di Roberto PECCHIOLI.
Una insegnante assegna un compito agli allievi centrato sul paragone tra le norme del Ministero degli Interni e le leggi razziali. Padronissima di difendere tale idea come privata cittadina, non di imporla ex cathedra a ragazzini tra i 14 e 16 anni nell’esercizio della funzione educativa. All’esterno degli autobus del servizio urbano genovese campeggia la pubblicità della locale università in cerca di clienti. Lo slogan è una parafrasi di Nietzsche: diventa chi sei, propongono i professoroni, diventa ciò che sei, implorava il solitario di Sils –Maria. E’ evidente che così non funziona. La scuola italiana, inesausto diplomificio e laureificio, è uno dei buchi neri del declino nazionale. Il suo ruolo si esaurisce nel fornire nozioni strumentali, neppure troppe, giacché il “nozionismo” è una bestia nera della didattica da circa mezzo secolo.
Invero, per la nota teoria della persistenza degli aggregati, è soprattutto un pachiderma a difesa di se stessa, un parcheggio per centinaia di migliaia di giovani in attesa di disoccupazione, oltreché, prosaicamente, sogno lavorativo di legioni di aspiranti docenti e candidati ATA (personale ausiliario, tecnico e amministrativo), impegnati in graduatorie, ricorsi infiniti e concorsi più lunghi della fabbrica del duomo di Milano. Vale la pena una breve riflessione, partendo dalla constatazione dell’esistenza di uno Stato educativo (ma non educatore) di stampo burocratico che rende merito alla proposta dirompente di Ivan Illich: descolarizzare la società
E’ necessario distinguere tra l’educazione di base all’esistenza e la “cassetta degli attrezzi” sempre più vuota e avulsa alla realtà fornita dall’istituzione scolastica. La prima si realizza nell’ambito domestico attraverso l’esempio, con le tradizionali risorse del premio e del castigo; inizia con l’addestramento al controllo degli sfinteri e con l’insegnamento dei fondamenti della vita: rispetto dei genitori, stare a tavola, igiene personale, riconoscimento delle regole sociali, inserimento graduale nella comunità di appartenenza, introiezione dei saperi e dei principi che la regolano. Il valore fondamentale di questa iniziazione alla vita consiste nella sua indole costruttiva; non si limita a formare un individuo, ma lo costituisce. L’altra, quella ufficiale, scolastica, burocratica, non può funzionare né iniziare il suo cammino se non è avvenuta la prima, anteriore in termini temporali, ma soprattutto condizione preliminare per un’istruzione “educativa”.
Il dramma è che la formazione familiare e comunitaria crolla quando la casa, per secoli luogo sacro o almeno luogo di comunicazione reale e di presenza di più generazioni, si trasforma in un terreno di coesistenza precaria, temporanea, soggetta alle esigenze economiche o all’andirivieni del desiderio che forma e rompe di continuo le convivenze. Tutti devono lavorare fuori casa per necessità o per ansia di auto realizzazione, milioni di bambini e di ragazzi sono sballottati tra genitori separati, nonni in affanno e strutture esterne. In queste condizioni, sin dai primi mesi di vita dei bimbi, diventa obbligatorio delegare alla scuola le funzioni della famiglia, con grande vantaggio per il Potere.
Il potere, lo Stato, hanno sempre trovato nello spazio familiare, luogo dell’educazione alla vita e della trasmissione quotidiana di valori, conoscenze, significati, uno scoglio da superare nella loro volontà di diffondersi senza limiti nel corpo sociale. Ciò sin dalle sue origini remote, quando si appoggiava sul terreno domestico, ma entrava in concorrenza con la famiglia. Il conflitto risale a Platone: “i padri non devono essere liberi di mandare o non mandare i loro figli a casa dei maestri scelti dalla città (polis) poiché i bambini appartengono meno ai loro padri che alla città”.
Oggi sono gli stessi genitori a esigere che lo Stato eserciti le funzioni proprie dell’ambito familiare. Gli uomini sono educati a sentirsi prima di tutto cittadini dello Stato, non persone dotate di autonomia e libertà. Le prime parole dei nuovi membri della società, ancora bambini, le richieste che contano, sono quindi rivolte a un funzionario a stipendio, esperto di qualcosa munito di diploma specifico, detentore di un potere autorizzato dall’alto. Inevitabilmente, le personalità si formate con un unico stampo, l‘ imprinting mercantile ove le domande di senso sono represse o imprigionate nello schema delle FAQ dell’universo digitale, le richieste più ricorrenti, domanda e risposta preconfezionata, depotenziata, al di fuori del quale non c’è che la devianza o il comportamento antisociale. La società è stata occupata interamente dall’economia e dalla burocrazia, le quali, insieme, hanno spezzato il cerchio sacro della famiglia e poi della comunità.
