di Roberto Pecchioli
Parte I
Alla cassa di un supermercato, tre giovani uomini, due con la cappa aziendale e l’altro con la tuta di una cooperativa che trasporta le merci ai punti vendita, commentano la diminuzione delle ore di lavoro dei dipendenti che svolgono i servizi esterni. Parlano con tono sommesso, sembrano rassegnati, senza la passione, la tensione e l’indignazione delle generazioni precedenti, uno dei tre afferma addirittura che è un “non licenziamento”. Poi, passano a discutere d’altro, eppure la cosa li riguarda, sono loro quelli a cui l’impresa– una delle innumerevoli finte cooperative dedite alla gestione di settori esternalizzati – toglierà una parte del reddito, certamente modesto. Secondo l’Eurispes, sono soprattutto i più giovani a soffrire gli esiti dell’interminabile, ma ciclica crisi del capitalismo terminale.
Viviamo l’inverno del nostro scontento, ma in toni sussurrati, felpati, tra conversazioni rassegnate e scoppi di collera momentanea. Si scuote la testa, ci si dice l’un l’altro che non ne vale la pena, che sono tutti uguali, disagio, rancore, dissenso sono forti, pressoché generali, ma sordi, vissuti individualmente, e non prendono forma, non diventano idea, progetto, tanto meno azione o speranza. Non si odono squilli di rivolta, non scoppia alcuna ribellione, il fuoco è spento, nessuno sa attizzarlo, ben coperto com’è dalla cenere di un mondo che vive a debito, o si arrangia, e comunque non sta, evidentemente, così male. Manca la scintilla che accende, siamo piromani timorosi che vivono da pompieri, si tira avanti, domani sarà un poco peggio di oggi, ma la rana viene bollita a fuoco lento, non se ne avvede, ogni tanto viene estratta dalla pentola per una gita al centro commerciale, per un evento musicale, o per l’immancabile vacanza insieme con la tipa del momento.
Qualcuno, alla fine, paga o si intesterà il puffo, poiché la regola ferrea del liberismo è che “non esistono pasti gratis” ( Milton Friedman), ma intanto il sistema prende tempo. Finché la barca va, lasciala andare. Anche senza direzione, anche senza remi, bussola e astrolabio. Lo sconcerto aumenta, ma pervade prevalentemente le generazioni formatesi nel XX secolo, si tentano spiegazioni all’inspiegabile, ovvero alla decadenza interminabile, goccia a goccia, una discesa economica, civile, culturale, morale. Una malattia dello spirito e del corpo che raffredda le membra; solo il cuore palpita ancora. L’inverno del nostro scontento non si fa più estate sfolgorante ai raggi del sole di York, come nel celebre monologo del Riccardo III .
Siamo prima del guado, l’inverno del nostro scontento resta nella fase preliminare del romanzo di John Steinbeck dello stesso titolo. Il discendente di un’antica famiglia di balenieri, perduta la fortuna che appartenne ai suoi antenati, si riduce a lavorare come commesso in un negozio che fu di sua proprietà. Vuole riscatto, ritrovare il benessere e l’influenza del passato, ma le sue azioni saranno imbrogli e traffici loschi. Tornerà alla classe sociale perduta, ma al prezzo di una crisi morale senza scampo. Uno spaccato delle molteplici crisi di cui siamo testimoni e protagonisti, ma la crisi del personaggio di Steinbeck non ci convince, o, almeno, non appartiene al cinico presente. Ci appartiene piuttosto il senso imbarazzante di far parte di una contemporaneità che ha smarrito il senso morale, insieme con il sentimento dell’azione. Una massa indistinta ed egoista di Oblomov, l’antieroe immobile e fatalista del romanzo di Aleksandr Goncarov, l’indolente per eccellenza, colui che trascorre la sua vita sdraiato, e finisce per perdere tutto, a partire dal suo stesso destino. Altri diventano lo speculare opposto di Oblomov, vivono in un’agitazione continua e priva di direzione, come il povero criceto corre nel cerchio dentro alla gabbietta.
