IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE ED IL SIGNIFICATO DELLA CADUTA DELL’ANGELO quarta ed ultima parte – di Luigi Copertino

IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE ED IL SIGNIFICATO DELLA CADUTA DELL’ANGELO

L’origine del male nella prospettiva escatologica della Rivelazione abramica

quarta ed ultima parte

 

L’interpretazione gnostica dei simboli: Albero e Croce

Fin qui abbiamo trattato di Metafisica nella prospettiva della Gnosi rivelata. Esiste tuttavia, come più volte sottolineato, anche un’altra gnosi, falsa, di matrice luciferina la quale insinua una ben diversa interpretazione della Verità metafisica che, rovesciandone il significato, porta alla glorificazione del simbolo del serpente ouroborico – il quale è il simbolo stesso della contraffazione dottrinaria –, alla denigrazione della creazione come caduta ontologica – con la negazione della sua bontà originaria – ed infine ad una lettura della Croce quale simbolo del dualismo nel quale si frantumerebbe l’Uno generando dalla sua stessa sostanza il Bene ed il Male, ovvero gli stati superiori dell’essere e, per un movimento a spirale (ecco, di nuovo l’ourobouros), quelli infernali. Che è come dire, secondo quanto da secoli afferma la gnosi spuria, che in Dio si troverebbe la fonte del Bene e del Male intesi, manicheisticamente, quali entità polari entrambe emanate dall’Uno.

La matrice platonica, in Occidente, e vedantica, in Oriente, di tale forma di gnosi extrabramica è palese. Tra gli esportatori, anche in ambito cristiano, di tale gnosi bisogna annoverare l’esoterista francese René Guénon. Autore certamente complesso che è passato dalla giovanile teosofia – è stato “vescovo della chiesa gnostica” francese – nella convinzione che la massoneria rappresentasse una via tradizionale, alla metafisica induista, prima, ed alla mistica sufica, poi.

Ogni autore deve essere preso ed esaminato per coglierne le prospettive, potenziali o attuali, di avvicinamento alla Rivelazione abramica – che è l’autentica Gnosi – e per evidenziarne quanto invece si allontana, irrimediabilmente, da Essa.

Jean Daniélou, il cardinale grande esegeta connazionale del pensatore francese, rimproverò a René  Guénon di non aver considerato la vicenda di Cristo come la vera irruzione del Santo/Sacro tale da cambiare il corso della storia. Daniélou rifiutò le soluzioni guenoniane in ordine al problema della salvezza, ossia l’auto-iniziazione, con il suo elitarismo, la considerazione della Libera Muratoria come valida via spirituale e lo stravolgimento “esoterico” del sufismo. Per Daniélou soltanto i sacramenti cristiani, ad iniziare dall’Eucarestia, possiedono quella autentica e vera efficacia “iniziatica”, nel senso di salvifica, che Guénon cercava nella teosofia e nel vedanta, perché, a differenza appunto della falsa gnosi, la Rivelazione abramica, in modo compiuto nel suo adempimento in Cristo, nega la possibilità stessa della realizzazione metafisica intesa assurdamente come superamento della distinzione “Creatore-creatura” mentre l’afferma se intesa come partecipazione ontologica, la quale, poi, sul piano mistico è sì unione ma, per usare gli stessi termini dell’esperienza mistica, nel senso del “fidanzamento” o, in un grado più alto, del “matrimonio” spirituale, ossia nel senso del rapporto agapico ed analogico tra Creatore e creatura.

Orbene, Guénon è tra coloro che introducono a proposito dei simboli tradizionali una esegesi che vuole accreditare l’idea del “doppio contrario” generato dalla caduta dell’Uno nella dualità spazio-temporale. Nel suo testo “Il simbolismo della croce”, infatti, egli aderisce a quell’esegesi gnostica secondo la quale la parte inferiore della Croce indica gli stati inferiori dell’essere e quella superiore simboleggia, appunto, quelli superiori, derivanti, gli uni e gli altri, dal movimento a spirale, involutivo-evolutivo, imposto dalla “caduta” dell’uno nel dualismo della manifestazione/emanazione.

