cenni sulle correnti massoniche neutraliste che pur non mancavano.
La novità della ricerca di Padulo non sta nella evidenziazione degli aiuti finanziari, noti da tempo all’indagine storiografica, della massoneria a Mussolini per la fondazione del suo quotidiano socialista interventista, in polemica con il neutralismo del PSI. Aiuti, compresi quelli indiretti per mezzo di società anonime amministrate da massoni, ottenuti dal futuro duce tramite il “fratello” Filippo Naldi direttore de “Il Resto del Carlino”. Piuttosto, per meglio comprendere l’insofferenza di Mussolini verso la pur aiutante massoneria, va rilevato che il futuro duce cercò immediatamente di emanciparsi dal Naldi ottenendo altri aiuti dai socialisti francesi – d’altronde anch’essi oltralpe spesso legati ai “fratelli in grembiulino” – che, avendo aderito allo sforzo bellico nazionale, erano non meno interessati dei massoni italiani all’ingresso in guerra del nostro Paese. L’elemento peculiare della indagine di Padulo sta nell’aver messo in rilievo che la massoneria fece proprie le istanze dell’interventismo contribuendo a renderle popolari attraverso il quotidiano diretto da Mussolini. Si trattava di “fare della guerra una guerra di popolo” togliendo alla stessa l’immagine, prevalente nel partito socialista, di una guerra della borghesia contraria agli interessi del proletariato.
La Grande Guerra per la massoneria era il compimento del Risorgimento e come tale aveva di mira l’abbattimento degli Imperi “reazionari” ed in particolare di quello asburgico considerato, a torto, l’alfiere dell’oscurantismo cattolico che, secondo la propaganda massonica, si opponeva al progresso dell’umanità. Un leitmotiv propagandistico che riecheggiava anche a Londra e Parigi e che, come ha dimostrato François Fejto (“Requiem per un impero defunto – la dissoluzione del mondo austro-ungarico”, Mondadori, 1990), impedì il buon esito delle proposte di pace del beato Carlo d’Asburgo, ultimo imperatore. In realtà la propaganda interventista della massoneria era espressione di una avversione ideologica che non trovava corrispondenza nella effettiva realtà dell’Austria-Ungheria del tempo, la quale era una Monarchia costituzionale plurinazionale in procinto di diventare una compagine confederale di popoli. Ma la massoneria italiana, perlomeno quella di Palazzo Giustiniani, aveva per obiettivo conclamato una Nuova Italia compimento definitivo del processo risorgimentale, rimasto incagliato in una provvisoria soluzione moderata. Per raggiungere tale obiettivo era assolutamente necessario farla finita con il pacifismo arrendevole degli italiani educati per secoli dall’“oscurantismo” cattolico. Il Risorgimento aveva fatto l’Italia, la Guerra Mondiale avrebbe fatto i nuovi italiani. Il socialismo interventista di Mussolini era uno strumento utile allo scopo.
Secondo Padulo per capire il fascismo è pertanto necessario “ricostruire la storia della sua fase originale” che è strettamente connessa con la strategia interventista della massoneria. Quest’ultima è “la via obbligata” per comprendere perché e come nacque il fascismo. Nel 1914, dunque, veniva inaugurata una collaborazione tra massoneria e quello che era in quel momento solo un movimento di opinione, il quale si stava raccogliendo intorno a Mussolini. Una collaborazione che avrebbe trovato continuità dopo il conflitto nella fase di gestazione vera e propria del fascismo diciannovista, per la mediazione dell’adesione di personaggi – si noti, però, della sinistra nazionale più che della destra – iscritti alla massoneria e destinati a ruoli di vertice nel regime, da Dino Grandi a Giuseppe Bottai, da Roberto Farinacci a Edmondo Rossoni (leader del sindacalismo rivoluzionario in transito al sindacalismo nazionale), da Italo Balbo a Cesare Maria De Vecchi. Alla luce di tale percorso, Padulo azzarda una non peregrina deduzione ossia che la genesi del fascismo andrebbe anticipata dal 1919 al 1914, anno della rottura di Mussolini con il neutralismo socialista e della fondazione, con l’appoggio massonico, de “Il Popolo d’Italia”, un quotidiano espressione, per dirla con Renzo De Felice, della sinistra eterodossa, portatrice di una nuova cultura alimentata dalle correnti vitaliste e irrazionaliste delle avanguardie filosofiche e letterarie novecentesche, insofferente del “dogmatismo” del socialismo dottrinario ufficiale.