Così tiriamo avanti, diversamente impotenti e colmi di meraviglia dinanzi a ciò che non accade. Da visionari, viene da pensare che è l’assenza del flogisto ad impedire alla cenere diffusa ma dispersa di produrre scintille destinate a diventare fiamma viva. Non c’è rivolta, neppure ribellione o sdegno, contro ogni logica. Magra consolazione evocare ciò che non esiste ! Il flogisto, ovvero ciò che infiamma, fu la denominazione data dai chimici, e prima di loro dagli alchimisti, ad un’ipotetica sostanza imponderabile che si sarebbe dovuta liberare nella combustione e nella calcinazione dei metalli. Gli scienziati del passato erano convinti che i corpi combustibili e i metalli che per riscaldamento dell’aria si ossidano fossero costituiti da almeno due componenti, uno dei quali era il mitico flogisto. Fu poi il padre della chimica moderna, il Lavoisier, a dimostrarne l’inesistenza, nell’ambito delle decisive scoperte sulla conservazione della massa. Di sentimenti tutt’altro che giacobini, lasciò la testa sulla ghigliottina del terrore rivoluzionario all’epoca di Robespierre.
Scartata l’ipotesi flogisto per insussistenza, forse occorre rovesciare il punto di vista, come i fisici teorici, che hanno raggiunto grandi scoperte ragionando in termini anti intuitivi. E se il presente fosse davvero il migliore dei mondi possibili ? No, neppure i suoi propagandisti lo affermano. Essi propongono, anzi impongono una visione ben più plumbea: semplicemente, TINA, “there is no alternative” non esistono alternative, quindi nessuna via d’uscita. Sono loro, dunque, ad avere inventato e posto su un piedistallo indiscutibile un nuovo flogisto, tanto infondato ed insussistente quanto quello di Cagliostro e dei chimici del Settecento.
Nessuna costruzione umana vive “sub specie aeternitatis”, tutto può essere revocato in dubbio, rimosso, confutato. Ce lo hanno insegnato loro, con due secoli e più di distruzioni, decostruzioni, demitizzazioni. D’improvviso, il sistema vigente, ovvero l’individualismo utilitario e materialista fondato sull’idea di mercato e sulla libera circolazione di merci, persone, capitali e servizi è divenuto destino, unico, inevitabile, l’”a priori” assoluto, la pietra filosofale o il fantomatico flogisto che genera la scintilla . Nella postmodernità terminale si chiude il cerchio aperto dai pensatori greci presocratici, i primi filosofi che tentavano di individuare l’archè”, il principio originario e creatore. Adesso lo conosciamo, è l’economia di mercato basata sul denaro creato dalle banche private, l’uomo è al mondo per scambiare senza limiti le merci, e tutto è merce, con apposito cartellino e prezzo in numerario. Stop, sospendiamo le ricerche. Davvero strano che sia pervenuta a tale conclusione una civilizzazione che nega e combatte tutto ciò che è natura, in nome del costruttivismo e di quell’ansia inesausta di rifare il creato a propria immagine ogni mattina che Augusto Del Noce chiamò perfettismo e Vilfredo Pareto virtuismo.
Anche un’istituzione culturale apparentemente neutra come la prestigiosa rivista internazionale National Geographic nega che “maschio e femmina li creò”- Gaia, ovviamente, nessun altro !- e che esistano identità fisse e naturali. Rivela anche di più, la Bibbia geografica planetaria, ad esempio che esistono dei tizi, da oggi definiti cisgender, “la cui identità di genere coincide con il sesso biologico assegnato alla nascita“. Li abbiamo sempre chiamati normali, ma Dio ci scampi, c’è un’alternativa per tutto, tranne che per la meravigliosa società di mercato e del flogisto. Il punto è che stanno riuscendo nell’intento: esaurite le grandi ideologie, derise le religioni rivelate, resta un’unica autostrada senza caselli d’uscita, il liberalismo dei diritti obbligatorio e primigenio, la società “aperta” che non crede in nulla se non in se stessa.
Marcello Veneziani individua il problema nella dissoluzione del mito. Una società che ha distrutto i simboli, reciso i legami originari e dimenticato, anzi irriso i racconti fondativi non può sopravvivere perché si è tagliata i ponti alle spalle e, contemporaneamente, non possiede più alcuna meta. Vive in un moto perpetuo privo di direzione ed ancor più di motivazione. Renaud Camus, lo scrittore francese cui si deve il concetto di “grande sostituzione” etnica dei popoli europei attraverso l’immigrazione di massa, va più in là, riconoscendo nel presente i tratti di un totalitarismo del tutto nuovo, più forte, ricco e moderno di quelli che l’hanno preceduto, che chiama sostituzionismo, l’ideologia globale dell’uomo fungibile e della intercambiabilità in generale. E’ molto esplicito Camus, dichiarando che “sostituire è il gesto centrale della contemporaneità” e nulla si comprende della Grande Sostituzione di popoli e civiltà attraverso l’immigrazione e il declino etnico demografico dei bianchi europei se non si prende atto che esso è solo una parte di un tutto, il sostituzionismo globale, figlio della fase senile della Rivoluzione industriale, postfordiana, post taylorista, postmoderna e postumanista.
