IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE ED IL SIGNIFICATO DELLA CADUTA DELL’ANGELO terza parte – di Luigi Copertino

IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE ED IL SIGNIFICATO DELLA CADUTA DELL’ANGELO

L’origine del male nella prospettiva escatologica della Rivelazione abramica

Terza parte

Cosa significa, dunque, la “caduta” dell’angelo? Il simbolismo dell’Albero  

Con la caduta dell’angelo la Rivelazione intende, principalmente, affermare l’origine e la comparsa dell’inferno quale conseguenza della chiusura della creatura all’Amore di Dio. L’inferno, pertanto, non è una creazione di Dio, né il grado più basso di un processo discendente di emanazione innescato dalla frammentazione dell’Uno originario, quasi che l’inferno fosse “contenuto” virtualmente nell’Uno, ovvero che il male sia in Dio. Gli stati infernali dell’essere corrispondono alla chiusura ontologica della creatura verso il Suo Creatore e, quindi, sono liberamente posti, liberamente realizzati, dalla creatura. Perché le creature intelligenti, angeli e uomini, ciascuna schiera secondo modalità proprie alla loro differente natura, sono “sub-con-creatrici” ossia hanno, per dono, un potere di “creare”, non però dal nulla, come Dio, ma nell’ambito della loro partecipazione ontologica al Potere Creatore di Dio (si pensi, soltanto per fare un esempio, alla capacità inventiva, conoscitiva, artistica, contemplativa, poetica dell’uomo). Tuttavia, le creature intelligenti sono anche libere di usare tale potere sub-con-creativo in modo distorto e rovesciato.

L’Inferno, per Matteo 25, 41, fu preparato per Lucifero ed i suoi angeli nel senso che fu provocato dalla loro caduta ovvero dal loro chiudersi ontologico all’Amore di Dio. Non a caso nei versetti evangelici, in questione, la preparazione dell’inferno è connessa, nello scenario escatologico del Giudizio Universale, alla chiusura verso l’amore del prossimo quale segno esteriore della chiusura all’Amore di Dio. Chiusura che, pertanto, è il male quale assenza di bene, deficit di essere, conseguenza, appunto, della superbia di Lucifero e non, manicheisticamente, l’opposto dualistico del bene ossia il risultato di una caduta/frammentazione dell’Uno nel Duale.

Le dottrine falso gnostiche connettono, generalmente, l’Albero della conoscenza del bene e del male, di cui al Genesi, alla caduta dell’Adamo primordiale, di presunta natura sottile ed incorporea, nella materia, nello spazio-tempo, ossia nella dualità di cui è intessuta l’immanenza. In tal modo, inseguendo suggestioni luciferine, tali dottrine indicano nel ritorno, iniziatico, all’Uno, che sta “niccianamente” al di là del bene e del male, il presunto segreto nascosto nella promessa del serpente ourobourico in Genesi 3, 5 quando, accusando il Creatore di non voler rivelare all’uomo la via dell’immortalità, dice alla donna «Dio sa che quando voi ne mangiaste (del frutto della conoscenza), si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male».

L’Albero della Conoscenza del bene e del male coincide, in Genesi, con l’Albero della Vita. Sono un unico Albero, sono una stessa cosa – «Il Signore Dio fece germogliare … ogni sorta di alberi graditi alla vista … tra cui l’Albero della Vita in mezzo al Giardino e l’albero della Conoscenza del bene e del male» (Gen. 2,9) – a significare che la Vita, la Vita Eterna, l’Immortalità, quella che all’uomo era stata donata e che un altro Albero, la Croce di Cristo, gli avrebbe restituito, sono connessi alla Sapienza. Ma alla Vera Sapienza, alla Vera Gnosi, che solo Dio può gratuitamente, per Grazia, donare ed avrebbe donato all’uomo adamico se avesse superato la prova della fedeltà al Suo Amore e respinto la tentazione luciferina della falsa gnosi che promette una pseudo-sapienza, una pseudo-immortalità quale autocostruzione iniziatica, auto-divinizzazione, dell’uomo, “sarete come Dio”. Ora questa Vera Conoscenza contempla, nel suo nucleo principale, il segreto della perfetta coincidenza tra Dio e bene, tra Dio che pertanto è il Sommo Bene e la bontà ontologica della Creazione, la bontà di tutto quanto Dio ha fatto partecipando del Suo Essere tutte le creature, e massimamente l’uomo, senza degradarsi in esse. Nella Conoscenza di questa Verità rivelata sta la Vita Eterna, l’Immortalità Vera, l’accesso agli stati superiori e celestiali dell’essere, questi sì creati e preparati da Dio per l’uomo.

