MICHAEL NOVAK, IL CATTOLICO CHE NON HA CAPITO NULLA DEL CAPITALISMO. Di Luigi Copertino.
Quando nel 1994 apparve, in Italia, il suo testo “L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo” Michael Novak fu acclamato come l’antiWeber, come colui che smontava il paradigma weberiano sulla genesi protestante del capitalismo consentendo finalmente alla Chiesa di riappacificarsi con il mondo moderno, con la cultura liberale e con l’economia di mercato.
Nel ricordo che, a seguito della sua recente dipartita da questo mondo, Flavio Felice ne ha tracciato su Avvenire del 17 febbraio scorso viene segnalato, non a caso, che Novak ha inaugurato un rinnovato rapporto tra democrazia liberale, spirito di imprenditorialità e moderna Dottrina Sociale della Chiesa. Non si dice – attenzione! – semplicemente Dottrina Sociale della Chiesa ma si aggiunge l’aggettivo “moderna”, quasi a sottolineare una esegesi della discontinuità nel magistero sociale cattolico.
In effetti Novak, insieme a Richard Neuhaus e George Weigel, ha molto influenzato l’enciclica “Centesimus Annus” (1991) di Giovanni Paolo II che, in molti, all’epoca videro quale svolta favorevole all’economia di mercato in discontinuità con il precedente magistero, anche con quello dello stesso Papa Wojtila se si mette a confronto quel documento con la “Laborem exercens” di qualche anno prima.
In realtà che anche nella Centesimus Annus i caveat del magistero verso una accettazione sic et simpliciter dell’economia di mercato e del capitalismo fossero ripetuti era, ed è, argomento solitamente sottaciuto dai “cattolici per il mercato” dei quali Novak è stato il maître à penser.
Di giovanile formazione catto-progressista, Michael Novak rifluì, ai tempi di Ronald Reagan, quando l’infuocato clima “conciliare” anni ’60 si era ormai raffreddato, nell’alveo del conservatorismo americano incontrando nel suo percorso un ex protestante come Richard John Neuhaus per intraprendere quel tentativo di revisione del paradigma storico di Max Weber al quale accennavamo. Una revisione intesa a far passare l’idea di una radice medioevale per il capitalismo e l’economia di mercato.
Questo nuovo paradigma, anche sulla scorta di storici alla Rodney Stark, ebbe, negli anni successivi, una troppo immeritata risonanza, sostenuto e divulgato da una alluvionale letteratura, finanziata da potenti think tank conservatori, che ha avuto accoglienza in Italia nei settori della destra cattolica conservatrice, segnatamente di quella che si sforza di costruire una, inesistente, linea di continuità storica e teologica tra la Cristianità medioevale e gli Stati Uniti d’America mediante lo snodo del pensiero anglo-conservatore di Edmund Burke e Russell Kirk.
Un’operazione culturale che per riuscire fu costretta a sottacere che l’economia di mercato ha bisogno per affermarsi di uniformità, razionalizzazione, legge impersonale al posto della consuetudine, sistemi monetari e di misura universali, e non diversità di pesi e tradizioni, e che tutto questo fu reso possibile solo dalla comparsa storica dello Stato moderno, sicché tra Stato e mercato storicamente non vi è opposizione, come credono i catto-liberali, ma vi è stretta e necessaria complicità. Non solo alle origini ma anche successivamente nel corso dello sviluppo storico dell’economia capitalista. L’illusione degli ordoliberali di una netta separazione tra Stato, chiamato solo ad “incorniciare” nella Costituzione le regole della libera concorrenza, e mercato non trova affatto riscontro storico nella vicenda concreta dello stesso capitalismo.
Era necessario, dunque, far dimenticare le radici gius-contrattualiste (e non gius-naturaliste nel senso cattolico) dell’inscindibile binomio Stato-Mercato e, quindi, si doveva far dimenticare – magari facendolo passare per un equivoco secolare – il conflitto che, ad iniziare da Lutero, oppose il Cattolicesimo alla modernità in tutte le sue versioni, quella giurisdizionalista e giacobina quanto quella relativista alla Locke, e che ha determinato la insormontabile diffidenza della Chiesa anche verso il capitalismo quale forma moderna dell’economia.
Infatti la Chiesa, nel corso dei secoli moderni, ha finito per tollerare – non per accettare – la realtà storica del capitalismo come un fatto con il quale convivere nel costante sforzo di modificarlo, correggerlo, controllarlo. Se si ripercorre la storia del pensiero sociale cattolico postrivoluzionario, tanto del magistero quanto dei pensatori che hanno contribuito ad elaborarlo, diventa evidente che il capitalismo e l’economia di mercato non sono affatto accreditati in linea di principio ma solo, appunto, tollerati quali fenomeni storici comportati dalla modernità secolarizzante.
