di Roberto PECCHIOLI
La denaturazione è un processo chimico consistente nell’aggiunta di piccole quantità di sostanze – i denaturanti- a un prodotto, allo scopo di alterarlo e renderlo inadatto ad usi diversi da quelli suoi propri. Il processo porta a una perdita di ordine e quindi aumenta l’entropia, ovvero lo squilibrio generale del sistema. Pensavamo alle poche nozioni scientifiche acquisite durante una lunga coda all’esterno della solita farmacia. Ascoltavamo le confidenze di due signore avvolte nella pelliccia nonostante il mite, soleggiato mattino. Così, senza volerlo, abbiamo appreso che entrambe erano in attesa di acquistare ansiolitici oltre alla tachipirina, balsamo dei malanni stagionali. Deploravano che qualcuno vagasse per la città senza mascherina e, soprattutto, erano indignate per la chiusura festiva di molti esercizi e supermercati, tanto più che “la regione ha diramato l’allerta gialla”.
All’erta stiamo, per mille e un motivo. Nello specifico, allerta gialla significa semplicemente che oggi pioverà, magari con l’accompagnamento del vento. Nulla di anormale, specie in certe stagioni dell’anno. Le signore, tuttavia, allarmate, sembravano paventare alluvioni, o il diluvio universale, con la necessità di immagazzinare provviste nonostante le festività. Eh sì, ci hanno davvero denaturato, ossia ci hanno estirpato la normalità della nostra condizione. Forse pensiamo così perché, giunti all’età della pensione, tendiamo a guardare tutto con le lenti deformanti del passato, premettendo a ogni considerazione il fatidico e spesso ridicolo “ai miei tempi…”. Eppure ci sembra di esprimere ovvietà quando prendiamo atto che l’essere umano è stato riconfigurato, addomesticato come un animale da compagnia e quindi denaturato, cioè privato della sua vera essenza.
Viviamo le situazioni più comuni come eccezioni, problemi insormontabili: se piove, abbiamo bisogno dell’allerta dei meteorologi per munirci di ombrello e impermeabile. Anche se è festa, pretendiamo il pane fresco e un etto di prosciutto appena tagliato, incuranti, tra l’altro, del lavoro altrui. Anche il creatore il settimo giorno si riposò, ma era l’inizio dei tempi. Oggi dobbiamo correre come levrieri dietro la lepre artificiale senza possibilità di raggiungerla. Nel Vangelo di Marco, Gesù disse di fronte ai potenti: il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato. Non conosceva la società dei consumi e non era un uomo denaturato. Non lo era neppure nostra nonna, che, ignara dell’allerta e dei cambiamenti climatici futuri, ripeteva in dialetto che “il freddo e il caldo vengono sempre”. Per i giorni di festa, si limitava a comprare il pane per due giorni e cibi capaci di conservarsi.
Temiamo che l’uomo denaturato abbia perso più di quanto ha guadagnato con il sedicente progresso. Anni fa, in campagna, alcuni bambini videro degli animali al pascolo e li sentimmo chiedere con un certo timore: quelle sono mucche vere? Alla stessa età, chi scrive credeva ancora fermamente a Gesù Bambino che, nottetempo, poneva i regali tra l’albero e il presepe. Scriveva un secolo fa Max Weber ne La scienza come professione che la modernità era caratterizzato dal “disincantamento del mondo”. Attribuiva il passaggio dalla società tradizionale alla società moderna a un processo di razionalizzazione nell’interpretazione della realtà e nella organizzazione della vita sociale. Poiché l’uomo ha rinunciato alle vecchie credenze e ai valori perenni, il mondo si è disincantato. Il risultato è un’umanità molto più esigente, ma anche impaurita, dipendente dall’esterno, dalle comodità, incapace di vivere senza l’”aiutino” di psicofarmaci, paradisi artificiali ed “esperti” in ogni fase, evento e passaggio naturale della vita.
Artificiale è l’aggettivo che meglio definisce la modernità, ma la post modernità è anche peggio: virtuale, incapace di distinguere tra ciò che è reale da ciò che non lo è. Abbiamo coinvolto nella nostra domesticazione gli animali da compagnia: cani che non difendono più il territorio, gatti come Attila, un superbo micione rosso che ha paura dei topi. Denaturati anche loro, come la vita urbana negli alveari chiamati condomini e i prati artificiali dei centri commerciali, in cui vengono piantumati tristi alberi delimitati da quadrati di mattoni e cemento.