I due punti di vista possono trovare una convergenza. Per un verso, infatti l’umanità privata del mito sopravvive solo nel soggettivismo materialista, giacché ogni mito, ogni narrazione simbolica è inevitabilmente comunitaria, rinvia ad un “noi” che supera, integra e nobilita l’impero dell’”io”. Per l’altro, l’essere umano ha un bisogno di radicamento e di riconoscimento che gli rende intollerabile, nel tempo, l’idea di non essere null’altro che un puntino incolore, mutante e perfettamente scambiabile con milioni di altri. E’ questo il limite di ogni individualismo, anche nella particolare declinazione corrente di soggetto edonista titolare di infiniti e sempre nuovi diritti. Liberato dai miti e identico ad ogni altro puntino con cui viene sostituito, l’uomo atomo, l’individuo diventa per la prima volta giudice di tutto e, inevitabilmente, perde se stesso.
Protagora di Abdera il sofista, autore della celebre definizione secondo cui l’uomo è misura di tutte le cose, non intendeva affatto riferirsi ad ogni singolo individuo, bensì all’umanità, prendendo atto che solo la nostra specie possiede una ragione che giudica, distingue e istituisce criteri, da valere nell’ambito di un destino comunitario. Su questo punto ha scritto pagine illuminanti Costanzo Preve. Che fare, dunque, nelle presenti circostanze, in cui sembra di vivere un tempo sospeso, una specie di teleferica che non sale né scende a valle con il suo carico, e lo sguardo di chi è nel vuoto non sa più neppure distinguere l’alto e il basso?
L’astuzia della storia è quella di lasciarci in assenza di alternative. Nei tempi di crisi o di passaggio, due tendenze ugualmente perniciose si contendono l’animo umano: la fuga e l’indifferenza. I padroni della presente fase storica lo sanno, e fanno di tutto affinché l’umore di massa oscilli tra la secessione sdegnosa ma inutile delle minoranze ribelli e l’abbandono ai fatti propri, al “particulare” dei propri istinti ed interessi. Ebbene, è urgente combattere i due opposti individualismi, recuperando la dimensione del mito e del simbolo, unita alla concreta rivendicazione di un senso comune che sia ed appaia all’uomo postmoderno conforme all’ interesse personale ed individuale.
Occorre rielaborare idee e simboli insieme con il senso dell’importanza di ciascun essere umano, riportato all’onore di persona. La scintilla può essere il radicamento. All’uomo moderno sono state divelte innumerevoli radici. Non è più che un naufrago solitario su una zattera chiamata individualismo, dalle cui assi sgangherate combatte – homo homini lupus – contro altri naufraghi. Dall’instabile barcaccia si precipita inevitabilmente nell’abisso. Diventa quindi urgente trarre a salvamento noi stessi e gli altri, i virgiliani “rari nantes in gurgite vasto”, i pochi sopravvissuti sparsi nel mare, e strappare al nonsenso le nostre vite. Ri- radicarle di nuovo in qualcosa, dopo la frammentazione, la riduzione a segmenti, poi a macchie, puntini, mucillagini.
Ogni naufragio nel vasto gorgo reca con sé detriti. Gran parte sono inservibili, ma qualcosa può al contrario diventare pietra angolare. Bisogna rimetterli in forma (Spengler), o vedere in essi l’inizio di cattedrali (Saint Exupéry). Simone Weil fu definitiva, nel suo L’enracinement, tradotto improvvidamente da noi come La prima radice. “Il radicamento è forse il bisogno più importante e misconosciuto dell’anima umana. E’ tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo della nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente”.
Al contrario, questa è la società autistica per eccellenza, nella quale vengono meno gli ideali che favoriscono l’aggregazione e la vita comunitaria. E’ una società non sociale, in cui si vive isolati, staccati, ma connessi alla rete delle reti, il web! Non resta che ripartire da noi stessi, dalle persone, dagli individui estirpati, sradicati, demitizzati, decostruiti, lasciati soli e nudi, pedoni fungibili, sacrificabili di un mostruoso gioco di guerra. Radicare daccapo ogni uomo nella rete delle relazioni e delle necessità della vita reale e morale. Il narcisismo ci rende sordi all’ascolto dell’altro, ma anche alla parte più nobile di noi stessi; idolatrando se stesso, è una monade dominata dagli impulsi. Una comunione di destini ci impone al contrario di vivere come nostre le esigenze dell’Altro.