Alla distruzione dei corpi intermedi, dell’antico comunitarismo premoderno, decretata dalla legge Le Chapelier del 1791, la Chiesa nel corso del XIX secolo rispose sostenendo il nascente sindacalismo quale nuova forma della naturale organicità sociale fino ad accreditare, con Leone XIII sulla scorta di Toniolo, i “sindacati anche di soli operai” superando in tal modo ogni nostalgia “medioevale” per le corporazioni miste di datori di lavoro e di lavoratori e dimostrando di saper prendere atto delle trasformazioni indotte dall’industrialismo ma anche di non soggiacere ai principi ritenuti “sacri” del manchesterismo.
In questo contesto il principio di sussidiarietà, sul quale insistono oltre ogni giusta misura i catto-liberali, è sempre stato strettamente unito, nella concezione sociale cattolica moderna, al principio di solidarietà. Non solo in senso orizzontale, ossia comunitario, ma anche in senso verticale, ossia politico. E poiché la forma moderna del Politico è lo Stato, il magistero sociale cattolico, pur affermando che esso ha un limite invalicabile, tuttavia consapevole che lo stesso mercato moderno dipende dalla razionalizzazione dei comportamenti sociali imposta dalla legge statuale, ha sempre invocato proprio l’intervento della visibile mano pubblica – un intervento non solo di “cornice” – per porre rimedio ai guasti ed alle ingiustizie della invisibile mano del mercato, che la storia si è sempre incaricata di rendere evidenti.
«… il retto ordine dell’economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza delle forze. Da questo capo anzi, come da fonte avvelenata, sono derivati tutti gli errori della scienza economica individualistica, la quale … ritenne che l’autorità pubblica la dovesse stimare e lasciare assolutamente libera a sé, come quella che nel mercato o libera concorrenza doveva trovare il suo principio direttivo … secondo cui si sarebbe diretta molto più perfettamente che per qualsiasi intelligenza creata» (Pio XI “Quadragesimo Anno”, 1931, n. 89).
L’intervento correttore dello Stato, in alleanza con i sindacati, sul mercato, pur con delimitazione di confini invalicabili, è chiaramente contemplato sin dalla “Rerum Novarum” proprio al fine di porre rimedio all’“usura divoratrice” che, stando a Papa Pecci, ha trionfato nel capitalismo moderno. Un tema, questo, poi costantemente riaffermato in tutti i successivi documenti del magistero sociale cattolico, compresi quelli di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco I. Sicché quel concetto di “giustizia sociale” radicato nella sussidiarietà, contrapposta come contraltare allo Stato, al quale, come ricorda Flavio Felice nel suo “epitaffio” dello studioso americano, occhieggiava Novak si rivela, alla prova dei fatti, nulla più che un romantico flatus vocis, persino fastidioso nella misura in cui pretende una farisaica moralizzazione spontanea del capitalismo che avrebbe in sé la capacità di elevare il “capitale umano” e di combattere la povertà.
Se è vero che l’uomo, proprio perché Imago Creatoris, è un essere votato alla creatività, Novak ha però dimenticato che l’uomo è anche ferito dal peccato originale, sicché, pur non essendo del tutto debilitato come ritenne erroneamente Lutero, egli, nell’attuale suo stato post-adamitico, è sì capace di creare ma anche per finalità distruttive, per volontà di potenza, per avidità di ricchezza spropositata o di sopraffazione. Ed il capitalismo, così tanto romanzato con i richiami moralistici alla “responsabilità, alla laboriosità, alla reciprocità”, non è mai stato né può mai essere, purtroppo, salvo singoli casi di singoli imprenditori di buona volontà, quel che ha voluto credere, e far credere, Michael Novak. Il quale, inoltre, confondeva il concetto cattolico di “persona”, che si da solo nella spiritualità dell’io in relazione con Dio ed il prossimo, con il concetto liberista, essenziale all’economia di mercato intesa quale disincantante agone dell’hobbesiano “homo hominis lupus”, di “individuo” che è, appunto, irrelazione, solipsismo, egocentrismo, autodeificazione.
Se Novak, invece di perdersi dietro alla fumoseria di un “capitalismo morale” mai storicamente esistito, avesse guardato la realtà ad occhi aperti, invece che nascondersi dietro la comoda e calda sua posizione di cattedratico affermato e pertanto esente dalla dura competizione di mercato, avrebbe compreso la tragica lezione storica di questi anni di crisi.
Questa lezione ha riportato all’evidenza verità che trent’anni di egemonia neoliberista sembravano essere riuscite a far dimenticare, perfino negli ambienti accademici, ma che non hanno potuto abolire perché insite nella realtà economica di un’umanità ontologicamente ferita. Ossia che l’offerta non crea la domanda ma, al contrario, è la domanda a creare l’offerta, che il mercato libero, ed oggi globale, lungi da realizzare, nell’immanente spontaneità delle supposte leggi naturali dell’economia, la “giustizia sociale sussidiaria” conduce inevitabilmente alle diseguaglianze più atroci – abbiamo anche di recente appreso che la globalizzazione ha concentrato la ricchezza del mondo in pochissime mani – ed alla precarizzazione del lavoro, alla precarizzazione di quel “capitale umano” che il capitalismo autonomamente responsabile avrebbe dovuto, secondo il pensiero novakiano, elevare a maggior dignità, ed infine che il cuore oscuro del capitalismo è nella finanza apolide, tanto che stiamo assistendo persino ad una divaricazione e ad una lotta tra l’economia reale e la sopraffatrice economia finanziaria.
