L’IRRESISTIBILE AVANZATA DEI NONLUOGHI

di Roberto PECCHIOLI

Viaggiare è concetto assai diverso dal fare turismo. Attiene alla categoria dell’osservazione di chi guarda oltre la meta, cerca di comprendere luoghi, persone, situazioni lungo l’itinerario, riflette su ciò che vede e nei limiti del possibile esprime un giudizio informato. Chi si metta in viaggio in Italia animato da spirito di conoscenza, vive due sentimenti prevalenti: la presa d’atto dell’avanzata irresistibile della bruttezza e l’enorme quantità di non-luoghi che incontra nel cammino. Non sappiamo come il principe Myshkin di Fedor Dostoevskij immaginasse la bellezza salvatrice del mondo, ma certo la bruttezza da cui siamo circondati contribuisce grandemente a peggiorarlo, a partire da attitudini e comportamenti dell’uomo medio. La grande bruttezza sradica, abitua al peggio, diseduca, fa guardare verso il basso, mette a tacere lo spirito. Dissecca l’anima.

La perdita di senso, l’assenza di identità personale e collettiva è perfettamente simboleggiata dal concetto di non-luogo. Il termine fu introdotto nel 1992 dall’antropologo e pensatore francese Marc Augé per designare gli spazi e i siti anonimi, privi di storia, staccati da qualunque tradizione, dovunque uguali a se stessi, stazioni, aeroporti, centri commerciali, autogrill, svincoli stradali, accomunati da uno schiacciante anonimato sino alla disumanizzazione, una soffocante riproduzione in serie disegnata da un architetto collettivo all’unico scopo di essere utilizzati, attraversati, fruiti e consumati da folle anonime eterodirette.

La sensazione è di essere circondati dai non-luoghi, e che essi stiano avanzando in maniera travolgente, trasformandosi nel principale elemento del panorama. Crescono in maniera informe, metastasi, rizomi che si gonfiano e tracimano da ogni lato. Nuovi non-luoghi sono i chilometri di strade che circondano quasi tutti i centri urbani. Sino a qualche decennio fa, c’erano campi, orti, case rurali, ville e rare attività industriali, oggi è un continuum di centri commerciali e capannoni industriali, non di rado svuotati dalla crisi industriale, intervallati da zone di abitazione che non ci sentiamo di definire residenziali, non quartieri o contrade, ma macchie, dormitori senz’anima. Le costruzioni sono prive di qualsiasi bellezza o ornamento, portando alle estreme conseguenze la pessima lezione viennese di Adolf Loos, secondo cui l’architettura è diretta espressione della cultura dei popoli, pervasa dal bisogno morale di eliminare ogni ornamento di stile, che rappresenta la mancanza del passato, la rottura definitiva con “prima”.

Ognuno edifica come gli aggrada: di qui la prevalenza del parallelepipedo e del cubo, ma anche trapezi, rombi, losanghe, il grigio del cemento a unificare, intristendolo, il paesaggio cromatico. Per contrasto, spiccano i colori abbaglianti e la grafica aggressiva di insegne e luci, destinate all’attenzione dell’ex viandante, ora consumatore e turista, con prevalenza di denominazioni in un inglese elementare, omaggio alla globalizzazione che impone l’identico, spacciato per internazionalità, cosmopolitismo avanzato contrapposto al vecchio che scompare. In realtà, più che sparire, le vestigia del passato, testimoni sgraditi dell’odiernità trionfante, vengono inghiottite, fuse per incorporazione forzata, oppure lasciate morire lentamente.

In Italia, si tratta di tessuti urbani pregevoli, organici, comunque dignitosi, vari, bene inseriti nel paesaggio circostante, il segno distintivo di quell’antica civiltà urbana delle mille città della nostra nazione, ciascuno con una sua specificità, un tratto, un carattere che lo rendeva unico, riconoscibile all’interno di una cultura condivisa. I luoghi del potere- spirituale e temporale- quelli del commercio e del lavoro, le piazze dove ci si incontra, si discute, i giardini, le vie e le case di abitazione delle varie classi sociali, tutte con un loro decoro complessivo. Città, paesi che erano un “segno”, un piccolo o grande universo vissuto da comunità che vi si identificavano, un ambiente che diventava naturalmente il prolungamento di se stessi, l’habitat ereditato da arricchire con l’apporto della sensibilità e del lavoro della propria generazione.