A guerra conclusa ci si rese conto che l’epoca del liberalismo elitario ottocentesco era finita per sempre, sicché anche per la massoneria, come per qualsiasi movimento religioso, culturale o politico, il futuro era nella politica di massa. In tale scenario il patriottismo interventista di popolo dell’anteguerra tornava utile allo scopo sicché la riunione di piazza San Sepolcro non poteva non essere gradita alla Loggia. Detta riunione, dice Padulo, costituì il traguardo finale di un processo già in atto nel quale le presenze massoniche furono molte ed importanti, in termini di uomini ed anche di luoghi dato che la sala della riunione del 23 marzo 1919, presso il Circolo dell’Alleanza Industriale di Milano, fu messa a disposizione da un imprenditorie ebreo e massone, Cesare Goldmann. L’autore non esita a parlare di “epifania massonica”.
Tuttavia, riteniamo non ben calibrato l’eccessivo peso dato da Padulo all’attenzione da parte dell’Esercito e delle forze conservatrici, dall’industria alla finanza, verso le azioni “antisovversive” delle squadre fasciste nel biennio rosso. Secondo l’autore, questa attenzione sarebbe passata attraverso la massoneria per “rapporti istituzionali” o per l’adesione massonica dei funzionari del “Deep State”, a partire dall’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore dell’Esercito fino agli Uffici Stampa e Propaganda dei comandi territoriali. In realtà, se si parte dall’assunto, ormai ampiamente dimostrato, che il “biennio rosso” non fu una rivoluzione soffocata dalla “reazione fascista” ma una sorta di jacquerie mossa dall’illusione della rivoluzione ad imitazione dell’esempio russo – rivoluzione impossibile in un Paese come l’Italia all’epoca più moderno della Russia – ben si comprende che l’appoggio al fascismo non venne soltanto dalle Istituzioni o da forze conservatrici ma da un’ampia parte dell’opinione pubblica del tempo, anche popolare e non solo borghese, inorridita dalla brutalità gratuita dei “rossi”, che offendevano e spesso aggredivano i soldati tornati dal fronte, bruciavano chiese e violentavano educande e suore degli istituti religiosi. In particolare il consenso al nascente fascismo venne dal ceto medio, incastrato tra capitale e proletariato, che, in cerca della sua egemonia politica socialmente riformatrice, si oppose all’occupazione delle fabbriche non per le istanze di giustizia sociale avanzate dagli occupanti, che anzi erano viste positivamente, ma per il carattere antinazionale mostrato dal socialismo ufficiale in controtendenza con il patriottismo di massa del movimento interventista forgiato nel fuoco dell’esperienza bellica delle trincee. In altri termini il ceto medio fu spinto a destra dalla cecità del PSI abbagliato dalla Rivoluzione d’Ottobre ma incapace, se non a parole, di emularla in Italia.
Orbene, proprio l’Obbedienza del Grande Oriente di Palazzo Giustiniani, e non anche quella della Grande Loggia d’Italia di Piazza del Gesù, era su posizioni, di retaggio mazziniano e socialista risorgimentale, favorevoli ad una “democrazia sociale”. Posizioni che, quindi, convergevano con il programma sansepolcrista della sinistra fascista ossia del fascismo diciannovista. Invece la Grande Loggia d’Italia, con sede a Piazza del Gesù, nata dalla scissione del 1908, perorava una concezione conservatrice della nazione. Non a caso, il Gran Maestro dell’Obbedienza di Palazzo Giustiniani, Domizio Torrigiani, dopo un iniziale appoggio al fascismo nella sua fase diciannovista, ritrasse, attraverso una missiva a Mussolini, nella quale gli contestava l’accusa di non patriottismo mossa dal duce, il sostegno della sua Loggia quando il fascismo virò a destra. Mentre Palazzo Giustiniani tornava sui suoi passi, non venne invece meno l’aiuto della massoneria conservatrice di Piazza del Gesù. Se c’è, quindi, stando alla tesi del Padulo sulla sua origine massonica, un elemento da evidenziare è che anche la dicotomia interna al fascismo si trovava già nella matrice massonica. In altri termini, nel fascismo si riproponeva la stessa divisione tra una sinistra ed una destra che si trovava nella massoneria. Sicché al fascismo di sinistra, o sinistra fascista, quello originario, corrispondeva la massoneria di ideali demosociali e progressisti del Grande Oriente ed al fascismo di destra, o destra fascista, quello del patteggiamento del 1920-21 con i fiancheggiatori nazionalisti e conservatori, corrispondeva la massoneria nazional-conservatrice della Grande Loggia.