Parte II
L’inverno del nostro scontento è un gelo interiore che va riscaldato con pazienza, senza frettolose fughe in avanti. I reduci di Russia raccontavano di commilitoni colti dal congelamento per una sorta di cortocircuito della circolazione; tenevano gli arti intirizziti accanto al fuoco, dopo estenuanti marce a 30 gradi sotto zero, ma era invece necessario immergere piedi e mani nell’acqua fredda, una tortura che preparava il sangue al calore successivo. Lo scontento, poi, è un sentimento impreciso, obliquo. Non ha un vero obiettivo, non genera fuoco, ma trattiene all’interno gli umori negativi. E’ assai simile all’ennui di Baudelaire, la noia di vivere che si fa sbadiglio, nausea, poi chiusura in se stessi, infine male oscuro.
Cosi ci hanno voluto, sanno che basta abbassare un poco il gas sotto la pentola perché la rana abbandoni il desiderio di saltare fuori. L’uomo sradicato, poi, sradica a sua volta, si trasforma in solvente universale di tutto ciò che incontra. Il veleno che propaga la malattia è innanzitutto il denaro, che distrugge le radici ovunque penetra, sostituendo ad ogni altro movente il desiderio di guadagno. Vince facilmente tutti gli altri moventi perché richiede uno sforzo di attenzione molto meno grande. Nessun’altra cosa è chiara e semplice come una cifra, osserva Simone Weil.
Gli occidentali hanno ciecamente distrutto il passato. Ciò che è distrutto non torna più, ed è questo il delitto supremo. Restituire radici all’essere umano è impresa difficile, forse disperata. I frutti, se ci saranno, li vedranno occhi diversi dai nostri, ma è nobile destino piantare alberi per un’altra generazione (Cicerone). Lo sradicamento perseguito ad ogni livello ha generato, dicevamo, un unico fine, il denaro. Il mercantilismo, inteso come adesione ad un pensiero strumentale, ha assunto una tale forza che ogni cosa, più che mai, è merce. Il lavoro dell’uomo, il suo stesso corpo compravenduto e noleggiato variamente, addirittura pezzi ed organi. Dov’è, allora , il progresso, e l’ostentata emancipazione ?
La verità è che si è diffusa per rimbalzo quella che Lévi-Bruhl chiamò la mentalità prelogica dei cosiddetti primitivi. Più di loro crediamo nell’efficacia magica della parola ripetuta ( pubblicità, propaganda, persuasione sfrontata e non più occulta ), nel potere di concetti astratti, come energia o diritti umani. Riscaldare un interminabile inverno è difficile, servono tesori di coraggio, pazienza, prudenza. E se l’uomo ha necessità di radici come del sangue che circola, tra i suoi bisogni vitali ci sono, uniti a quelli materiali, il bisogno di ordine, ovvero un tessuto di relazioni sociali fondate su un’idea di bene condiviso tale che nessuno sia costretto a violare obblighi rigorosi per adempierne altri. Poi la libertà come possibilità effettiva di scelta; la responsabilità, respinta con orrore dalla logica infantile del “lasciateci in pace “. Infine, bisogna tornare all’onore, che è il rispetto conquistato, preteso e dovuto in un concreto ambiente sociale, ed infine al bisogno più sacro di tutti, quello della verità.
Ma non ci si può radicare nella verità se ci viene assicurato od ingiunto che non esiste, che tutt’al più sussiste l’esattezza tecno scientifica, e comunque, vero è ciò che sembra tale all’individuo, giudice e misura di tutte le cose. Purtroppo, siamo adesso nella fase in cui, estirpate le radici, dispersi i semi, restano qua e là delle piante solitarie. Ebbene, occorre il coraggio di salvarle e piantumarle ovunque, anche se all’inizio sembreranno simili a quegli spazi verdi artificiali ricavati sopra i parcheggi sotterranei. Qualcosa crescerà comunque, non sono i fiori finti di certi salotti borghesi, la natura e la vita sono più potenti dell’uomo distruttore.