Tutto va sprecato, dissolto nel pappone globale. L’uomo denaturato, separato dalla sua natura morale e sociale, vive nell’illimitato della tecnica, da perplesso cittadino del mondo, schiavo di una piovra dai mille tentacoli, massificato, cercando a tentoni identità di riserva nelle merci firmate, nel nomadismo, nella novità, nell’elevare l’asticella dei piaceri e delle pulsioni. Un sistema accattivante, luccicante sino all’accecamento, le cui sbarre non sono meno robuste di quelle, materiali, del passato.
Nel frattempo, corriamo. Dove e verso quale traguardo non è dato sapere. Lo capì Paul Virilio, definendo dromocrazia, dominio della velocità, il nostro tempo. Sempre di più e sempre più in fretta: nessuno ha il tempo di tirarsi indietro di fronte all’antifona del progresso, il moto perpetuo che non si ferma mai. Aumentiamo le dosi di tutto: bisogna essere “performanti”, e questo genera ansia da prestazione, ostilità verso il prossimo, competitività insensata per reggere la quale corriamo in farmacia con la ricetta di narcolettici, ansiolitici e tranquillanti. L’uomo denaturato non ce la fa. Siamo oltre l’analisi critica dei rapporti di produzione della società mercantile. Alludiamo alla dimensione spirituale dell’alienazione dell’umanità. E’ denaturato già il neonato, strappato dal calore domestico, dalle braccia della madre, che deve lavorare, “realizzarsi” e comunque tirare avanti in un mondo che ha denaturato anche la famiglia, distruggendola.
Essere performativi costringe a esaurire nella corsa l’energia vitale, da attori di uno spettacolo perpetuo che fa dimenticare la nostra vera identità. La perdita più grande è stata la meraviglia, abbandonata, ridicolizzata dalle formule, dai protocolli, dalla Dea Scienza. Uno scrittore italiano, Vittorio G. Rossi, disse che questa perdita è un segno di vecchiaia e che l’uomo contemporaneo nasce vecchio. E’ proprio così, clienti dell’asilo nido, orfani di Gesù Bambino, ma ancora più delle attenzioni della madre e della protezione del padre, troppo impegnati nella competizione. Si nasce vecchi senza la saggezza di ieri, semplice, naturale che faceva accettare le stagioni dell’anno e quelle della vita.
Ai più giovani sembra impossibile, ma si sono sempre mangiate le arance d’inverno e le pesche d’estate. In Liguria c’è la torta “pasqualina”, che si chiama così perché i carciofi che ne sono la base maturano nel periodo pasquale. E’ la globalizzazione, dicono, ma perdere, con il ritmo delle stagioni, il senso circolare della vita per affidarsi alla linea retta e potenzialmente infinita del progresso non ci ha reso più felici. Semmai, più paurosi, meno disposti al sacrificio, a lottare per qualcosa che non è comodo, a portata di mano (denaro permettendo!) e, orrore massimo, non si può ottenere online in tempo reale. E’ screditata, odiata, anche l’attesa, il tempo sospeso che genera ansia, da lenire con altre pillole chimiche oppure con le formule salvifiche degli esperti.
Prima, al tempo non ancora rischiarato dalle meraviglie del progresso, non serviva l’allerta per sapere che in autunno piove e d’inverno può nevicare; non avevamo il forno a microonde che agita le molecole ed è cancerogeno, la polenta bisognava girarla con il mestolo di legno nel pentolone basso e largo. Sapevamo distinguere tra i “beni”, ciò che veramente serve alla vita, e le “merci”, tutto il resto. Eravamo aperti al mistero e non dipendevamo dalle statistiche. Diceva Ramiro De Maeztu, un intellettuale spagnolo fucilato senza processo nella guerra civile, che “essere è difendersi”. Oggi, essere è dipendere: dalle macchine, dagli apparati, più che mai dal potere. L’uomo denaturato è debole, infiacchito, delega tutto agli altri, tranne il consumo e il piacere immediato, i due denaturanti più diffusi.
Pensiamo all’obbligo delle mascherine all’aperto e ad altre prescrizioni epidemiche: è quasi certo che non servano a granché, ma manca la reazione, segno che il denaturante ha davvero alterato la nostra declinante umanità. Neppure sfiora la maggioranza, impegnatissima nella difficile arte della sopravvivenza biologica, che si tratti di misure la cui funzione è verificare la nostra volontà e capacità di reazione. Ci abituiamo a tutto, diventa normale ciò che non lo è affatto. L’uomo denaturato ha perduto gli anticorpi, il suo sistema immunitario (morale e fisico) è stato indebolito sino a esaurirsi e la reazione, se c’è, è virtuale come tutto il resto. “Prima” (un avverbio che dopo il Covid ha cambiato significato) saremmo andati in piazza, avremmo urlato la nostra indignazione. Oggi abbiamo un denaturante potentissimo, le reti sociali. Così come gli amici si contano online, anche il dissenso è stato reso virtuale, un grido tra miliardi nella grande rete, e così neutralizzato.