La marcia su Roma, per Padulo, anche al di là della presenza massonica, è stato quindi l’esito di un processo avviatosi nel 1914. Ma proprio a partire dal 28 ottobre 1922 prende forma una dinamica molto diversa dalla fase precedente, che porterà alla frattura definitiva tra il movimento fascista, ormai regime, e la massoneria. Padulo, forse nell’intento di smorzare la radicalità delle conclusioni cui arriva la sua ricerca volta a sottolineare, quasi come esclusiva, la matrice massonica del fascismo, accenna all’esistenza anche di una “massoneria liberale”. Egli vede in questa altra massoneria quella vicina alle forze della sinistra antifascista. Ma in realtà, sotto il profilo delle idee, anche questa diversa massoneria si situava nelle prossimità politiche della sinistra fascista che era stata anch’essa in qualche modo tradita dal regime, nato attraverso il patteggiamento con i conservatori. A giudizio del recensore, invece, la frattura tra massoneria e fascismo non fu causata soltanto dalla presenza di componenti liberali in seno alla prima o soltanto dal ravvedimento dell’Obbedienza di Palazzo Giustiniani nella persona di Torrigiani ma anche da altri fattori che l’autore sembra trascurare. Le più incisive cause che determinarono l’approvazione della legge del 26 novembre 1925 contro le società segrete, la quale costrinse i molti fascisti massoni a scegliere tra le due appartenenze o a porre in sonno, per dirla nel gergo massonico, l’obbedienza alla loggia, devono essere cercate altrove. In tale ottica, forse, l’idea che il fascismo sia stata una “ingrata progenie” apparirà non negata ma certo posta in relazione ad uno scenario più vasto all’interno del quale, a giudizio del recensore, lo si accennava anche agli inizi, un peso fondamentale lo ebbe la personalità di Benito Mussolini. Perché se è vero che il futuro duce – il quale in politica era un grande tattico – utilizzò la massoneria per la sua scalata al potere, come del resto usò anche altre forze di vario orientamento, è altrettanto vero che Mussolini fu sempre apertamente un acerrimo nemico della massoneria sin dai tempi della sua militanza socialista, quando nel congresso del partito nel 1914 fece approvare un documento inerente l’incompatibilità tra iscrizione al PSI ed obbedienza massonica, e tale restò anche da fascista, ossia da socialista nazionale, intravvedendo nella massoneria, in particolare in quella di Piazza del Gesù nonostante ne avesse gradito l’appoggio, un covo di “reazionari”.
Proprio il fatto che la rottura con la massoneria seguì immediatamente alla marcia su Roma, e quindi fu un indirizzo diventato palese già prima della legge del 1925 – allorché Mussolini, giunto ormai al potere, impose al Gran Consiglio del Fascismo, nella seduta del 15 febbraio 1923, una dichiarazione ufficiale di incompatibilità tra l’iscrizione al Partito Nazionale Fascista e l’appartenenza alle logge massoniche, replicando in sostanza quanto aveva fatto nel 1914 nel congresso socialista di Ancona –, dimostra l’assoluta estraneità del capo del fascismo alla massoneria. Le supposizioni, da taluno avanzate, in merito alla sua accettazione del brevetto massonico di 33° grado offertogli ad honorem da Raoul Palermi, Gran Maestro della Grande Loggia d’Italia di Piazza del Gesù, secondo la testimonianza di Michele Terzaghi massone e deputato del PNF, quindi interessato ad evitare problemi nella sua carriera da fascista, non hanno mai trovato fondamento documentale, né il brevetto e la presunta firma di approvazione posta su di esso da Mussolini sono mai stati esibiti.