Se si interpreta la Rivelazione mediante Guénon e con gli strumenti della metafisica gnostica si è costretti a far dire ai testi biblici quanto essi – nella Luce della Tradizione e dell’insegnamento di Cristo, fondamento della Chiesa apostolica e garantito e confermato dallo Spirito – non dicono. Questo è quanto capita a coloro che guardano a Guénon come ad un maestro di Metafisica senza porsi il problema di quale Metafisica tratta il pensatore francese e, soprattutto, dimenticando o dando l’impressione di mettere in secondo piano l’eccezione abramica nello scenario spirituale dell’umanità.

Partendo dalla convinzione guenoniana che esista una unica verità esoterica dietro tutte le forme essoteriche di religione, è inevitabile giungere ad affermare quanto la fede cristiana, da sempre, rigetta ossia la coesistenza e la compresenza in Dio della polarità del Bene e del Male quale scissione dualistica dell’Uno. In palese contrasto, quindi, con la Rivelazione abramica – ebraica, cristiana ed islamica – per la quale, invece, il male non ha autonoma esistenza ma è solo assenza di bene, deficit ontologico di Essere.

Coloro che vogliono utilizzare Guénon in ambito abramico credono di poter superare l’aporia, nella quale inevitabilmente incorrono, con l’assunto che il linguaggio teologico è limitante rispetto a quello metafisico. Tuttavia essi dimenticano non solo che la Metafisica è alla base della teologia, e che quindi bisogna piuttosto valutare di quale Metafisica si sta parlando, ma anche, purtroppo, che sin dagli albori – si pensi allo scontro tra Pietro e Simon Mago – la Rivelazione cristiana si è confrontata, contemporaneamente scontrandosi ed incontrandosi, con le tendenze ellenistiche e platoniche, le quali erano in Occidente la forma diffusa della gnosi non abramica. Tanto è vero che i Padri della Chiesa hanno dovuto lottare e faticare per separare, in quella cultura diffusa, il grano dal loglio e riportare gli elementi di Verità in essa confusi – sì, perché il peccato primordiale ha tra l’altro causato la dispersione della Rivelazione, data ad Adamo nella sua integrità, in mille rivoli che miscelavano vera e falsa gnosi – alla loro purezza originaria per reintegrarli nella Pienezza della Verità del Verbo Incarnato.

Sulla scia di Guénon la narrazione di Genesi 3,3 finisce per offrire un significato del simbolismo dei due alberi – o aspetti dell’unico albero – dell’Eden, l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male, assolutamente equivoco. L’esegesi “guenoniana”, dati i suoi presupposti gnostici, porta, inevitabilmente, ad interpretare l’albero della vita quale simbolo dell’Immortalità intesa come “identificazione” con l’Unità, ossia risveglio della consapevolezza perduta della proprio connaturalità con il Divino e quindi dissoluzione del singolo nell’Uno/Tutto, e l’albero della conoscenza quale simbolo della scissione ontologica nel dualismo che “frattura” l’Unità originaria e l’identificazione con essa. In tal modo la vicenda della “caduta” dell’umanità primordiale – qui intesa gnosticamente come caduta ontologica da una dimensione incorporea ad una dimensione corporea – ruota intorno all’Albero della Conoscenza del Bene e del Male, posto in mezzo al Giardino dell’Eden in stretta connessione con l’Albero della Vita, a significare che, mentre quest’ultimo dà l’Immortalità, il primo è oggetto della proibizione di non mangiarne, “pena la morte”, perché sarebbe il simbolo della conoscenza dualistica, quindi della caduta nella dimensione spazio-temporale dell’universo materiale, fisico, che causa l’involuzione dell’uomo adamico, originariamente incorporeo o dotato di un solo “corpo sottile”, lungo la china della decadenza cosmica simboleggiata dal serpente ouroborico ovvero dalle sue spire.