Illuminante è al proposito il pensiero di Karl Marx. “Dite che aboliamo i vincoli più intimi sostituendo l’educazione domestica con l’educazione sociale. Ma la vostra stessa educazione non è stata determinata dalla società? Non lo è forse per le condizioni sociali entro le quali educate, per l’intromissione diretta o indiretta della società attraverso la scuola? I comunisti non stanno inventando l’influenza della società sull’educazione, modificano soltanto i suoi caratteri, sottraendo l’educazione all’influenza della classe dominante.” Aveva ragione, quanto meno era sincero, una dote assente nello Stato post moderno, liberale a parole, totalitario e burocratico nei fini. Il peso opprimente della società – politica ed economica- nell’educazione è oggi definitivo.
Una società, la nostra, che è il prodotto dell’azione congiunta dello Stato e del Mercato, che forgiano le coscienze di cittadini lavoratori e consumatori sempre più refrattari a forme stabili e strutturate. Ovvio, non servono al potere, interessato al capriccio istantaneo del consumatore, alla flessibilità infinita del lavoratore, alla tolleranza indifferente del cittadino. Tutte virtù assai di moda, fondamenti di una soggettività priva di sostanza, mobile, effimera, aperta ai venti dell’opinione e alle rapide mutazioni della moda.
La scuola diventa Stato educativo e non educatore in quanto l’istruzione, al pari di ogni altra merce, è stimolata, detenuta e venduta dall’Istituzione con l’obiettivo di creare l’uomo omologato: l’uomo-cittadino docile, l’uomo-consumatore compulsivo, l’obbediente al mito del falso progresso. Scriveva Ivan Illich in Descolarizzare la società: “all’inizio del secolo XVII cominciò ad affermarsi un nuovo consenso, intorno all’idea che l’uomo nascesse inidoneo alla società e tale rimanesse se non gli si forniva una educazione. L’educazione venne così a indicare l’opposto dell’attitudine vitale. Venne a indicare un processo, anziché la semplice conoscenza dei fatti e la capacità di adoperare gli strumenti che danno forma alla vita concreta dell’uomo. L’educazione si identificò con una merce immateriale cha andava prodotta a beneficio di tutti, dispensata nella stessa maniera in cui prima la Chiesa visibile dispensava la grazia invisibile. La giustificazione al cospetto della società divenne la prima esigenza dell’uomo, che viene al mondo in una condizione di stupidità analoga al peccato originale.”
In queste condizioni, è anacronistica qualsiasi domanda di responsabilità, impegno e disciplina paziente. L’antica dedizione costante, cosciente e sistematica allo studio, sostenuta dall’autorità e dalla sapienza di educatori viene vista, nel migliore dei casi, come una stravaganza sospetta. L’applicazione a un esercizio arduo in cui la promessa di comprensione è non solo remota ma improbabile è attitudine contraria alle forze politiche e dominanti. Tutto e subito, un sapere di superficie, ridotto a Bignami, immediatamente spendibile sul mercato. Lo sforzo, l’autonomia intellettuale, l’esempio di chi sa sono fastidiosi, peggio, inutili allo scopo, il prodotto diploma o laurea, da ottenere in scuole la cui mission è produrre un tot di promozioni competendo con gli altri istituti in ogni ambito eccetto la qualità.
La scuola è divenuta così un luogo di passaggio configurato dalle figure sociali dominanti, “di successo”, quindi deve essere ludica, dinamica, attuale e orientata esclusivamente al mercato del lavoro e all’integrazione nel modello dominante. I programmi e le materie di studio registrano il rendimento in competenze richieste dall’economia del momento e innalzano a precetti indiscutibili le norme e i valori definiti dallo Stato per conto dei padroni della società. Competenze tecno economiche e valori politici che acquistano senso in perfetta simbiosi, in assenza di contraddittorio, poiché è represso il pensiero critico e sono messe da parte le materie che lo trasmettono.
Un’altra simbiosi è quella tra le nuove forme di relazione, le famiglie alternative alla famiglia naturale, in armonia con la scuola ipermoderna, avanguardia rivoluzionaria di una nuova educazione impaziente, da utilizzare rapidamente, flessibile e tollerante (per mancanza di principi da difendere) efficiente e tecnicamente ottimizzata. Nei fatti, la scuola si trova in una condizione di rovina mimetizzata, portatrice di un’uguaglianza smorta smentita dalla realtà, ostile a qualunque comunicazione delle nuove generazioni con la tradizione di provenienza, liquidata come anticaglia e perseguita in quanto minaccia contro il vigente ordine culturale. Ogni critica alla verità imposta produce sospetto e viene vista come stravaganza prossima alla psicosi. Non stupisce affatto che si diffondano le malattie professionali nei docenti più scrupolosi, sempre più soggetti a disturbi psicologici vincolati alla depressione. Una volta di più, la psicopatologia ha un’eziologia morale e politica.