Ma c’è dell’altro. Come già accennato, in Mussolini sussisteva un retaggio educativo cattolico da parte materna che era stato soltanto obnubilato, sostituito nella promessa di redenzione dalla “escatologia” socialista, ma non rigettato coscientemente, nonostante le sue proclamazioni di ateismo. Qui rimandiamo alla ricerca effettuata da Ennio Innocenti nel bel libro “La conversione religiosa di Benito Mussolini” (IX edizione, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma, 2001) che attrasse l’attenzione di Renzo De Felice, benché lo storico reatino non ebbe il tempo di approfondire le testimonianze addotte dall’Innocenti in favore della tesi della conversione, o, meglio, della riscoperta da parte di Mussolini, anche per via di eventi dolorosi della sua vicenda personale, ad iniziare dalla morte dell’amato figlio Bruno e poi dal tradimento del 25 luglio 1943, della antica fede che la madre gli aveva trasmesso da bambino.
L’iniziale approccio di Mussolini al Cattolicesimo fu senza dubbio motivato, in vista della Conciliazione, da mera tattica politica – era il “duce” di un popolo cattolico e non poteva non tenerne conto – ed egli, infatti, non mancò di rassicurare i fascisti di formazione laica, ad iniziare da Giovanni Gentile, critici verso quella svolta, affermando che mai e poi mai lo Stato fascista, anche dopo i Patti Lateranensi, si sarebbe piegato alla Chiesa di Roma laddove Essa avesse debordato dalla sua missione esclusivamente religiosa per calcare il terreno politico. Non a caso di lì a poco la crisi del 1931, poi rientrata grazie ai buoni uffici di padre Pietro Tacchi Venturi, per l’autonomia dell’Azione Cattolica avrebbe dimostrato che il conflitto tra la religione politica del fascismo (Emilio Gentile) e la religione trascendente tradizionale era stato solo “coperto” dai Patti Lateranensi e non risolto.
D’altro canto l’avvicinamento di Mussolini al Cattolicesimo aveva, in termini politici, un certo riscontro da parte del mondo cattolico il quale, a partire dai suoi esponenti più noti del tempo – padre Agostino Gemelli, fondatore e Preside dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il professore di storia dell’economia e corporativista convinto Amintore Fanfani, il giovane professore Aldo Moro campione nei Littoriali della Cultura, quel grande intellettuale che fu don Giuseppe De Luca, il “Centro Cattolico Nazionale” e, sebbene alla distanza, lo stesso Alcide De Gasperi pur perseguitato dal regime –, guardava con simpatia ed interesse alla realizzazione fascista del corporativismo, ed alla connessa politica sindacale in favore dei ceti più deboli, che era stato in origine la piattaforma programmatica del cattolicesimo sociale. Persino Pio XI, nella enciclica “Quadragesimo Anno” del 1931, benedisse, sebbene con critiche ed ammonimenti, l’esperimento del regime. E si badi che questa attenzione cattolica verso il corporativismo del regime nei suoi contenuti critici, ma assolutamente costruttivi, era dello stesso tipo di quella che alle strutture sindacali fasciste, come all’epoca imperfettamente realizzate, muoveva la sinistra fascista, ossia una critica intesa a migliorare in senso più sociale, se non addirittura socialista, l’impianto istituzionale corporativista rimasto, per il sabotaggio degli industriali e dei banchieri ma anche per il disegno cesarista di Mussolini, inceppato e non compiutamente implementato. Molti sindacalisti fascisti, tra quelli più intransigenti e di sinistra, come Riccardo Del Giudice e Francesco Grossi, erano dichiaratamente cattolici e plaudirono alla Conciliazione come anche alla legge di soppressione della massoneria.
Che, pertanto, sia stato il Vaticano a chiedere, come condizione preliminare per la risoluzione della Questione Romana, la messa al bando della massoneria o, invece, sia stato Mussolini, per ingraziarsi la Curia, ad offrirla su un piatto d’argento, poco importa. Noi ci sentiamo di sottoscrivere la tesi per cui questo avvicinamento di Mussolini al Cattolicesimo da tattico, che fu inizialmente, si trasformò strada facendo, per quelle vie misteriose del cuore che agli storici non è dato conoscere ma solo intuire o supporre, in aperta (ri)conversione spirituale. Di essa il capo del fascismo, attraverso le testimonianze e tra le righe dei documenti raccolti dal citato Innocenti, sembra aver voluto, in extremis, nell’ultimo biennio della sua vita, lasciare diversi segni. Se così stanno le cose e se quei segni effettivamente corrispondessero, come ragionevolmente può presumersi, a manifestazioni di un moto interiore di fede ritrovata, Mussolini ha seguito un cammino analogo a quello di Giuseppe Bottai, massone, mazziniano, repubblicano, sindacalista fascista, fascista di sinistra, Ministro delle Corporazioni e poi dell’Educazione Nazionale – il gerarca intellettuale promotore di cultura, aperta anche ai non fascisti, con le sue riviste, “Critica Fascista”, alla quale era abbonato Antonio Gramsci, e “Primato” – che, per la mediazione di don Giuseppe De Luca, incontrò la fede cattolica mosso anche dal parallelismo di ideali sindacali ed organicisti tra il corporativismo fascista, che egli aveva contribuito ad avviare partecipando alla stesura della Carta del Lavoro del 1927, ed il corporativismo cattolico. Bottai rese l’anima a Dio nel dopoguerra confortato dai sacramenti somministratigli dal cardinale Giuseppe Pizzardo, tra i più eminenti nella Curia di Pio XII.