Non a caso, il fatto che un albero dona immortalità mentre l’altro provoca morte, benché sembrano essere un solo albero posto nello luogo centrale del Giardino, viene spiegato, nell’interpretazione influenzata dall’esegesi gnostica di matrice guenoniana, mediante il simbolismo della Croce come assunto nella citata opera dell’esoterista transalpino. In questa prospettiva l’Albero della Vita – che nelle raffigurazioni sapienziali tradizionali medioevali, è, invece, la Croce nella sua integralità – è identificato con la metà superiore dell’asse verticale, la quale diventa simbolo dell’accesso agli stati superiori dell’essere per i quali si ottiene l’Immortalità, mentre, giocando sul suo nome, l’albero della Conoscenza del Bene e del Male diventa simbolo della caduta ontologica nella dualità che causa la perdita dell’Unità originaria. In tal modo il peccato, la caduta e quindi la morte sono spiegati come la scelta dell’Adamo incorporeo, sottile e androgino, per la dualità contro l’Unità. La Croce, in altri termini, viene dualisticamente scissa per farle racchiudere sia il Bene che il Male perché, secondo l’esegesi gnostica, queste polarità sarebbero “interne” all’Uno, connaturate all’Essenza di Dio, quasi fossero i suoi due volti o le sue due mani, la “mano destra” e la “mano sinistra”.

Secondo un linguaggio platonizzante la scelta tra Unità e Dualità significa scelta in favore dell’identificazione con Dio, nella riscoperta di essere “dio”, di essere un frammento sperduto dell’Uno che torna alla consapevolezza di essere l’Uno –  “ta tvam asi” (tu sei quello) – per così raggiungere o recuperare una conoscenza “olista” del Reale come di un Tutto senza distinzioni, ovvero scelta in favore della separazione dall’Uno e dell’identificazione con il divenire e la molteplicità illusoria del creato (torna, di nuovo, l’istanza svalutativa dell’Opera di Dio, del Suo Dono d’Amore).

Se si aderisce all’esegesi proposta dall’antica gnosi seduttrice, e riproposta dal Guénon, non è affatto possibile affermare che la realtà è una teofania nella quale Dio, rivelandosi, si manifesta e tale che ogni cosa è in Lui. A meno di sottendere non la partecipazione ontologica ma l’identificazione panteistica tra la creazione e Dio. Né, nella prospettiva veicolata da Guénon, è possibile affermare che nella realtà intesa come teofania della Divinità, l’uomo che consegue la salvezza mediante la grazia, vive il mondo senza più le contraddizioni dello “spazio-tempo” perché tutto è percepito immediatamente in Dio, nell’Uno.

Non è possibile affermare quanto appena detto innanzitutto perché in Guénon, che esattamente per questo rifiutava l’eccezione abramica accettando solo il sufismo quale corrente esoterica e non meramente mistica dell’Islam, parlare di “grazia” è una forzatura teologica dato che non esisterebbe affatto un Dio che si piega kenoticamente sulla creatura donandole, appunto per grazia, ossia gratuitamente, la salvezza, ma esisterebbe solo la prometeica “conquista iniziatica” del risveglio dell’auto-consapevolezza della propria auto-deità. I cattolici guenoniani che parlano di “grazia” alterano il pensiero di Guénon onde avvicinare, nel tentativo di conciliarle, la metafisica gnostica spuria alla Rivelazione ossia alla Gnosi Pura.

In secondo luogo non è possibile perché la gnosi spuria, veicolata dal pensatore francese, si oppone irrimediabilmente alla Rivelazione laddove essa gnosi, se da un lato seduce nell’auto-deificazione, dall’altro svaluta l’uomo. Infatti, per il paradigma gnostico, fatto proprio da Guénon, l’illusione della separatezza porta alla impossibilità della percezione della realtà nell’Uno, nel Dio che genera ed assorbe tutte le dualità, e, per conseguenza, all’allontanamento dalla Divinità a causa dell’identificazione col proprio “io”, con la propria creaturalità spirituale-psichico-corporea. Qui, è evidente, viene riaffermata la svalutazione della creazione e, nella fattispecie, dell’uomo. Sicché diventa cattolicamente illegittima una lettura “guenoniana” che pretende di accreditare tale svalutazione sottendendo che nella coscienza dell’“io” – dell’io a immagine di Dio e quindi, secondo la Rivelazione, ontologicamente non autonomo ma dipendente da Lui – consisterebbe la biblica pretesa di “autosufficienza”, che è il peccato secondo la Rivelazione.