Provate a consultare su Google Maps, bibbia del viaggiatore postmoderno, le cartine di quattro, cinque città italiane. Un piccolo tratto è segnato in colore più scuro: si tratta dei centri storici o delle zone di più antica urbanizzazione, il resto in bianco rappresenta la stragrande maggioranza delle aree cittadine e suburbane. Un territorio pressoché informe, senza capo né coda, che si allunga attorno alle arterie principali e si allarga senza logica apparente. Avanza l’impermeabilizzazione, ovvero il trionfo dell’asfalto sulla natura, prodromico al regno del cemento.

Tutto è bruttezza, nessun ornamento, ma neppure allusione alla specifica funzione di ciascun edificio e costruzione. Un ospedale può essere scambiato per il palazzo di giustizia o la sede di una società per azioni. Difficile distinguere il profilo di un centro commerciale da quello di un capannone industriale. Unica eccezione, l’outlet, la cui caratteristica è l’imitazione grossolana, talvolta francamente ridicola dell’architettura tradizionale del territorio. Lì si sprecano i gridolini soddisfatti dei consumatori e consumatrici, sopraffatti dalla gioia di trovarsi in una sorta di Disneyland che riproduce, con materiali diversi, a scopi commerciali e a orari stabiliti l’arredo urbano del passato locale.

A fianco delle strade, più spesso dietro, altro cemento o pietrisco, le aree di parcheggio accanto a quelle di carico delle merci. Sulla strada, le innumerevoli rotonde, di solito contornate da erbacce, con al centro forme indefinibili – affermano che sia arte contemporanea– o più spesso messaggi pubblicitari o istituzionali.  Altri manufatti definiti artistici campeggiano qua e là, ospiti inutili, carico in eccesso, accompagnati da tavole di spiegazione imbarazzanti per linguaggio, presunzione, mediocrità.

Noi neghiamo rotondamente che di arte si tratti, ci pare confermata l’intuizione di Walter Benjamin sulla perdita dell’aura dell’opera d’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica. L’aura è la sensazione suscitata nello spettatore dalla creazione compiutamente espressa, mistica e religiosa in senso lato, perduta dinanzi ad esemplari non originali, ma anche non immediatamente comprensibili. La sottocultura di massa ha compiuto il suo sporco lavoro: espellere l’arte, spogliarla dall’aura, primo segnale della sua valenza universale e spirituale, per sostituirla con il design, la copia o, tout court, con la bizzarria spacciata per creatività.

Il viaggio si trasforma in Via Crucis con le sue stazioni. Una ci è capitata nei pressi della città di Schio, antico centro laniero: un ampio parallelepipedo dal colore indefinibile in mezzo al nulla, una multisala cinematografica. Non dubitiamo della presenza all’interno di bar, ristoro, bancomat e macchinette per il gioco d’azzardo. Anche il cinema, l’arte per eccellenza della modernità, è sfrattato dalle città e dai paesi. Le vecchie sale, non di rado ubicate in rispettabili edifici centrali, sono trasformate in banche o supermercati, più spesso lasciate al progressivo degrado.

In ogni provincia italiana esistono splendidi teatri storici, nelle città ma anche nei piccoli centri, a comprova della cultura immensa di cui siamo figli. La maggior parte sono chiusi, non pochi in stato di penoso disfacimento. Un esempio virtuoso è il comune ligure di Pieve di Teco, 1.350 abitanti, dal ricco patrimonio architettonico civile e religioso, la bella via principale porticata e ben due teatri, Salvini e Rambaldi, riportati a vita. La regola, purtroppo, è quella dell’abbandono, come il centro storico di Serravalle Scrivia, una volta dignitoso, fatto di armonie, di qui il fiume, di là la linea dei colli, oggi in condizioni desolanti, abitato quasi esclusivamente da stranieri, le serrande abbassate, tranne qualche negozio etnico, nella cittadina sede di ipermercati e del primo outlet realizzato nell’Italia settentrionale. E’ la surmodernità, l’altra categoria sociologica introdotta da Marc Augé, caratterizzata da eccessi, sovrabbondanze, citazioni.

