In pochi giorni, Donald Trump ci ha fatto sapere che vuole rammodernare l’arsenale atomico in modo da rendere possibile una guerra atomica “limitata”. Che i suoi generali pensano ad un “impegno a lungo termine” in Irak, ovviamente “contro l’ISIS”, insomma un’occupazione. Che i generali stanno anche pensando a mandare più truppe in Siria, onde ritagliare una zona “sicura”. Adesso Trump ci dice che aumenterà gli stanziamenti per il Pentagono del 9%, ossia di 54 miliardi di dollari; ricavando parte dei fondi da una riduzione delle spese del Dipartimento di Stato.
Ora, è noto che il bilancio del Pentagono, 600 miliardi di dollari, è uguale alla somma delle spese militari dei sette paesi che spendono di più. Nell’ordine: Cina, Arabia Saudita, Russia, Regno Unito, India, Francia, Giappone.
E’ anche noto che proprio l’enorme pompa-miliardi ha reso il Pentagono un buco nero di sprechi e malversazioni e peggio. Nell’agosto scorso, un rapporto dell’Ispettorato generale (la contabilità) dello stesso Pentagono ha lamentato la sistematica mancanza di documentazione delle spese, fino all’astronomica cifra, in vent’anni, di 6,5 mila miliardi che sono scomparsi. “Per due decenni, l’esercito degli Stati Uniti non è stato in grado di presentare un audit (revisione dei conti), violando la legge federale, mascherando gli sprechi e le frodi per miliardi di dollari”. Uno scandalo immane, e subito azzittito.
Il Pentagono ha “smarrito” in Irak e Afghanistan 700 mila armi di vario tipo, la metà del milione e mezzo di armamenti spediti nelle due zone d’occupazione dall’11 Settembre; armi che poi sono riapparse nelle mani di terroristi islamici così regolarmente, al punto da giustificare il sospetto che la Difesa americana abbia armato Al Qaeda, ISIS, talebani e gli altri gruppi che dice di combattere.
http://thefreethoughtproject.com/pentagon-iraq-afghanistan-guns/
Se c’è una cosa di cui il Pentagono ha evidentemente bisogno non è un aumento, ma di un taglio decisivo degli stanziamenti: nello stesso interesse dell’efficienza militare, perché è un grasso stipendificio di gallonati e burocrati arraffoni, un covo di tangentari in combutta con le grandi industrie militari e le ditte di forniture che fanno la cresta e poi fanno a metà cui generali e i burocrati. E’ l’equivalente statunitense delle caste scandalose di Mafia Capitale e della Regione Sicilia, moltiplicate per cento.
Trump da retta all’ultimo con cui parla?
Il generale Flynn, quando ancora consigliava Trump, sembrava esser cosciente di questo scandalo e intenzionato a metterci mano. Ora che non c’è, Trump sta chiaramente ascoltando il generale Mad Dog Mattis che ha messo a capo del Pentagono, e il generale H.R. McMaster, che rimpiazza Flynn come consigliere di sicurezza nazionale, ed è questa la cosa che fa più paura: di come il neo-presidente si lascia convincere dall’ultimo con cui parla.
Il generale Mattis è il distruttore di Falluja nel 2004, la città dei seguaci di Saddam che il generale ha saturato con fosforo bianco e uranio impoverito, al punto che non hanno solo ammazzato cinquemila civili almeno (Mattis li ha sepolti in fosse comuni coi bulldozer), ma sta ancora causando una tale percentuale di nascite mostruose, da indurre i medici a parlare di genocidio.
Il generale McMaster è quello che si è convinto che gli Usa hanno perso la loro superiorità rispetto alla Russia, e dunque gli Usa devono riarmare e rammodernare a ritmo accelerato, onde superare Mosca nella prossima guerra. McMaster ha scritto a suo tempo un saggio, Dereliction of Duty (Abbandono del Dovere) in cui accusava generali e politici di aver perso la guerra in Vietnam perché non avevano mandato abbastanza soldati in quella guerra: la sua cifra era di 700 mila soldati americani (allora esisteva il servizio di leva,e sono morti in Vietnam 55 mila cittadini USA), e ciò dice la mentalità del personaggio. Si ricorderà che McMaster è la seconda scelta di Trump: mandato via Flynn, aveva chiesto di diventare suo consigliere prima al vice-ammiraglio Robert Harvard, che aveva gentilmente rifiutato (“l’hamburger di merda”, disse agli intimi) l’offerta di Donald, e McMaster gli è stato suggerito dal senatore Tom Cotton, uno dei più esagerati neocon guerrafondai fra i repubblicani, e fanatico filo-israeliano.
(Si leggano qui le imprese del senatore: http://www.alternet.org/news-amp-politics/10-horrifying-facts-about-gop-senator-tom-cotton )
– e questo dice qualcosa su Donald stesso: si affida e si fa suggestionare da uno che nemmeno aveva scelto? Il senso in cui McMaster influirà sulla politica estera di Trump lo ha esplicitato in un discorso tenuto nel 2016 dove ha enunciato quella che chiama la sua “visione strategica”: la lotta contro le “Potenze revisioniste ostili” – che sono Russia, Cina, Iran e Nord Corea – le quali “annettono territorio, intimidiscono i nostri alleati, sviluppano armi nucleari, ed usano combattenti per procura sotto la copertura di forze armate convenzionali modernizzate”. Sic.