Ogni lettura “cattolica” dal vedantismo dell’esoterista francese si svela un mero tentativo di accomodare Guénon alla fede cattolica senza effettivamente superare il guenonismo di partenza e le sue aporie. In Guènon, e nelle varie forme di gnosi spuria, la svalutazione della persona umana, come frutto di illusione fenomenica (solo lo spirito sarebbe destinato agli stati superiori dell’essere nel riassorbimento nell’indistinzione dell’Uno, non anche l’anima e il corpo invece destinati alla dissoluzione), cozza frontalmente con la Rivelazione. La quale, invece, attesta il grande valore della creazione ed in essa dell’uomo, immagine di Dio in tutta la sua triplice dimensione ossia spirito, anima e corpo

«Mi fu rivolta la parola del Signore: “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo,
prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato
» (Geremia 1,4-5)

«Anch’ io sono un uomo mortale come tutti e discendente del primo essere, plasmato di terra. Nel seno di una madre di carne fui scolpito, solidificato in dieci mesi nel sangue dal seme maschile e dal piacere, compagno del sonno» (Sapienza 7, 1-2)

«Sei tu che hai creato le mie viscere/ e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;/sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in fondo./Non ti erano nascoste le mie ossa  quando venivo formato nel segreto,/intessuto nelle profondità della terra.  Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi/e tutto era scritto nel tuo libro;  i miei giorni erano fissati,/quando ancora non ne esisteva uno»  (Salmo 139,13-16)

«Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto / integro in ogni parte; vorresti ora distruggermi? / Ricordati che come argilla mi hai plasmato / e in polvere mi farai tornare. / Non m’hai colato forse come latte / e fatto accagliare come cacio? / Di pelle e di carne mi hai rivestito, / d’ossa e di nervi mi hai intessuto» (Gb 10.8-11)

«Sei tu che mi hai estratto dal grembo materno, / mi hai protetto fin dal seno di mia madre; / a te mi sono appoggiato fin dalle viscere materne, / dal grembo di mia madre tu sei il mio Dio» (Sal 22.10-11)

«Così dice JHWH che ti ha fatto, / che ti ha formato dal grembo materno e ti aiuta» (Is 44.2.24)

«Ascoltatemi… voi portati da me fin dal grembo materno, / sorretti fin dalla nascita» (Is 46,3)

«Il Signore dal grembo materno mi ha chiamato / fin dalle viscere di mia madre ha pronunziato il mio nome» (/s 49, 1)

«Non so come siete apparsi nel mio seno; io non vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore del mondo, che ha plasmato all’origine l’uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia, vi restituirà lo spirito e la vita» (2Mac 7.22-23)

Si vedano anche Sal 119,73; Qo 11,5: Ger 18.6: Is 29, 16; 45,9; Rm 9,20-21.

Nel paradigma guenoniano la Croce/Albero (della Vita) è sì l’Asse del Mondo ma non nel senso cristiano. Nell’esegesi cristiana del simbolo il significato è quello ben espresso dal benedettino Stat Crux dum volvitur orbis , “la Croce resta fissa mentre il mondo ruota”. In Guénon, invece, sulla scorta del “mono-dualismo” gnostico, esso simboleggia la parte luminosa contrapposta a quella oscura della Manifestazione, entrambe, la parte luminosa e quella oscura, emanazioni ontologicamente paritarie della scissione dell’Uno originario, secondo la ricorrente dottrina gnostica del “doppio contrario”.

Non a caso il “Guerre stellari” di Georges Lucaks, per sua stessa ammissione, è fortemente ispirato alla gnosi di René Guénon. Nella nota saga cinematografica, infatti, la Sostanza Cosmica Unitaria, la “Forza”, è scissa in una parte oscura ed in una parte luminosa perennemente in guerra tra loro ma anche dialetticamente complementari ed inseparabili. In fondo il manicheismo era una forma di gnosticismo come ben comprese Aurelio Agostino all’atto della sua conversione a Cristo.