Augé ne tratteggia le caratteristiche: l’eccesso di tempo, che allude alla fatica di attribuire significati al susseguirsi di fatti, eventi, informazioni che ci sovrastano. L’eccesso di spazio, la nostra volontà di spostarci sempre più velocemente in un mondo che ci si presenta troppo piccolo, inadeguato a contenerci. Infine, l’eccesso di ego, per cui ciascuno si considera un mondo a sé e ogni riferimento alla propria individualità è posto su un piano superiore alla dimensione collettiva, comunitaria. I non-luoghi hanno in comune una sorta di anonimato, una riproduzione in serie degli esterni, ma anche degli ambienti architettonici interni. L’obiettivo è contribuire alla costruzione dell’uomo indifferenziato, in grado di muoversi tra i non-luoghi di Roma o Singapore con identica familiarità distratta, intenta esclusivamente alla funzione (transito, consumo).

Intanto, la grande bruttezza conquista letteralmente il terreno, asfaltando tratti sempre maggiori del territorio. Persino i paesaggi dolci, bellissimi della nostra Italia, frutto della natura e del lavoro secolare dell’uomo diventano una terra desolata, un deserto di cose e di sentimenti. Le città si trasformano sempre più in periferie anonime, informi, senza inizio e senza fine, unite dalla tristezza uniforme e dallo straniamento che è un obiettivo di chi le costruisce. Noi infatti pensiamo che esista un piano architettonico postmoderno, volto alla confusione, parte di un progetto di ri-creazione antropologica.

Le grandi stazioni ferroviarie vengono rimodellate come centri commerciali dove è possibile acquistare di tutto, tranne ciò che più interessa i viaggiatori, i biglietti (tutto deve accadere online!), i giornali o i libri da consultare nel viaggio. Le più piccole sono chiuse, sbarrate, anzi, nella lingua di legno dei burocrati di Trenitalia, impresenziate. Il risultato, oltre al disagio pratico, è la sequenza di edifici imbrattati, lordati, frequentati da un’umanità sotterranea, dedita a traffici di ogni genere, compravendita di droga e sesso, bivacchi senza dignità, afrori e promiscuità. Non dissimili sono le autostazioni, dove un’umanità multietnica, sbracata e transumante attende coincidenze e consuma una vita di scarto, tra brutture e bruttezze.

Ci sovviene il viaggio in Italia dei grandi del passato, alla ricerca dell’arte, della bellezza, della storia e dell’umanità della nostra gente. Che ne sarebbe di Goethe a Roma Termini, alle autostazioni di Brescia o Bologna, e poi al cospetto delle Vele di Scampia, delle Lavatrici di Genova Prà, dei tristi casermoni della cintura torinese, costruiti per i contadini meridionali inurbati, braccia della Fiat, ora società americana di diritto olandese. L’autore di Faust ci arriverebbe dopo lunghi percorsi in autostrade dai lavori in corso, lunghe bretelle di collegamento che si fanno largo tra erbacce, ricordo dei campi espropriati, svincoli e frecce per indicare autogrill e, immediatamente fuori, centri commerciali o parchi tematici, dove corrono giulive le famiglie surmoderne.

Del resto, la Fontana di Trevi è talora scambiata per una piscina o utilizzata per estemporanee abluzioni di plebi non dissimili da greggi al pascolo. La reggia di Caserta, una delle meraviglie italiane, era fino a pochi anni fa meta di picnic di orde domenicali, ma di recente si è vista ferire da cretini nuotatori. I centri storici – in Italia sono belli quelli di ogni città e di moltissimi paesi- si svuotano di attività commerciali, di residenti e di vita. Restano gli anziani e gli immigrati più pericolosi, che tra vecchie strade, siti abbandonati e detriti trovano il terreno migliore per malaffari di ogni tipo. La bellezza scintillante di ieri si trasforma in vecchiume che la gente chiederà a gran voce di abbattere, con grande gioia dei signori del cemento.