Il fatto, come ha capito Renaud Camus, è che è in corso una terrificante sostituzione. Quella dei nostri popoli con estranei, certo, ma contemporaneamente- e con esiti altrettanto infausti – quella dell’originale con la copia, del naturale con l’artificiale, della campagna con le periferie, della bellezza con il parco tematico o il sito turistico, del reale con il falso, l’artefatto ed il virtuale, dell’occhio umano indagatore con l’informazione standardizzata, dell’esperienza con la statistica, della cultura con il divertimento, del pensiero critico con la sociologia, del gioco, poiché l’uomo è ludens ( Johann Huizinga) con la competizione forzata, della complessità con la semplificazione divulgativa, dell’uomo in carne ed ossa con il robot, dell’umanità con una sorta di materiale umano indifferenziato.
L’omogeneizzazione della materia umana si nutre della diffusione dell’oblio – i più non sanno neppure più di possedere una memoria condivisa – si sviluppa nel rimbambimento di massa attraverso i mezzi di comunicazione che veicolano una nuova lingua, ogni giorno più povera e limitata, che rende difficile esprimere i sentimenti e le infinite sfumature della nostra vita. Cambiare la lingua, i significati significa mutare irrevocabilmente la realtà, parola di Ludwig Wittgenstein. L’uomo fungibile, sostituibile, diventa a sua volta prodotto, ed il cerchio si chiude. Non si è neppure più in grado di indignarci e lottare per sfuggire alla condizione di precari affittati ad ore, o di pezzi di ricambio, giacché, affermano con tutto il volume di fuoco di un potere immenso, non c’è alternativa, il mondo è a taglia e dimensione unica. Non si insorge contro qualcosa di inevitabile, anzi ci si colpevolizza per non essere stati all’altezza della sfida, competitivi e performanti.
Ma non può essere all’altezza la generazione dei giovani “millennials”, indebolita da alcool, droghe e sballi vari vissuti come trasgressione obbligata (!!!), dipendente dal sesso, più visto e consumato sotto forma di pornografia che praticato, fragile perché mai messa alla prova. Per i metalli c’è la tempra, il brusco raffreddamento teso a conferire la resistenza. Per l’uomo e la donna occidentali c’è una scuola facile e comprensiva che evita di educare; gli esami sono semplici, con il 99 per cento di promossi all’esame di maturità, altra parola-ossimoro della neo lingua. La famiglia, quando c’è, è sin troppo indulgente e protettiva. Non si è mai veramente a cimento, non ci tempra ai rigori inevitabili dell’esistenza, non si accettano più le sconfitte, si è anzi pervasi da un amniotico rifiuto di uscire dal guscio. Platone, nel mito della caverna, aveva messo le carte in tavola due millenni e mezzo fa: solo il confronto con il reale, l’esperienza ci fa capire quanto è deformante l’ombra.
L’esito odierno è l’uggia di massa, il male di vivere per timore di attraversare il vaso mare aperto, che dà forma, nei bassifondi esplorati dalle pseudo scienze psicoanalitiche, allo spleen generalizzato, la narcosi dolciastra di cui sono cure palliative i paradisi artificiali, lo scontento fine a se stesso, non di rado autocommiserativo . Il rimedio è amare senza tornaconto, ma roba concreta, Dio, la famiglia, il lavoro ben fatto, la giustizia, l’Altro, la comunità cui si appartiene, l’identità che trasforma “io” in “noi” per confronto, similitudine, prossimità, conflitto.
Occorre , ed è oggi la più difficile acrobazia, ritrovare la nozione di obbligo. Essere obbligati verso qualcosa o qualcuno dà senso alla quotidianità. Scrisse la Weil che il principio di obbligo sovrasta quello di diritto. Un diritto, infatti, non è efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde. “L’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa. L’obbligo è efficace allorché viene riconosciuto. L’obbligo, anche se non fosse riconosciuto da nessuno, non perderebbe nulla della pienezza del suo essere.” Parole ardue da ascoltare per orecchie contemporanee. Pure, la negazione dell’obbligo è un suicidio spirituale. Per questo è così fragile e malata la nostra società dei diritti. L’uomo è creatura fatta in modo tale che la morte dell’anima si accompagna a gravi malattie psicologiche. Si resiste per istinto di conservazione, ma si viene pervasi da un vuoto che ci trasforma in deserto. La nostra è l’epoca della scientifica edificazione di deserti, oltreché delle più brutali tra le frontiere, quelle che non si vedono, ma separano ognuno dagli altri e ciascuno da se stesso. Da individui a “dividui”. Anche Nietzsche ammonì: guai a chi costruisce deserti.