La digitalizzazione della vita intera è un denaturante potentissimo. Siamo privati del contatto umano: gran parte della quotidianità è sostituita dall’onnipresente online. Lavoriamo a distanza, impariamo e insegniamo a distanza; non abbiamo più in tasca il nostro denaro, rimasto di proprietà di chi comanda, che ce lo concede a piccole dosi decrescenti previa esibizione di un pezzo di plastica con incorporato il chip che permette la digitazione del pin e poi, se il sistema funziona e il Dominio è disposto a restituisci parte di ciò che è nostro, ci concede l’erogazione del contante o l’addebito degli acquisti. E’ tanto comodo, per l’uomo domestico denaturato.
L’istruzione è complice della denaturazione. Sono abolite le materie “che non servono” al consumatore e al lavoratore – come la storia e la geografia- e viene nascosta la filosofia, ovvero la disciplina del pensiero, il sapere di chi si pone domande, più che di coloro che esigono risposte, meglio se in tempo reale e con l’aiuto di Alexa, l’assistente virtuale a portata di smartphone. L’essere umano senza filosofia è privato del pensiero cosciente, denaturato al massimo grado. Il disincanto del mondo porta con sé l’incapacità di riconoscere i simboli e attingere l’astrazione. Arriviamo a pensare che l’uomo moderno non sarebbe capace di inventare la matematica, vertice del pensiero astratto.
Una ulteriore forma di denaturazione è la confusione tra legalità e legittimità: ci addestrano a seguire le “regole” senza chiederci se sono o meno giuste, cioè “legittime”. Il pensiero non meditante è gregario. Anche per questo è stato un filosofo, Martin Heidegger, a invocare il “reincantamento “del mondo, ossia la capacità di guardare attraverso le cose, trascendere la nuda materialità, in definitiva tornare umani, non animali ammaestrati. La post modernità non è più nemmeno in grado di comprendere ciò che è “surreale”, cioè evoca le sensazioni fuori dal controllo della ragione. Pensiamo alla famosa pipa di Magritte, il dipinto con la didascalia-manifesto del surrealismo, “questa non è una pipa”. Vero: è solo la sua rappresentazione simbolica, una distinzione che sfugge all’uomo denaturato, per il quale realtà e apparenza coincidono.
La vittoria dell’uomo tecnicizzato è per Heidegger la grande sconfitta della modernità, tanto drammatica da fargli esclamare “solo un dio ci può salvare”. Reincantare l’uomo significa innanzitutto restituirgli la dimensione del pensiero, del simbolo, dell’astrazione, contrapposta a una materialità che sempre gli è sembrata insoddisfacente, incapace di fornire senso, di riempire quell’eccedenza di idee, pensieri, volontà che fa dell’uomo la creatura “sapiens”. Così denaturato, ossia strappato alla sua autentica, sfaccettata essenza, l’umano postmoderno invera l’invocazione di Camillo Sbarbaro, un poeta considerato minore. “Taci, anima stanca di godere e di soffrire (all’uno e all’altro vai rassegnata) “, cantava, riconoscendo con ciò il primato della dimensione spirituale attaccata dalla modernità. ”Nessuna voce tua odo se ascolto: non di rimpianto per la miserabile giovinezza, non d’ira o di speranza, e neppure di tedio. “Sembra il ritratto del presente continuo cui ci hanno addestrati. Infatti, prosegue il poeta, camminiamo come sonnambuli, senza vedere. “Gli alberi sono alberi, le case sono case, le donne che passano son donne, e tutto è quello che è, soltanto quel che è. La vicenda di gioia e di dolore non ci tocca. Perduta ha la sua voce la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto. Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso. “
L’uomo post moderno è ancora capace di quell’introspezione severa, di quel giudizio scabro, ha ancora la forza interiore per scoprire il Sé, e vedere il deserto tra le luci del varietà, la nostra prigione? Alla fine, il destino dell’uomo scisso dalla sua natura è quello scoperto da Zarathustra: il deserto cresce; guai a colui che in sé cela deserti.