La scuola è il laboratorio privilegiato in cui il liberalismo riduce tutto a opinione equivalente, a cominciare da fede, cultura, tradizioni, in alleanza con un vasto ceto di burocrati dell’insegnamento, “esperti” di un clero culturale di prevalente orientamento progressista pagati per sradicare e distruggere le ultime vestigia di pensiero libero, critico, non ufficiale. Le forme culturali non vengono conquistate ma decostruite e poi sciolte in un solvente potentissimo, il Mercato che soffoca ogni forma di resistenza, richiedendo mobilità, flessibilità, efficienza e utilità al posto di sacrificio, continuità generazionale, tradizione, stabilità.
Le norme che attribuiscono diritti garantiti dallo Stato ai bambini vengono utilizzate per impedire i tentativi dei genitori di allevare i figli in autonomia, come dimostra la recente decisione di vietare l’istruzione in casa in Germania. Lo Stato, ostaggio delle oligarchie finanziarie e tecnologiche, continua ad essere il luogo privilegiato della costruzione di uno Stato educativo in regime di monopolio con tendenze sempre più scopertamente totalitarie, strumento privilegiato di una inusitata società “etica”, nel senso di portatrice di una visione obbligatoria spacciata per scelta morale.
A tutto ciò, Ivan Illich aveva opposto un testo, Descolarizzare la società, che è una pietra miliare del pensiero occidentale alle prese con la grande trasformazione culturale e tecnologica. Descolarizzare significa sostituire un’educazione autentica ai rituali dell’istruzione di massa, imparare a vivere attraverso l’esperienza personale nell’incontro con l’altro. Non si trattava solo di una rottura radicale con un sistema di poteri e di saperi, ma di restituire all’uomo il gusto di inventare, creare e sperimentare la propria vita.
La proposta di appare oggi una possibilità sensata, tanto dinanzi alla disoccupazione giovanile che esplode con la generalizzazione dei robot che alla burocratizzazione e standardizzazione del sapere, derubricato a “ciò che serve”. Descolarizzare per non considerare l’istruzione come una merce di consumo detenuta e venduta dalle istituzioni ufficiali obbligatorie con l’obiettivo di plasmare l’individuo con il certificato di cittadino, fedele consumatore, credente del mito progressista. Scriveva Illich: all’inizio del secolo XVII cominciò ad affermarsi un nuovo consenso intorno all’idea che l’uomo nascesse inidoneo alla società e tale rimanesse se non gli si forniva una educazione. L’educazione venne così a indicare l’opposto dell’attitudine vitale. Venne a indicare un processo, anziché la semplice conoscenza dei fatti e la capacità di adoperare gli strumenti che danno forma alla vita concreta dell’uomo. L’educazione si identificò con una merce immateriale cha andava prodotta a beneficio di tutti, dispensata nella stessa maniera in cui prima la Chiesa visibile dispensava la grazia invisibile. La giustificazione al cospetto della società divenne la prima esigenza dell’uomo che viene al mondo in una condizione di stupidità analoga al peccato originale. L’interesse ad educare la propria prole è antico ma si è dovuto attendere l’età moderna per vedere un sistema razionale di repressione, controllo e ridimensione del Sapere. “
La scuola si trasforma in un secondo ventre materno, una lunga gestazione che guida a staccarsi dal proprio ambiente naturale, per approdare nella società come disciplinati cittadini-consumatori. In più ha un impatto negativo in quanto impone un insegnamento uniformato in basso, sordo ai ritmi e agli interessi specifici dello studente.
La scuola obbligatoria, la scolarità prolungata, la corsa ai diplomi, l’università di massa: differenti aspetti di quel medesimo falso progresso che consiste nella preparazione di studenti costretti al consumo di programmi scolastici studiati per imporre il conformismo sociale, l’obbedienza alle istituzioni e ai suoi miti. La strutturazione del profilo degli insegnanti, tesi a una didattica basata sul modello della trasmissione acritica delle conoscenze, ha lasciato l’uomo comune privo di strumenti personali, esposto al rischio di una mistificazione delle sue qualità. In più, agisce l’effetto moltiplicatore, prescrittivo della comunicazione-spettacolo.
Una recentissima campagna televisiva governativa presenta l’immagine di una pagina di dizionario. Nulla di più oggettivo della definizione delle parole in un vocabolario. Il messaggio è quindi sottilmente totalitario per la sua finta neutralità. La cromatofobia, spiegano, è la paura irrazionale dei colori. L’omofobia, analogamente, è la repulsione altrettanto infondata, dunque patologica, verso l’omosessualità. Nuove verità di Stato etico-educativo spacciate per progresso, totem indiscutibile. Il terribile dilemma è che per combattere lo Stato educativo e descolarizzare la società, ovvero confutarne le verità ufficiali dispensate dagli esperti al servizio del potere, occorre la dimensione familiare, distrutta, quella comunitaria, abbattuta dal falso soggettivismo e l’educazione al pensiero critico contro vecchi e nuovi luoghi comuni, tacitamente abolita.
Ha vinto l’alleanza tra Stato, mercato e chierici della cultura che hanno fatto della scuola l’agenzia pubblicitaria che fa credere di avere bisogno della società così com’è.