Abbiamo letto con attenzione i dati dei censimenti di popolazione dell’ultimo mezzo secolo. I dati, anche per le aree a maggiore sviluppo, dimostrano che l’impressionante colata di mattoni e asfalto del Belpaese non è affatto giustificata dall’imperiosa necessità di dare un’abitazione a nuovi cittadini. Lascia interdetti la statistica secondo la quale in vent’anni sono stati impermeabilizzati 12 mila chilometri quadrati di territorio, un area più estesa dell’intero Abruzzo.

La vittoria dei non-luoghi è nelle cose, nella presa di possesso di porzioni d’Italia sempre più grandi. Il rischio, ma temiamo sia realtà per moltissimi connazionali, è che ci si abitui alla sciatteria, al degrado, all’informe fino a considerarlo normale. Già oggi si va al centro commerciale non per risparmiare, ma per passare il tempo, visitare i negozi, a proprio agio tra corridoi tutti uguali inframmezzati da rare panchine in corrispondenza di gelaterie e bar che distribuiscono cibo spazzatura (adesso si chiama street food!), acquistando non il contenuto, ma la confezione, i colori, l’accattivante posizione nell’espositore. Esiste una sorta di finestra di Overton del cattivo gusto, della bruttezza, del nuovo. Ciò che l’altro ieri pareva orribile, ieri era solo discutibile, oggi è accettato e domani sarà regola fissa.

Anche Augé, a poco più di vent’anni dalle sue intuizioni, sembra superato. Siamo sicuri che siano davvero non-luoghi, per la maggioranza, gli aeroporti, le stazioni, le autostrade, gli autogrill e gli svincoli? Temiamo al contrario che si stiano trasformando in rovinosa, epperò rassicurante normalità. L’uomo massa, il consumatore globale deve trovare la strada tracciata, il camminamento predisposto. Che bello un supermercato di San Francisco dove gli stessi prodotti si trovano esattamente nella medesima posizione di uno di Barletta, quanto è comodo un mondo pieno di frecce a indicare percorsi, azioni, comportamenti. E che meraviglia leggere cartelloni scritti in una neolingua globale. Siamo cittadini del mondo, perbacco, e non ci sfiora l’idea, il sospetto di esserci trasformati in sudditi cui viene fatto pensare, credere, preferire o detestare ciò che vogliono i padroni del sistema. Eh, no, noi decidiamo con la nostra testa! Purtroppo, è tragicamente vero: hanno abolito studi e materie che allenavano al pensiero individuale, critico, al ragionamento, ci hanno persuasi che nuovo è bello e vecchio è brutto, che ieri era oscurità e oggi è luce. Pensiamo davvero con la nostra testa, solo che è stata svuotata e riconfigurata.

Volgarizzata, è l’inversione delle streghe di Macbeth nella fredda landa scozzese: bello è il brutto, e brutto è il bello. I non-luoghi della surmodernità diventeranno sempre più graditi compagni di viaggio, così identici, prevedibili, si trasformeranno nel paesaggio ideale dell’umanità nomade e sradicata, la bruttezza non verrà più percepita. L’uomo si adatta a tutto, e comunque come potrà ricercare una bellezza che non vede e, peggio, non sa più riconoscere? Alcuni anni fa carpimmo spezzoni di dialogo di una coppia alla vista delle torri di San Gimignano: mettono tristezza, mi vengono i brividi.

Meglio, molto meglio, il casello autostradale che conduce alla tangenziale da cui si può raggiungere, a piacere, l’aeroporto, la multisala, l’outlet. Presto, non-luogo sarà il Colosseo, inutile testimone di antichi spettacoli sanguinosi, e la Lanterna, un faro che al tempo della navigazione computerizzata non serve a nulla. Nella terra guasta, desolata cantata da Thomas S. Eliot, forse si salveranno chiese e palazzi circondati da scalinate, poiché potranno essere utilizzate dai passanti come sedili, una breve sosta e via, verso nuove emozioni. Aveva torto marcio Nicolàs Gòmez Dàvila a proclamare, in margine al suo “testo implicito”, che le cattedrali non sono state fatte per l’ente del turismo. E per chi, se no?

ROBERTO PECCHIOLI