The United States of Permanent War
Gli Usa dunque tornano nel solco della strategia solita: risolvere ogni divergenza con la guerra. E’una dipendenza, come la tossicodipendenza del drogato, da cui la politica americana non riesce a disintossicarsi, e in cui conosce continue ricadute. “The United States of Permanent War”.
All’inizio quella della guerra permanente fu una deliberata volontà politica: con il pretesto del mega-attentato false flag dell’11 settembre 2001, i quando i neocon presero di fatto il potere dietro il neo-presidente George W. Bush. A questo alcolista “dislessico” (ossia semi-analfabeta), essi fecero pronunciare un discorso che lo annunciava: “La nostra risposta [a Al Qaeda, allora indicata come la colpevole dell’attentato] sarà molto più che rappresaglia immediata e colpi isolati –Gli americani non devono aspettarsi una battaglia, ma una lunga campagna, diversamente da ogni altra che abbiamo visto”. Divenne ufficiale l’espressione “lunga guerra al terrorismo globale”. L’anno seguente Richard Haass, ovviamente un j che sarà poi presidente del Council on Foreign Relations, che Bush jr. aveva nominato direttore del Policy Planning, confermò, contro i critici che stavano crescendo della strategia, e chiedevano come uscirne: “Non può esserci exit strategy nella guerra contro il terrorismo. E’ una guerra che persisterà. E’improbabile che ci sia una battaglia decisiva in questa guerra. Una exit strategy, dunque, non ci sarà di alcun giovamento. Abbiamo bisogno di una endurance strategy”, una strategia di durata, di guerra senza fine.
Otto anni di guerre di Bush jr. : Irak, Afghanistan, Somalia, operazioni in Pakistan. Quando gli americani elessero Obama, il progressista, il negro e pacifista, lo fecero contando che avrebbe messo fine ai conflitti; l’Europa lo ha accompagnato con gli stessi auspici, tanto da dargli in anticipo il Nobel per la Pace.
Otto anni di Obama. Nel dicembre 2016, alla fine del suo mandato, avanti ai soldati schierati nella base aerea MacDill in Florida, con il suo tono cool, Obama ha constatato: “Quando ho assunto la carica, gli Stati Uniti erano in guerra da sette anni. Io sarò il primo presidente Usa a coprire due mandati pieni in tempo di guerra”. Non era una denuncia, ma una piana constatazione. Segnalò che il Congresso non aveva autorizzato lui personalmente a perpetuare le guerre di Bush. “Ad oggi, stiamo facendo guerre sotto autorizzazioni fornite dal Congresso 15 anni fa – 15 anni”. Disse che desiderava che il Congresso emanasse qualche tipo di legge da cui apparisse che il Congresso stesso non desse l’impressione che permetteva agli Usa di restare in guerra per sempre. “Le democrazie non dovrebbero operare in stato di guerre autorizzate in modo permanente”. Molto cool. Obama ha donato agli americani e al mondo, oltre la continuazione delle guerre di Bush – Afghanistan, Irak, Pakistan Somalia – tre ferocissime guerre nuove: Libia, Yemen e Siria, senza contare le primavere colorate che ha innescato in Egitto e in Ucraina, con golpe annesso. Non più solo per Israele, ma anche per la monarchia saudita.
Nel 2009 ordinò il “surge”, l’impennata in Afghanistan: invio di 40 mila truppe in più. Non lo fece volentieri. Ma il segretario della Difesa, allora Robert Gates, disse: “Non lasceremo l’Afghanistan prematuramente. Di fatto, non lo lasciamo per niente”. E’ abbastanza noto come DAesh sia nato, cresciuto ed armato sotto i suoi occulti uffici, per occupare certe zone dell’Irak e della Siria. Lui aveva annunciato la sua intenzione: “combattere lo Stato Islamico, contenerlo, degradarlo e alla fine sconfiggerlo”. Solo alla fine, dopo molti anni. Ancora nell’ottobre scorso James Clapper, che lui ha nominato direttore della National Intelligence (il noto organo-ombrello con cui le 17 agenzie di intelligence parlano ad una voce al presidente) annunciava: Anche se lo Stato Islamico sarà sconfitto [dai russi, ma questo non l’ha detto] probabilmente non scomparirà, ma riprenderà un’altra forma , o si affermeranno altri gruppi estremisti – e io sono convinto che dovremo continuare a lavorare a sopprimere questi movimenti estremisti ancora per molto tempo”. Ancora a dicembre, l’ultimo segretario alla Difesa scelto da Obama, Ashton Carter, confermava la fedeltà al concetto di guerra senza fine, asserendo che le forze della coalizione (messa insieme dagli USA) “devono restare impegnate militarmente anche dopo l’inevitabile espulsione dell’ISIS da Mossul e Rakka”.