La finanza, quella che impone profitti rapidi a qualunque costo sociale o umano e disdegna ogni progettualità industriale a lungo termine, è sempre stata, in ogni epoca, il vero motore del capitalismo ed è oggi riuscita a svincolarsi dalle cogenti regolamentazioni statuali, dai confini nazionali e dagli obblighi giuridico-sociali che la costringevano, nel recente passato, ad essere al servizio del vecchio capitalismo reale, fino a diventare, per dirla con termine bensoniano, il Padrone del Mondo.
Essa però non sarebbe mai riuscita a svincolarsi dal reale se a partire dagli anni ’80, con la “rivoluzione” thatcheriana e reaganiana che ha aperto il nuovo vaso di Pandora dei mali che oggi flagellano l’economia mondo, non fosse dilagata la spinta alle liberalizzazioni.
Se Novak avesse dato ascolto all’ammonimento di Pio XI circa «l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro» (“Quadragesimo Anno” n. 109) o a quello di Benedetto XVI circa le «grandi potenze della storia di oggi … capitali anonimi che schiavizzano l’uomo … un potere anonimo al quale servono gli uomini, dal quale sono tormentati gli uomini e perfino trucidati … un potere distruttivo che minaccia il mondo» (Meditazione nel corso della prima congregazione generale dell’Assemblea speciale dei Vescovi per il Medio Oriente, 11 ottobre 2010) avrebbe compreso che il capitalismo non è quello, non è mai stato quello, partorito dalla sua fervida e romantica immaginazione di cattolico americano alquanto protestantizzato. Ed avrebbe evitato, grazie ad un sano disincanto teorico e metodologico, di vedere, prima di morire, andare in fumo l’idilliaca narrazione cui ha dedicato una vita intera e che sembrò in apparenza realizzarsi negli anni ’90 del secolo scorso quando, mentre cadeva il comunismo, Francis Fukuyama poteva illudersi sulla “fine della storia” sancita dalla vittoria del capitalismo, del libero mercato, dell’Occidente americano-centrico.
Mai profezia fu più smentita di quella.
Infine, dato che Novak è stato celebrato in questi giorni come colui che avrebbe sposato capitalismo e Vangelo, ci sia consentita una osservazione più metafisica.
Che il Cristianesimo abbia avuto ed abbia riflessi anche politici e sociali è certamente vero. Tuttavia non bisogna mai cadere nella tentazione del cosiddetto “cristianesimo secondario” che è l’identificazione, riduttiva (ed, in fin dei conti, “ateistica” sicché è stata fatta propria anche dai cosiddetti “atei devoti”, novelli maurrassiani), della Verità di Cristo con una cultura, con una civiltà, con un modello sociale qualunque esso sia. La Rivelazione di Nostro Signore Gesù Cristo è, innanzitutto e principalmente, rivelazione di salvezza nell’Amore di Dio e del prossimo che indica, pur nell’affermazione della bontà ontologica originaria del creato, la meta ultima dell’uomo non nell’al di qua ma nell’al di là, nella Trascendenza la quale alla fine dei tempi trasfigurerà anche l’immanenza nella post-storica coincidenza della Gerusalemme celeste con la città terrena. La fede in Cristo è altra cosa anche rispetto alle sue vere o presunte conseguenze storico-sociali e non si identifica mai del tutto con esse. Il Cristianesimo è altro anche rispetto alle culture cristiane considerate nella loro immanenza storica e sociologica.
Ecco perché sfido chiunque, anche i novakiani di qualsiasi scuola, a dimostrare la conseguenzialità perfetta ed assoluta tra liberalismo, capitalismo, libero mercato e il Vangelo che ci tramanda questo sommo, regio, insegnamento di Nostro Signore Gesù Cristo
«Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo» (Lc. 6,35).
Mai furono pronunziate parole più “anti-capitaliste” di queste se è vero che il capitalismo – ecco la sua essenza finanziaria – nasce esattamente sul fondamento del prestito ad interesse che non a caso – benché i Papi non disdegnassero, per necessità imposta dalla triste condizione dell’umanità ferita, di indebitarsi secondo detta pratica creditizia – Santa Madre Chiesa ha sempre osteggiato, i teologi hanno sempre deprecato ed i francescani del XV secolo, nell’impossibilità post-adamitica di evitarne la pratica, hanno realisticamente cercato di moderare a scopi di carità sociale.
Luigi Copertino