Nel paradigma gnostico, gli stati inferiori dell’essere corrispondono simbolicamente alla metà inferiore dell’asse verticale della Croce/Albero ed esprimono l’inarrestabile movimento cosmico di caduta, verso il basso, attraverso le spire del serpente ouroborico, quello della narrazione biblica del Genesi, che quindi, secondo tale esegesi, diventa il simbolo stesso della manifestazione ossia, in termini biblici, della creazione. Come non vedere in questa esegesi il riproporsi dell’antico desiderato luciferino che esalta quale “vero creatore” il Seduttore di Adamo e dell’Avversario di Dio? Alla luce dell’esegesi gnostica del simbolismo della Croce, esaurite le sue possibilità terrene, l’essere, con la morte fisica, è destinato anche ad esaurire le possibilità “sottili” nel cosiddetto mondo intermedio e, dopo un periodo di durata imprecisata, a sprofondare negli stati inferiori della manifestazione, ossia negli inferni, intesi come polarità opposta a quelli superiori, ossia i Cieli, originatisi, gli uni e gli altri, dalla scissione dell’Uno primordiale.

Se si rifiuta la Rivelazione dell’essere come partecipazione, non resta che l’idea gnostica dell’essere come caduta sicché le esperienze del post-mortem sono spiegate come una conseguenza, una continuazione, del movimento spiralico – ofidicamente simboleggiato – del cosmo che progressivamente decade trascinando verso il basso anche l’essere umano, il quale nella sua essenza avrebbe iniziato a decadere sin dall’assunzione del corpo materiale laddove in origine l’umanità era immateriale. Infatti, per la gnosi, essendo il cosmo non creazione ma decadente manifestazione-emanazione, all’identificazione con la dualità e con il divenire, consegue l’identificarsi dell’essere con le sole possibilità inferiori, sicché l’Uomo Vero, ossia il presunto Adamo Incorporeo ed Asessuato precedente la caduta, decade nell’uomo terreno ossia in un frammento materializzato dell’Adamo Originario. Pertanto, in un evidente eccesso di pessimismo cosmico, la “dannazione” è il destino “proprio” alla condizione dell’uomo decaduto. Ora, dal momento che quello che la gnosi chiama “uomo decaduto”, non in quanto chiuso all’Amore di Dio ma in quanto caduto dall’incorporeità nella corporeità, è nient’altro che l’uomo come creato da Dio, in spirito, anima e corpo, è evidente che per la gnosi spuria l’esistenza stessa dell’uomo è “dannazione” dalla quale bisogna rifuggire negando la bontà della creazione.

E’, dunque, possibile sfuggire al destino della dannazione? Per la gnosi, cui si ricollega Guènon, l’unica possibilità di evitare tale destino è quella di una via iniziatica, per sua essenza riservata a pochi qualificati, mediante la quale si realizzi l’identificazione con l’Uno, tornando progressivamente verso lo stato originario di indistinzione ontologica precedente alla manifestazione/emanazione cosmica. Questo stato originario deve essere “realizzato” dall’uomo, riscoprendo, iniziaticamente, la sua connaturalità divina, la sua consapevolezza, oscurata dalla “maya”, l’illusione conseguente alla caduta cosmica, di “essere già Dio”. In Guénon, dunque, riecheggia l’antica distinzione gnostica dell’umanità tra “spirituali”, destinati alla salvezza, “psichici”, di incerto destino, ed “ilici”, condannati irrimediabilmente alla perdizione. Nella prospettiva gnostica, sposata da Guénon, non c’è alcuna possibilità di Grazia, non è contemplata affatto la Kenosi di Dio, il suo piegarsi, la sua Incarnazione, per la salvezza della sua creatura. Questo perché la gnosi, veicolata dal guenonismo, altro non è che la primordiale ribellione del “non serviam” a fronte della prospettiva di un Dio che si fa carne, si fa uomo, in quanto l’essere è buono, non oscurità, caduta cosmica e perdizione nel vortice discendente della spirale avvolgente ofidica.

Orbene, chi in ambito cristiano sposa la prospettiva spirituale gnostica, adattandola alla Rivelazione, nel tentativo di superare la gabbia del razionalismo teologico e modernista oggi prevalente, è tuttavia, volente o non volente, costretto ad entrare in conflitto con la sua stessa fonte ispiratrice perché, contrariamente alla gnosi, deve ammettere che è possibile sfuggire al destino di “perdizione”, causato dalla caduta cosmica, invertendo il movimento da decadente in ascendente, mediante un intervento della Grazia, la quale, appunto, ha la capacità di arrestare l’inesorabile movimento discendente e di donare all’uomo la possibilità della “risalita”.

Ma in una prospettiva gnostica, come ad esempio quella veicolata da Guénon, non è presente alcuna possibilità, abramica e cristiana, di Grazia. Anzi, per l’esoterista francese si tratta di mera ed illusoria terminologia teologica intesa ad una via “mistica”. Nel suo schema quella mistica è una via passiva, inferiore, non risolutiva. L’unica via risolutiva è quella “iniziatica” perché realizzatrice del “risveglio”. Dunque “attiva” e non passivamente donativa dall’Alto. Guénon non conosce il dono, la Grazia, perché non crede in un Dio Vivente che è Amore creatore e salvatore.

Come si possa usare cattolicamente Guénon è una contraddizione in termini che gli stessi cattolici guenoniani, ben consapevoli nel fondo del loro cuore del problema, non sono in grado di risolvere.

L’interpretazione gnostica dei simboli: il Serpente

Nella narrazione biblica la figura del “serpente” è quella di un Tentatore. L’approfondimento esegetico, nella Luce Mistica della Rivelazione, svela la natura della “tentazione” ossia la proposta all’uomo, che accetta, di una falsa gnosi consistente nella auto-divinizzazione del sé nel contesto di un panteismo che radicalizzando, senza alcuna catafaticità, l’apofaticità del divino, inteso in modo impersonale, nega l’essere, relativamente autonomo, delle cose, tutto assorbendo nel “nulla primordiale”, e allo stesso tempo divinizza il mondo.

L’identificazione del “serpente ouroborico”, del serpente che si morde la coda, simbolo della ciclicità del divenire spazio-temporale e quindi della cognizione (= gnosi) apofatico-panteista del cosmo, con la tentazione luciferina è antica. Essa ricorre nel Genesi come pure nell’Apocalisse di Giovanni, nella quale, infatti, riecheggia l’eco dell’esito negativo della prova per gli angeli ribelli «Il gran dragone, il serpente antico, che è chiamato diavolo e Satana, il seduttore di tutto il mondo, fu gettato giù; fu gettato sulla terra, e con lui furono gettati anche i suoi angeli» (Apocalisse, 12, 9).

Nella Rivelazione biblica, Lucifero, in quanto angelo decaduto, è “diabolos”, forza diabolica ossia forza che “divide” l’uomo da Dio, la creatura dal Creatore, opponendo la prima, chiusa nella sua pretesa orgogliosa di autosufficienza, al secondo, all’Amore gratuito.

Diversa l’esegesi gnostica, per comprendere la quale è necessario tener presente che Lucifero si ribella perché non accetta la bontà ontologica della creazione spazio-temporale e l’Incarnazione in essa del Verbo di Dio. A fronte di un Dio che vuol incarnarsi, Lucifero proclama la sua “sovranità” accusando il Creatore di voler gettare le creature dalla quiete dell’indistinzione primordiale nella sofferenza dell’esistenza particolare. Lucifero, pertanto, si  presenta come colui che salverà le creature consentendo loro di risalire iniziaticamente allo stato primigenio del tutto-nulla senza distinzioni.

Nella gnosi spuria, quindi, il “diabolos” diventa colui che spezza l’Unità indistinta primordiale per gettare gli enti nel vortice della manifestazione sempre più involuta a causa della caduta ontologica e cosmica, la quale porta verso ciò che è inferiore, verso il corpo, verso la materia considerata prigione, negazione, oscurità, e non creazione e dono. Il “diabolos” nella gnosi spuria è nient’altro che il Dio biblico, ora squalificato come “cattivo demiurgo” responsabile della caduta del e nel mondo, ossia dell’avvio del processo di involuzione e di caduta. Questa inversione del Dio creatore in diabolos e dell’Angelo ribelle in Dio rende palese che l’interpretazione gnostica degli eventi primordiali deriva da una radice impura, quella di «colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio … fino a sedere nel Tempio di Dio, additando se stesso come Dio» (2Ts. 2,4).

Nello schema gnostico, pertanto, il simbolismo delle “spire” del serpente rappresenta il mono-dualismo, l’Uno che si scinde originando dal suo interno – dall’“interno” di Dio come fossero entrambi in Lui contenuti quali polarità complementari – il Bene ed il Male, sicché la spirale ofidica da una parte condurrebbe l’essere verso i Cieli e gli stati superiori e dall’altra lo risucchierebbe vorticosamente verso gli stati inferiori e progressivamente infernali della realtà, i quali pertanto devono essere considerati una manifestazione-emanazione della Unitaria Sostanza Divina o detto in altri termini una creazione di Dio. Per la gnosi spuria Dio crea, “emana”, tanto il Bene che il Male perché essi altro non sarebbero che sue manifestazioni ontologicamente eguali ma contrarie e complementari.

La narrazione del Genesi viene così manipolata in modo da interpretare il serpente biblico in una doppia prospettiva, l’una benefica e l’altra malefica. E’ possibile seguire le spire verso il basso perdendo di vista la realtà superiore, cadendo nella materia intesa come prigione dello spirito, sprofondamento di conseguenza nel vortice inarrestabile che porta alla dissoluzione e alla morte, oppure è possibile seguire le spire ofidiche per “risalire” verso gli stati superiori dell’essere.

La tradizione (o anti-tradizione) gnostica fonda tale esegesi sul significato duale del simbolo del serpente. Ma anche qui si assiste ad una distorsione esegetica della Rivelazione.

Viene spiegata l’ambivalenza del simbolo del serpente, che dunque avrebbe anche un aspetto non malefico, ricorrendo, in ambito abramico, al Libro dei Numeri, 21, ovvero alla narrazione del “serpente di bronzo” che Mosé fece issare in alto su un palo nel campo degli israeliti nel deserto. Il racconto biblico narra che gli ebrei erano sovente vittime dei morsi letali dei serpenti che pullulavano nel deserto. Il Patriarca che li guidava durante l’esodo, su ispirazione divina, fece issare in mezzo al campo, su un palo, l’effige di bronzo di un serpente ingiungendo, sulla base della Promessa di Dio ricevuta in segreto, che se l’israelita morso da un serpente avesse volto lo sguardo verso quell’effige si sarebbe salvato da morte sicura. E così avvenne.

Gesù Cristo si è identificato con il simbolo del serpente. In Giovanni 3,14-15, infatti, Egli afferma: «E, come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna».

Dunque, il “serpente” è simbolo del Bene?

L’esegesi gnostica gioca su questa identificazione di Cristo con il serpente “salvatore” issato in alto nel deserto, e insinua dunque una accezione positiva anche del serpente ouroborico per accreditare il “doppio contrario” gnostico ovvero il dualismo Bene-Male quale polarità scissa dell’Unità originaria di Dio.

Ma, in realtà, l’interpretazione tradizionale, fondata sulla Rivelazione, ci dice ben altro.

Nel deserto gli israeliti erano vittime realmente, ossia storicamente, di serpenti letali. Questi, dunque, assurgono, sul piano simbolico, a metafore dei peccati mortali, quali espressioni dell’unico primordiale peccato adamico. Mosé innalza una effige di serpente guardando la quale è possibile salvarsi perché, nella prefigurazione tipologica, il serpente innalzato è immagine della salvazione che viene da Cristo Crocifisso, ossia innalzato sulla Croce, che diventa possibile solo in quanto Egli, l’Innocente per definizione, la Vittima Immacolata, assume su di sé il peccato, “si fa serpente” – ed ecco qui il senso vero del simbolo il quale pertanto non ha nulla a che fare con una supposta dualità di significato, positiva da un lato e negativa dall’altro –, esattamente come san Paolo spiega in 2 Cor 5,21: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio».

«Ha preso il nostro debito, – così nel commento di Paolo VI al termine della Via Crucis di venerdì santo 12 aprile 1968 – si è addossato il nostro castigo. Gesù è la vittima del peccato umano. È l’Agnello, che espia, col suo Sangue, le nostre iniquità. Noi siamo i colpevoli della immolazione, della morte del Figlio di Dio! Questo l’effetto del peccato. (…).Gesù è morto non solo perché da noi ucciso; è morto per noi. Egli, morendo sulla Croce, ci ha salvati. Per noi Egli ha patito ed è morto. E come tante raffigurazioni della Croce nell’arte cristiana fanno sgorgare ai piedi di quell’albero di vita rivoli di limpida acqua per indicare la grazia, l’amicizia con Dio, i Sacramenti, così effettivamente dalla Croce scaturisce un torrente di misericordia e offre a noi, a tutti, l’inestimabile sorte di essere perdonati, di essere redenti. Al punto tale che, con la liturgia della Chiesa, chiameremo “beata” la crudele Passione del Signore: poiché è fonte della nostra rinascita e della nostra felicità. Non più, dunque, la croce è un patibolo di ignominia e di morte, bensì simbolo di vittoria: in hoc signo vinces. Lo vediamo qui sotto l’arco di Costantino, trionfante da quando i destini della Croce di Cristo hanno aperto alla storia della Chiesa nuovi radiosi orizzonti».

Questa verità rivelata, quella di Dio che assume su di Sé il peccato per rimediare al debito dell’uomo che, mera creatura, non potrebbe mai ripagare con le sue sole forze umane, non è presente solo in San Paolo. La si trova già nell’Antico Testamento. In Isaia, ad esempio: «Il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti» (Is 53,6). L’innocente è stato punito al posto del colpevole perché il colpevole diventasse innocente (padre Girotti, biblista).

Nella Prima Lettera di San Pietro, 2,22-24, viene spiegato che Gesù non commise alcun peccato né nelle opere né nelle parole, ma che Egli ha portato, cioè ha espiato, nella Sua Persona, nell’Unione Ipostatica della Divinità con l’Umanità, tutti i nostri peccati perché noi potessimo possedere, di nuovo, la Vita Divina

«Egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca… Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti».

Lungo i secoli e sotto la Luce Metafisica dello Spirito Santo, la Chiesa ha sempre riflettuto su questo mistero mediante i suoi più grandi santi. San Tommaso d’Aquino, ad esempio, così commentava il mistero di Cristo che si fa peccato per noi

«Cristo accettando la passione per carità e per obbedienza offrì a Dio un bene superiore a quello richiesto per compensare tutte le offese del genere umano. Primo, per la grandezza della carità con la quale volle soffrire. Secondo, per la nobiltà della sua vita, che era la vita dell’Uomo-Dio, e che egli offriva come soddisfazione. Terzo, per l’universalità delle sue sofferenze e per la grandezza dei dolori accettati, di cui sopra abbiamo parlato. Perciò la passione di Cristo non solo fu sufficiente per i peccati del genere umano, ma addirittura sovrabbondante, secondo le parole di S. Giovanni: “Egli è propiziazione per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Gv 2,2)» (Somma  Teologica, III, 48, 2).

Lui, Cristo, l’Innocente si è offerto al posto nostro per assumere su di Sè il peccato dell’umanità ed, espiandolo, ossia annientandolo nell’atto stesso con il quale lo ha assunto su di sé, guadagnarci la Vita Divina per tutta l’eternità. Questo è il vero significato della raffigurazione tipologica del “serpente innalzato” da Mosé nel deserto. Non certo quello di un presunto “lato positivo” del serpente ouroborico del Genesi.

(FINE)

Luigi Copertino