La speranza in Trump sembra svanita come un sogno del mattino. La ricaduta era in fondo inevitabile, in un tossicomane collettivo che usa questa droga da 16 anni: troppi interessi uniscono la più grossa e grassa burocrazia militare della storia umana con il complesso militare-industriale corrotto, le lobby neocon, e i senatori e deputati che ne dipendono per finanziare le loro elezioni. In quei 6,5 miliardi di dollari di cui non s’è trovata traccia contabile c’è, si può intuire, un oceano di mazzette, tangenti, sovraccosti, “nero” e corruzione per tutti.
Il nuovo segretario alla Difesa James Mattis ha enunciato nella sua audizione di conferma ai senatori: “In questo mondo, le nostre forze armate devono restare le meglio comandate, le meglio equipaggiate, le più letali del mondo”. Più sorprendente il segretario di Stato Rex Tillerson, venuto della Exxon, considerato “amico di Putin”. Durante l’audizione di conferma, ha criticato Obama perché, dopo che Mosca “s’è impadronita della Crimea nel 2014, non ha aiutato i militari di Kiev a combattere la Russia. “Secondo me, ci doveva essere una esibizione di forza, una risposta militare”. Ha promesso che con l’Amministrazione Trump “dovremo mandare alla Cina un chiaro segnale” a proposito degli isolotti che sta attrezzando nel Mar Cinese Meridionale: “Primo, che dovete interrompere le costruzioni sulle isole, secondo, che il vostro accesso a queste isole non vi sarà permesso”.
Erdogan, nuovo voltafaccia
Gli effetti già si vedono a danno dello straziato popolo siriano. L’armistizio a cui Mosca aveva convinto i partecipanti in Kazakstan a dicembre, con un Erdogan ancora offeso con Obama per il (presunto) golpe ai suoi danni, è già in macerie. “Appena insediata l’amministrazione Trump, le posizioni di Trump sono cambiate ancora: e adesso scommette su un forte intervento USA in Siria che darebbe nuova vita al suo piano originale di installare in Siria un governo islamista sotto controllo Turco. Nascondendosi dietro l’Arabia Saudita, e imitando l’ostilità Usa verso l’Iran, egli si è di nuovo dichiarato contro il presidente siriano Assad”.
Il viaggio semi-segreto, verso il 20 febbraio, di John McCain presso i “ribelli” in Siria del Nord dell’armata libera siriana anti-Assad c’entra molto in questa nuova giravolta di Erdogan. McCain è entrato in Siria dalla Turchia ed ha twittato di aver avuto un “incontro costruttivo” con il dittatore turco; è il caso di ricordare che McCain presiede da sempre la Commissione Forze Armate al Senato, dunque è uno dei favoriti degli stanziamenti palesi ed occulti del Complesso Militare-Industriale, ed ha un potere suo proprio sul Pentagono.
Anche la discutibile relazione e complicità con l’Arabia Saudita nell’attuale conflitto anti-sciita non sarà rotta tanto presto: il regno spende 85 miliardi l’anno in armamenti – più della Russia- le sue spese militari sono cresciute dal 2012 al 2016 del 212%, e sono ovviamente armi americane; impossibile che la Casa Bianca scontenti un così buon cliente dell’industria bellica americana. Obama ha approvato uno stanziamento ad Israele di 38 miliardi per aiuti militari nel suo ultimo anno di presidenza; sauditi e Sion hanno in comune il nemico che vogliono assolutamente distruggere, l’Iran; non c’è dubbio che dirigeranno la politica americana nell’area secondo i loro desideri. Trump, Mattis e McMaster condividono già una disposizione ostile e minacciosa verso Teheran.
Quindi, ai sedici anni di guerra di Bush e Obama, il mondo vedrà aggiungersi altri 8 anni di guerra infinita di Trump? The United States of Permanent War è una realtà ormai inamovibile? Tutto sembra dirigere verso un nuovo gelo contro Mosca, aggravato dall’ostilità degli europei a favore di Kiev e dalle provocazioni NATO. Per significare il livello di paranoia in Usa, Paul Krugman – il Nobel dell’Economia – ha scritto qualche giorno fa sul New York Times: “Nulla di ciò che ha fatto Trump dal giorno del suo insediamento ha attenuato il timore che egli è di fatto un burattino nelle mani di Putin”. Anche di queste demenze si alimentano gli United States of Permanent War: Donald può essere spinto a mostrare che non è in mano a Putin con qualche atto suggerito dai suoi Stranamore; Putin e il governo russo possono essere schiacciati con le spalle al muro fino a ritenere di non avere altra via che usare la (molto relativa) superiorità militare, che sanno passeggera visto il massiccio riarmo americano; specie in Siria, il voltafaccia di Erdogan avvicina questo rischio. Un’oligarchia europea arrogante ma indebolita può fare una provocazione di troppo nel Donbass; la polarizzazione violenta che travaglierà la Francia dopo le elezioni presidenziali, e lo sgretolamento in corso della Unione Europea, possono invitare a destabilizzazioni ulteriori. .