Orbene, riteniamo che porre l’accento su queste altre possibili cause della rottura del rapporto, quasi nativo, tra massoneria e fascismo ci aiuta a comprendere perché esso, per dirla con Padulo, si mostrò una “ingrata progenie”. Se è vero, come sostengono alcuni, che il fascismo, perlomeno quello storico, deve essere identificato con la persona di Mussolini, per cui senza di lui non avremmo avuto il fascismo per come lo abbiamo conosciuto, è allora evidente che, per tattica politica o per sincero accostamento del cuore, il duce preferì il Cattolicesimo alla massoneria e che, il recensore ne è sicuro, la conseguente avversione di quest’ultima al regime ha contribuito alla sua caduta, sebbene per le vie carsiche del complotto di Stato allorché le circostanze interne ed internazionali, con una guerra rovinosa che si stava mettendo al peggio (anche per i tradimenti, ormai provati, o nel migliore dei casi per l’incompetenza degli alti gradi militari), lo consentirono. È noto che il vertice istituzionale dello Stato e dell’esercito fossero impregnati di presenza massonica, da Badoglio allo stesso sovrano Vittorio Emanuele III. Della massoneria conservatrice piuttosto che di quella progressista. Questo vertice aveva sempre mal sopportato, obtorto collo, non essendoci alternative, quell’agitatore romagnolo, rimasto in fondo a modo suo sempre un pericoloso socialista che negli anni ’30 aveva dato avvio ad una ristrutturazione dirigista dell’economia nazionale, e non esitò a sbarazzarsene appena gli fu possibile. Mussolini non volle smantellare il “Deep State” dell’epoca, preferendo il prefetto al federale, nella convinzione di poterlo fascistizzare e conservare così almeno l’apparenza della forma legale dello Stato costituzionale. Ma lo “Stato Profondo” italico aveva mantenuto, per tutto il ventennio, i suoi legami con il mondo angloamericano proprio grazie alla “fratellanza massonica” benché occultata in Italia. Quello tra la massoneria di Stato italiana e la massoneria internazionale, che fa capo alla Prima Gran Loggia di Londra, era un legame risalente all’Ottocento, in quanto il Risorgimento altro non fu che una pagina della storia dell’imperialismo inglese (Denis Mack Smith). Nel 1940 il vertice dello Stato fu trascinato malvolontieri in guerra perché esso guardava, per antiche corrispondenze che passavano anche per le logge, a Parigi ed a Londra piuttosto che a Roma e Berlino.
Del resto analoghe simpatie verso Francia ed Inghilterra covavano anche all’interno degli organi decisionali del fascismo. Dino Grandi, autore del noto ordine del giorno che portò alla destituzione di Mussolini, era massone ed aveva prestato i suoi servigi di ambasciatore a Londra intessendo, attraverso l’appartenenza massonica, una serie di rapporti personali con gli ambienti della corte e della finanza anglosassone. Nella riunione del Gran Consiglio del Fascismo, quel 25 luglio del 1943, erano presenti, insieme a Grandi, altri dodici massoni di peso e tutti, salvo Farinacci e Buffarini Guidi, votarono contro Mussolini. Al di là di ogni oggettiva considerazione di tipo politico e militare, che in quel contesto di imminente tracollo nazionale motivava quel voto, dobbiamo domandarci, alla luce delle ricerche di Padulo, se è possibile sostenere che si trattò della vendetta della massoneria nei confronti dell’“ingrata progenie” o perlomeno del suo capo che “figlio” della Loggia non fu mai né mai volle esserlo e che, anzi, aveva tentato in ogni modo di emancipare il fascismo da tale eredità.
Luigi Copertino