Un deserto terribile è quello della razionalità assoluta, la tenace e inesausta ansia di catalogare, organizzare, inserire persone, cose, atti, comportamenti e sentimenti in statistiche, sistemi, insiemi, ed applicare le etichette corrispondenti. Una penosa tassonomia che le scienze della natura hanno trasferito a quelle dello spirito. Siamo stati fatti prigionieri da una logica astratta, e poiché porre etichette è operazione importante, abbiamo categorizzato lo stesso “labelling”, ovvero l’inserimento sociologico e statistico di persone ed attitudini in una delle mille caselle previste. Una volta lo chiamavamo pregiudizio e tiravamo avanti, adesso l’abbiamo criminalizzato come antiscientifico, ma in realtà gli abbiamo dato una veste più prestigiosa ed indiscutibile, il sigillo della scienza. In realtà è solo tecnica, per definizione pensiero che non pensa (più), dopo avere rintracciato, nell’immenso database in progress, la casella cui corrisponde l’etichetta, il codice a barre.
Il problema è quel codice a barre in ciascuno di noi, segno definitivo, probabilmente diabolico che non ci apparteniamo più. Ma l’uomo reale, quello che vive , respira e muore? Tutto si è rovesciato nel suo contrario, la natura in cultura e poi semplice civilizzazione, o ri-creazione. La comunità si è girata in società, che ha subito preteso di limitare la responsabilità: società anonima a responsabilità limitata alle quote, ove la persona vera si nasconde dietro la persona ficta, finzione giuridica che si ipostatizza, ma solo un po’. Un grandioso, secolare complotto contro l’Uomo, quello che si alza al mattino, agisce, piange, ha fame, odia, ama, cerca i suoi simili ed ha bisogno di un’identità e di un radicamento vivo e tangibile, sentirsi “tra noi”.
Non è normale, non è naturale essere sempre connessi. Dobbiamo restare offline, talvolta. Non è naturale né normale vivere come polli d’allevamento, luce accesa h.24 nel capannone intensivo a temperatura costante che è il nostro nuovo universo, consumatori di sensazioni, esperienze, pulsioni, altre volte utenti o propaggini postfordiste di una macchina comandata da remoto, come oggi usa dire. Uomini e donne derubricati ad operatori, soggetti intercambiabili che eseguono gesti previsti ed introiettati, e si comportano come da programmazione e formattazione eseguita da un gigantesco server che è la macchina possente del sistema educativo e mediatico.
Nel mondo del lavoro, gli operatori non sono che impiegati d’ordine, esecutivi addetti a qualcosa di cui ignorano il fine, posti in un punto determinato ed ignoto di una catena di cui non conoscono il senso ed il ruolo che vi ricoprono. Non è necessario: sono, siamo sostituibili, intercambiabili, uno vale qualunque altro. Una follia cui pone rimedio peggiore del male il soggettivismo illimitato concesso da lorsignori, la credenza patologica, sostenuta dall’apparato di consumo, dell’unicità. Miliardi di “io” identici, prodotti in serie da un’economia di scala, cui viene fatto credere di essere altrettanti pezzi unici, in quanto identificati da uno specifico barcode. Quel codice a barre o quel chip è mio e solo mio, come le impronte digitali, ma solo in quanto assegnato da un potere occhiuto ed impersonale.
Insieme con l’alienazione (svendita di sé, il vecchio Marx aveva centrato il bersaglio), lo scontento è la reazione minima, quella che certifica l’esistenza in vita. L’inverno è la stagione programmata per noi dai Superiori; il calore di cui abbiamo necessità deve essere artificiale ed a tariffa, legato a una di quelle connessioni cui ci abilita il maledetto codice a barre. Non usciremo dallo scontento se non accetteremo di affrontare l’inverno, per ritrovare noi stessi nell’obbligo, nell’identificazione con la prossimità, con il nostro simile, la comunità di cui siamo parte, a partire dalla quale confrontarci e misurarci con tutti gli altri. Non c’è alternativa, la tempra è la prova del freddo, costringe a guardare in faccia la realtà e fa amare il calore naturale, quello che non passa attraverso tubi e convettori, ma proviene dal sole della convivialità e dalla riscoperta gioiosa di “noi”.
E’ l’unico flogisto da scoprire, il solo modo affinché lo scontento frigido ed introverso generi la scintilla destinata a propagare l’incendio che libererà, forse, da alcune catene. L’alternativa al presente c’è, può diventare estate gloriosa al sole di un nuovo radicamento, ma la rivolta necessaria dovrà essere ideale e morale, o non sarà che un tumulto, il fuoco appiccato da un piromane pazzo, un incendio che sapranno facilmente domare.
Roberto Pecchioli