Andando all’università, quel giorno di fine primavera (giugno ’84), Federico Caffè sapeva che difficilmente avrebbe evitato di cadere nella trappola di una qualche cerimonia organizzata, vermouth e pasticcini, dai suoi allievi e dai suoi assistenti per «festeggiare», dopo trent’anni di cattedra, il suo passaggio nel novero dei «fuori ruolo». Come scriverà qualche anno dopo, era in procinto di essere collocato «in una specie di limbo». Che se non era quello del pensionamento tuttavia comportava «l’abbandono dell’insegnamento attivo e quindi del contatto diretto nei confronti degli studenti».
Altro che, quindi. E tuttavia, in qualche modo, bisognava stare al gioco e a quel tanto di solenne ufficialità che il gioco prevedeva. Sapeva benissimo che alla lezione, nonostante la sua capillare opera di dissuasione, sarebbero stati presenti, oltre agli allievi, parecchi colleghi comprese alcune autorità accademiche (che potesse intervenire lo stesso rettore Ruberti forse non l’aveva previsto), così come sapeva benissimo che dopo la lezione ci sarebbe stato un dibattito. Su che? Prevalentemente sul tema da lui prescelto, salvo eventuali incursioni nella sua attività di docente da parte di un qualche incallito encomiatore.
Per la prima volta nella sua vita aveva deciso di non parlare a braccio ma di leggere. Quanto al soggetto della lezione, non aveva avuto un solo dubbio: l’avrebbe dedicata a una vecchia conoscenza, vero e proprio punto d’intersezione tra le sue contrastanti passioni di ricercatore e di ideologo, di uomo di laboratorio e di uomo di parte. Insomma a Francesco Ferrara.
Ferrara, per Caffè, non è soltanto un esimio economista del passato. È un simbolo. È una «radice». Il «retoricume neoliberista» dei giorni nostri è, a suo giudizio, un tardo frutto che in qualche modo deriva dalla sua foga di apostolo della libera iniziativa che ha in odio qualunque limite possa essere frapposto al singolo nel dispiegarsi della sua attività economica. I precetti del laissez-faire per lui sono articoli di un catechismo: non si discutono.
Economista, parlamentare (anche ministro), professore d’università, polemista, studioso, Francesco Ferrara è sicuramente una delle intelligenze più spregiudicate della seconda metà dell’800 italiano, legato a quella scuola «manchesteriana» alla quale Guido De Ruggiero, nella sua celeberrima Storia del liberalismo europeo, riconosce «… la percezione della capacità espansiva della società industriale moderna, la fiducia nell’iniziativa, nell’ardimento individuale, che spezza le invecchiate consuetudini, per lanciarsi in una via nuova, piena di rischi e di speranze».
Ma tutto questo, si chiede Caffè, allorché viene riproposto oggi, in una società così diversa da quella ottocentesca non deve essere considerato incongruo e datato? Che senso ha contrabbandare come fresche di giornata ricette impolverate dal tempo senza avere neppure la cura, in molti casi, di citare le fonti alle quali si attinge? Ferrara insomma diventa uno strumento, quasi un pretesto, per parlare ai suoi avversari di oggi, ricordando loro i limiti di una concezione che ha principalmente un obiettivo nel proprio mirino: lo spirito pubblico, lo Stato, quel precetto etico-politico che dovrebbe spingere ciascuno a riconoscersi, oltre che individuo, collettività.
Generalmente il professore di via del Castro Laurenziano, soprattutto quando è in cattedra, evita i toni forti, i giudizi taglienti. Il suo metodo di lavoro è descritto da Carlo Ruini nei termini di una «feconda tolleranza intellettuale» che si esprimeva soprattutto nello scrupolo della documentazione e dell’ambientazione storica di ciascun autore. Un passo dello stesso Caffè ci aiuta a capire meglio: «Sono stato abituato nell’ambito di una concezione della scienza economica come un’opera costante e successiva, per cui l’edificio della scienza stessa risulta come una serie di piani che si aggiungono a quelli precedenti in modo da costruire un tutto solido ed armonico… E se con il tempo si è in me attenuata la fiducia nella solidità e nell’armonicità dell’insieme, continuo a essere convinto che il carattere costante, continuo e successivo della scienza economica si affermi attraverso il riconoscimento del contributo valido dei diversi apporti…»
Nei suoi giudizi dunque non c’è mai violenza, soprattutto verbale.
A volte affiora la sua stessa inclinazione a una certa ambiguità intellettuale, verso quell’inestricabile intreccio di contrari (o soltanto di diversi) che è la storia (fatta, come dice lui stesso, da tanti padri che sono a loro volta figli e da tanti figli che sono a loro volta padri).
Nell’ultima lezione invece mette con più impazienza le carte in tavola. Sempre con garbo, per carità. Ma con fermezza. così, dopo aver segnalato gli elementi di originalità, elenca le influenze negative dell’eredità intellettuale ferrariana, tra le quali emerge quella carenza di spirito pubblico che tanto si lamenta oggi in Italia. Se non si è formata una coscienza dello Stato, dice in sostanza Caffè, ciò avrà pure i suoi responsabili. Fra i quali, oltre a Francesco Ferrara, non si possono non elencare tutti i grandi liberisti che discendono dalla sua pianta: Pareto, Pantaleoni, Einaudi. Fino ad arrivare agli attuali «nipotini» di Reagan.
Senza rinunciare al tono misurato, ecco che adesso il professore si fa sferzante, mostrando involontariamente quanto profonde siano le sue ferite di riformista isolato, escluso, vittima di quel «preoccupante arretramento culturale» in atto in Italia, e in genere nel mondo, dopo il decennio delle speranze.
«Ogni restaurazione – scrive Caffè nella sua lezione-saggio – reca in sé i germi dell’oltranzismo intollerante». Basti dire che nella recente contrapposizione «del mercato allo Stato, si giunge a negare anche le conseguenze sociali delle disparità dei punti di partenza individuali, attribuendole unicamente a fattori biologici, genetici, e di originaria dotazione intellettuale». Il che, commenta, significa una cosa sola, e cioè che si è scivolati in pieno verso concezioni «intrinsecamente Razziste».
Il quadro che traccia dell’Italia che lo circonda è di un pessimismo quasi assoluto. È un’Italia attraversata da «chiari e insinuanti inviti ad arricchirsi», ad anteporre il proprio tornaconto a qualsiasi valore o ideale. È un’Italia affascinata, come tanta altra parte del mondo industrializzato, da «istanze deregolamentatrici», benché il nostro paese sia sprovvisto di «validi argini nei confronti delle forme più vistose di fallimenti del mercato» (che è soltanto un bell’eufemismo per dire che in Italia non c’è lo Stato, per cui se scoppia il mercato nulla potrà salvarci dal baratro).
Quasi un testamento, vien voglia di dire ricordandosi che tre anni dopo quest’ultima lezione Caffè scomparirà come vanificato dalla sua stessa disperazione. Il che non vuol dire che la sua scomparsa debba essere letta necessariamente tutta in chiave ideologica. Questo, indubbiamente, sarebbe un romanzo e basta. Ma che essa sia stata anche una «scomparsa ideologica» pare difficile negarlo.
Caffè dunque decide di «confessarsi» fino in fondo. Alla ricerca delle radici del neo-liberismo attuale isola soprattutto un nome: quello di Francesco Ferrara, nel quale riconosce una sorta di capostipite, particolarmente lucido e coerente, di tutti i teorizzatori del libero mercato
Tratto da:
Ermanno Rea – L’ultima lezione
La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato