di Paolo Borgognone
Il Partito Radicale è stato, sin dalla sua fondazione, nel lontano 1955, l’attore politico privilegiato del processo di privatizzazione della politica e di normalizzazione conformistica dei ceti medi italioti. Questo partito è a pieno titolo espressione della cultura politica, elitaria e improntata alla dissoluzione dei legami tradizionali e comunitari, della “fine capitalistica della Storia”. Il PR è infatti un partito liberale, liberista e libertario per definizione stessa del suo leader, Marco Pannella. E il liberalismo politico, il liberismo economico e il libertarismo sociale costituiscono la “triade progressista” attorno a cui si articolano le nuove forme di colonialismo contemporaneo. Il PR è il partito che veicola, presso i ceti medi sinistrorsi lettori de la Repubblica, La Stampa, Left e il manifesto, le idee delle classi dominanti. In questo senso, in Italia, la mediatizzazione del PR quale “partito delle battaglie” per i cosiddetti “diritti civili” è stata oltre ogni modo ipertrofica.
Come detto, il Partito Radicale è il megafono degli odierni processi di flessibilizzazione consumistica delle masse e di colonizzazione, anche per via militare, dei popoli e degli Stati a vario titolo resistenti. Emma Bonino è una sorta di sacerdotessa del culto della liberalizzazione (dei costumi, dell’economia, delle frontiere etiche, nazionali, politiche). Marco Pannella è il guru del politically correct declinato in versione populistica, demagogica, caciarona, spettacolarizzata oltre ogni limite e “arzigogolata” fino al ridicolo parossismo. In un libro dal titolo Verità e relativismo, Costanzo Preve aveva a riguardo criticato, giustamente secondo l’opinione di chi scrive, «una sinistra ormai del tutto privata di una visione sociale e politica alternativa al sistema». Una sinistra che, travisando il progresso capitalistico della Storia in chiave prettamente emancipazionista, «deve trovare la sua unica ragion d’essere nel cosiddetto “libertarismo dei costumi”, nelle quote rosa per le donne in carriera, nell’inseguimento grottesco del duo musicale relativistico Pannella-Bonino, eccetera».
E’ questa la sinistra della Dissoluzione, del Costume e del Capitale, antiautoritaria ma ultracapitalistica (e cosmopolitica), antifascista ma seguace dell’ideologia clintoniana dell’esportazione della democrazia di libero mercato (e libero desiderio consumistico) all’estero.
Nell’attuale frangente storico, la malattia di Pannella è stata e viene tuttora utilizzata quale grimaldello mediatico per legittimare, attraverso il pellegrinaggio, presso la corte dell’anziano leader infermo, sessant’anni di conformismo capitalistico di massa in questo Paese. Sessant’anni in cui i radicali si sono prodigati in “battaglie politiche” sui cosiddetti “diritti civili” che appaiono, oggi, col senno del poi, perfettamente in linea e compatibili con i postulati culturali di un capitalismo “di terza fase”, “maturo”, “avanzato”, “assoluto”, laddove il termine assoluto dev’essere interpretato nell’accezione di «svincolato» da qualsivoglia legame tradizionale di sorta. I radicali sono infatti i veri e più autentici interpreti della controcultura libertaria di massa, antiautoritaria e antiborghese ma ultracapitalistica, del movimento del Sessantotto. Non a caso, il Partito Radicale, profondamente ammirato dal “Dottor Faust” dell’anarchismo cosmopolitico e confusionario all’italiana, l’ex presidente della Camera F. Bertinotti, è stato l’autentico “movimento comunistico d’opinione” in questo Paese, laddove per “comunismo” s’intende un chiliasmo messianico rivoluzionario di omogeneizzazione sociale attraverso la liberalizzazione integrale dei costumi, dei consumi e dei desideri individuali. I radicali hanno rappresentato, e rappresentano, la “mano sinistra del Capitale”, il lato più oscuro di una globalizzazione centrata sul consenso di monadi neotribalizzate e totalmente dedite al culto pubblicitario, materialistico e individualistico del consumo che, strumentalmente, avvalendosene dunque come un talismano, un amuleto o un ansiolitico, riscoprono il Sacro e la Divinità soltanto nei momenti di estrema prostrazione, magari dopo la diagnosi del primo tumore o in seguito a un incidente stradale potenzialmente letale.
Il Partito Radicale è stato ed è l’attore politico privilegiato per coloro i quali, disgraziatamente, da sinistra, auspicano e intendono il socialismo come approdo cosmopolitico finale di una società consumistica, di spettacolo e di dissoluzione compulsiva di ogni legame tradizionale. Il materialismo pratico, anarchicheggiante e ultracapitalistico, è la filosofia di riferimento dei radicali, laddove il materialismo dialettico, censorio e hobbesiano, fu la filosofia di riferimento dei comunisti staliniani dopo il 1931. Il chiliasmo messianico comunistico dei radicali è stato, da chi scrive, sottolineato ne L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale (p. 779):
Importante sottolineare come i radicali, per dichiarazione stessa di Pannella, rivendicassero, apertamente, la propria internità alla storia del comunismo intesa come soteriologia deterministica, apocalittica e tesa alla unificazione totalizzante della storia e delle comunità storiche, popolari e nazionali, nell’ambito di un monoclassismo cosmopolitico assoluto, ossia slegato da riferimenti e legami identitari collettivi tradizionali (Stato, religione, nazione, famiglia, genere sessuale). In questo senso, esattamente come Karl Marx, Fausto Bertinotti, Toni Negri, Slavoj Zizek, le Pussy Riot e tutta l’odierna masnada comunistica postmoderna, Pannella pensava realmente che il capitalismo e la globalizzazione fossero positivi fattori di totalizzazione di numerose determinazioni (storiche, politiche, sociali, economiche, culturali, religiose) che avrebbero in futuro inverato il comunismo (mentre invece, contrariamente a quel che sosteneva Marx, il capitalismo non produce alcunché, tantomeno il comunismo, al massimo implode).
Il chiliasmo comunistico rivoluzionario di Pannella è perfettamente compatibile con le esternazioni programmatiche, anarchiche, dei fautori della “democratizzazione” della Spagna “falangista” nel 1974. Tra questi, il noto Salvador Puig Antich, giustiziato per omicidio il 2 marzo 1974 e, in definitiva, più esaltato controrivoluzionario anarco-borghese (perfettamente compatibile con l’incedere dei fattori storici, politici, culturali ed economici che di lì a poco avrebbero determinato il crollo del regime nel baratro della «modernizzazione capitalistica», della «democrazia liberale» esemplare per soddisfare i desiderata delle nuove élite transnazionali globalizzatrici e della «movida» per «giovani di successo» e fanatici della Erasmus Society senza confini e illimitata) che non sovversivo antisistemico vero e proprio. Puig Antich e i suoi compari auspicavano infatti, per la Spagna, una “rivoluzione” fondata sui seguenti riferimenti programmatici: «Non lottiamo soltanto contro la dittatura, vogliamo cambiare tutto, abbattere il vecchio mondo e costruire una società senza classi, veramente libera!». La postsocietà, o società postmoderna, o società liquida, culturalmente senza classi sociali e orientata all’antropologia del desiderio capitalistico illimitato, idealizzata e auspicata da Puig Antich nel 1974, è l’involucro politico (e il modello antropologico) da esportazione prediletto dagli strateghi dell’attuale «internazionale democratica» per il cambio di regime, in chiave liberale, liberista, libertaria e, naturalmente, filoccidentale, nei Paesi (Russia, Cina, Iran, Siria, ecc.) in qualche modo resistenti ai processi di colonizzazione cosmopolitica promossi dai teorici della “fine capitalistica” e “progressista” della Storia.
I liberali, sia manifesti (à la Pannella), sia camuffati da comunisti estremisti (à la Puig Antich, Bertinotti o Toni Negri) perseguono lo stesso orizzonte di rimodellamento cosmopolitico e neoliberale della (da loro auspicata) “società globale”. Un rimodellamento conformistico condotto attraverso la “sollevazione culturale antiautoritaria ma ultracapitalistica” di indistinte “moltitudini comunistiche biopolitiche globalizzate”. L’entusiastica adesione, da parte di questi soggetti politici, ai propositi di “democratizzazione radicale” previsti nel novero dei piani americani di “internazionalizzazione” della “democrazia di libero mercato e libero desiderio consumistico a stelle e strisce”, rende chi scrive molto più propenso a scorgere autentici tratti di rivolta politica anticapitalistica e anticonformista nei movimenti e nei partiti descritti da Gabriele Fregola nel libro Storia della destra spagnola (Ciarrapico Editore, 1979) e nell’opera del «genio controcorrente» Konstantin Leont’ev, Bizantinismo e mondo slavo (Edizioni all’Insegna del Veltro, 1986) che non nelle perorazioni libertarie dei pusher di “diritti civili” e “individuali” (riassunti nella triade “gay friendly, droga liberalizzata e femminismo dei ceti neoborghesi”) quali i sostenitori, da George Soros ai pannelliani e fino ai perdigiorno dei centri sociali “okkupati”, della cultura politica radical-libertaria.
Una cultura politica, quest’ultima, secondo cui «il mondo, così com’è, potenzialmente è già comunista» e dunque dev’essere “assecondato”, cavalcando le “opportunità” messe a disposizione dal mercato dei consumi, del divertimento e dei desideri illimitati, al fine di accelerare e “radicalizzare”, attraverso la promiscuità sessuale, le mode americane di vario genere (dalla musica al vestiario ai gusti in fatto di letture, alimentazione e turismo), la confusione ideologica, l’uso smodato di alcol, droghe e nuove tecnologie, i processi di dissoluzione delle residue identità tradizionali interne. Scopo ultimo della citata cultura radicale conformistica di massa è quello di suscitare la summenzionata “sollevazione culturale ultralibertaria e cosmopolitica” dei contestatori conformisti della Erasmus Generation.
In tale contesto, ossia all’interno di un quadro politico di riferimento dove, come afferma il politologo russo Aleksandr Dugin, «sarebbe utile lasciare “la variante anarco-trotzkista di Negri e Hardt alle discussioni di postmodernisti, gruppuscoli marginali, tossicodipendenti e pervertiti”» (P. Borgognone, Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina postsovietiche, Zambon, 2015, p. 50), prende corpo e trova spazio l’attuale penoso pellegrinaggio di potenti della politica di servizio atlantico (da Matteo Renzi a Silvio Berlusconi), dell’imprenditoria (pubblica e privata) e del “circo mediatico” (Clemente J. Mimun, Vasco Rossi) alla corte dell’infermo Pannella, rappresentazione fisica di un sessantennio abbondante di “battaglie culturali” ultracapitalistiche, filoamericane, filosioniste ed esasperatamente conformiste in questo Paese.
Il duo politico-mediatico Marco Pannella-Vasco Rossi, attavolato (tra percentuali da capogiro di nicotina ed ettolitri di Coca Cola, bevanda yankee per eccellenza) nella casa romana del leader radicale il 19 aprile 2016, è tra l’altro molto indicativo del ruolo di agente della normalizzazione, tesa all’addomesticamento conformistico delle masse giovanili (e giovanilistiche), esercitato dalla nomenklatura canora di Mtv, da sempre sponda privilegiata per ogni ipotesi di sostegno politico a “democratici”, “moderati” e ultraliberali di ogni sorta.
Il personaggio Vasco Rossi, da tempo immemore elettore pannelliano e “democratico”, è l’esempio più classico del ludico ribellismo individualistico adolescenziale e postadolescenziale come fattore sistemico di narcotizzazione del conflitto e di ogni opzione autenticamente antagonistica rispetto agli assetti costituiti, politici e pubblicitari, di controllo del pensiero delle nuove e vecchie generazioni di postsessantottini che avvertono se stessi quali “rivoluzionari” in quanto cultori di una “vita spericolata” a base di alcol, tresche e amorazzi di provincia, canne e notti in bianco a “sparare cazzate” in compagnia della bottiglia e di quattro amici al bar.
Il “Pannella-Vasco Rossi pensiero” è riassumibile come ripiegamento nel nichilismo individualistico più docile in luogo della ribellione identitaria collettiva, nel culto del fallimento e della disperazione esistenziali del “tossico all’ultimo stadio” travisato per “rivoluzione”, per atteggiamento “contro”, di rifiuto del “sistema”… Naturalmente è l’esatto contrario, non vi è nulla di più esasperatamente domestico, casalingo, salottiero e perfettamente gestibile, quando non direttamente selezionato ad hoc dalle élite del capitale, del ribellismo eternamente adolescenziale del duo spinellatore e sbevazzone Pannella-Vasco, personaggi assolutamente interni alla società dello spettacolo e impegnati, fino all’ultimo tiro di nicotina e all’ultimo whisky, a giocare il ruolo politico di chi lotta non per cambiare le cose, ma per perpetuare gli assetti (neoliberali) costituiti sine die.
D’altronde, lo diceva già Guy Debord ne La società dello spettacolo (tesi 57, p. 78):
La società portatrice dello spettacolo non domina solo per mezzo della sua egemonia economica le regioni sottosviluppate. Essa le domina in quanto società dello spettacolo. Là dove la base materiale è ancora assente la società moderna ha già invaso spettacolarmente la superficie sociale di ogni continente. Essa definisce il programma di una classe dirigente e presiede alla sua costruzione. Nello stesso modo in cui presenta gli pseudobeni a cui aspirare, offre ai rivoluzionari locali i falsi modelli di rivoluzione.
In un’Italia culturalmente terzomondizzata, la “rivoluzione del SerT”, la “rivoluzione” attraverso lo “spinello libero” propugnata da pannelliani e modaioli à la Vasco Rossi come estrema sovversione “antiautoritaria” propedeutica all’instaurazione del “vero comunismo libertario” e dal “volto umano”, non è che il crepuscolare tentativo di una generazione di falliti e conformisti a 360 gradi di pensare se stessi come qualcosa di diverso rispetto a quello che, dai tardi anni Settanta a oggi, sono effettivamente stati: utili idioti e lacchè del regime liberaldemocratico, cosmopolitico e ultracapitalistico.
La triade valoriale “gay friendly, droga liberalizzata e femminismo dei ceti ricchi” è l’esatto opposto rispetto a un’ipotesi di trasformazione sociale autenticamente e schiettamente rivoluzionaria e antisistemica, che per essere tale dovrebbe articolarsi su di un complesso di riferimenti non compatibili con la cultura politica del capitalismo contemporaneo, ossia sui seguenti punti:
- Patria (interpretata nell’accezione originale, tradizionale, di popolo come unità organicamente intesa, per citare il celebre filosofo e matematico russo Aleksandr Zinov’ev);
- Famiglia (intesa come rifiuto della società liquido-moderna, centrata invece sulla dissoluzione, su base pubblicitaria e in nome della “liberalizzazione sessuale” e “di genere”, dei legami affettivi tradizionali);
- Onore (inteso come riscoperta, a fini comunitari e non speculativi, di valori signorili originari, diametralmente opposti all’odierna idolatria del denaro, dell’acquisizione di beni di consumo e del successo individuale, veicolata all’unisono dai media liberali di larga tiratura, dal ceto politico sistemico e dai teorici della cosiddetta “economia di libero mercato”).
Superfluo, ma assolutamente non sorprendente, in definitiva, sottolineare come i valori di riferimento (oppositivi rispetto all’odierno capitalismo “di terza fase”) conservatori e rivoluzionari al contempo, più sopra indicati, siano stati, da sempre, sprezzantemente rifiutati e combattuti dai vari Pannella, Vasco Rossi e frequentatori dei centri sociali e delle sezioni dei micropartiti di sinistra sopravvissuti al crollo del baraccone metamorfico e clientelare altresì denominato PCI, quali «residui patriarcali», «borghesi» e «autoritari» di un fascismo storico novecentesco in realtà estintosi (e mai più ripresentatosi) in Europa nel 1945. Infatti, sempre ne L’immagine sinistra della globalizzazione (p. 1018), ho a riguardo scritto:
La sinistra, nelle sue varianti liberaldemocratica, radical-libertaria e paleocomunista, combatte strenuamente la destra cosiddetta «reazionaria» (monarchici, clericali, fascisti), quando quest’ultima categoria politica, con i suoi apparati partitici e burocratici, è dileguata a seguito della stagione del Sessantotto, polverizzata dal travolgente incedere del capitalismo speculativo (americano), un capitalismo liberale totalmente incompatibile con ogni soggettività, fondamento storico-culturale e abitudine tradizionalista. Dopo il 1989 infatti, il principale partito della destra in Italia (MSI-DN), allo stesso modo della sinistra (PCI), migrò compiutamente nel campo liberale, e il suo leader, Gianfranco Fini, prese a parlare di «riformismo» e della necessità di dar vita a una «destra progressista». La sinistra combatte una destra estinta sotto i colpi della «modernizzazione ultracapitalistica», antiborghese e antitradizionale del Sessantotto, per legittimare se stessa, presso il ceto medio dei semicolti, come versante culturale dell’odierna accumulazione capitalistica al fine di porre in essere l’apologia (diretta o indiretta) del capitalismo globale e della società liberale (mediante la propria continua autocelebrazione quale “baluardo democratico” contro millantati, e del tutto inesistenti, pericoli e “tentazioni” autoritarie “fasciste e comuniste”).
In prospettiva di un ennesimo “25 aprile” celebrato a mo’ di stanco e vuoto rito di periodica “rifondazione” e legittimazione di una sinistra “antifascista” ma pannelliana fino ai più grotteschi eccessi di emulazione mediatica (vedasi la candidatura e l’elezione alla Camera, nelle liste del bertinottiano PRC, dieci anni or sono, di Vladimir Luxuria, degno erede politico “comunista” della “onorevole radicale” Ilona Staller, in arte Cicciolina, approdata in parlamento nelle file del PR nel 1987), le parole di cui sopra si spera possano risultare di interesse al fine di una urgente rimodulazione, su basi autenticamente antagonistiche, dei consolidati canoni valoriali fraudolentemente percepiti come “alternativi” rispetto a una cultura dominante che è tutto fuorché «conservatrice» e «di destra».
Paolo Borgognone, autore, per la casa editrice Zambon, di vari libri tra cui Capire la Russia. Correnti politiche e dinamiche sociali nella Russia e nell’Ucraina postsovietiche (2015) e L’immagine sinistra della globalizzazione. Critica del radicalismo liberale (2016).