L’Uomo adamico, che vive ancora nella purezza edenica, non prova vergogna del suo essere “nudo” ossia del suo dipendere ontologicamente dal Creatore ma, appena prova il sapore del frutto della conoscenza della falsa gnosi, della conoscenza intesa secondo le dottrine gnostiche di matrice luciferina come Bene e Male, ovvero dualismo che viene supposto insito nella stessa sostanza divina la quale emanerebbe l’esistente avvitandosi nelle spire ofidiche di un processo di caduta materializzante, l’uomo scopre la sua “nudità” vergognandosene. In altri termini, l’uomo disconoscendo, secondo la falsa gnosi, la propria dipendenza da Dio si vergogna di essere nudo ovvero di essere, in realtà, ontologicamente dipendente dal Creatore e cerca in ogni modo, senza effettivamente riuscirvi, di negare questa dipendenza. Misericordioso, Dio, dopo il peccato originale, copre l’uomo e la donna con “tuniche di pelli” (Gen. 3,21) che non sono, come nelle dottrine falso gnostiche, il simbolo del corpo materiale, nel quale la caduta ontologica avrebbe imprigionato l’essere umano in precedenza solo “sottile”, ma sono simbolo della cecità spirituale, alla quale l’uomo si è auto-condannato, momentaneamente per lui inevitabile dovendo, per propria colpa ossia libera scelta, sopportarla fino a quando Dio stesso – progressivamente di nuovo rivelandoglisi, lungo i secoli ed i millenni della sua vita errabonda sulla terra, diventata ora, per colpa umana, “arida” da fertile che era in origine – provvederà a togliere, restituendogli la vista ossia la Vera Conoscenza, con il Sacrificio d’Amore della Croce. Infatti, i miracoli evangelici, assolutamente reali e storici, di Cristo di restituzione della vista ai ciechi sono anche il segno della restituzione della vista spirituale, della Vera Conoscenza.

La Conoscenza è sempre Dono di Dio, Grazia, Gratuità. Si ottiene pregando ed aprendo il cuore verso l’Altissimo – «Ebbene, Io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto» (Lc. 11,9) – e l’uomo non può pretendere di possederla quale diritto o quale atto di prometeismo, non può pretendere di auto-costruirsela inseguendo fallaci dottrine per le quali egli sarebbe già “dio”, panteisticamente tutt’uno con la sostanza divina che permea il mondo illusorio della “maya”, dell’apparenza fenomenica, che essendosi frapposta tra lui e quella sostanza lo avrebbe reso ignorante, “avidyā”, circa la sua connaturata divinità, circa il suo essere “dio”, uno con l’Uno senza forme.

L’uomo, a causa del tentativo adamico di ergersi, mediante la via falso gnostica, a “dio di sé stesso”, si è proclamato  giudice assoluto di ciò che è bene e di ciò che è male – diventa bene ciò che soggettivamente piace  anche se oggettivamente è male – ed in tal senso egli è diventato effettivamente “come Dio” ma rovesciando la prospettiva in un atto di chiusura auto-referenziale, di auto-centrismo, che non porta alla Vita, all’Immortalità, ma alla morte, Una chiusura ontologica per la quale egli non può più pretendere l’accesso all’Albero della Vita perché la strada gli è ora sbarrata dalla presenza di angeli armati di spade e tale sarebbe restata fino a quando il Misericordioso Redentore, attuando il Disegno ab aeterno dell’Incarnazione, non l’avrebbe riaperta, gratuitamente ossia per Grazia, pagandone il pedaggio con il Suo Sangue sulla Croce

Rivelando la Sua Essenza Trinitaria «Il Signore Dio disse allora: “Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’Albero della Vita, ne mangi e viva per sempre!”. Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’Albero della Vita» (Gen. 3,22-24).

Inferno, Canto XXXIV

Isaia (14, 12-15) parla, come si è detto, della caduta di Lucifero, a seguito della sua ribellione dovuta alla superbia e all’orgoglio di divenire simile a Dio. Nel Nuovo Testamento, il diavolo è ricordato da Matteo (25, 41), da Luca (10, 18) e nel libro dell’Apocalisse (12, 7-12). Nella tradizione teologica medievale, San Bernardo individua il peccato di Lucifero nella superbia (Sermones de temp. In Ad. Dom. I 2, Patrol. Lat. CLXXXIII 36) e ne rappresenta con sintetica efficacia la caduta (in Serm. Cant. LXIX, Patrol. Lat. CLXXXIII 1113) fino all’accorata deplorazione dello stato di miseria in cui il peccato l’ha precipitato (De Gradibus humilitatis et superbiae II, Patrol. Lat. CLXXXII 961). Pietro Lombardo, ispirandosi ad Isaia, indica anche lui  nella superbia e nel desiderio di uguagliarsi a Dio il peccato di Lucifero (Sent. II VI 1) soffermandosi a considerarne la dimensione esistenziale dopo la tentazione (VI 6). San Bonaventura mette in rilievo il primato di Lucifero tra gli angeli nonché la natura e le conseguenze irrimediabili del suo peccato (Brev. II 7). San Tommaso d’Aquino sviluppa il tema della creazione e della caduta di Lucifero nell’angelologia in Summa Theologiae I 63, trattando della pena conseguita dall’intelligenza demoniaca a confronto della posizione di eccellenza che fu di Lucifero (I 63-64).

Nei versi 88-126 del 34simo Canto dell’Inferno, Dante riprende la dottrina rivelata del peccato di Lucifero e della sua caduta, nonché la tradizione teologica che l’aveva commentata. In detti versi Virgilio spiega la caduta di Lucifero e l’origine dell’Inferno, illustrando come il demone precipitò giù dal cielo e come la terra si ritrasse per paura del contatto col mostro. Una caduta che ha fatto dell’angelo bellissimo, divenuto ribelle, l’essenza stessa dello stato di abiezione del peccato che chiaramente è la privazione e la negazione della Grazia divina (XXVII 26-27 «onde ‘l perverso / che cadde di qua sù, là giù si placa»).

Ne La Commedia l’annotazione alla repentina caduta di Lucifero (“per non aspettar lume cadde acerbo”) è un chiaro riferimento alla dottrina rivelata sul peccato degli angeli. Dante si richiama esplicitamente alla verità per la quale agli angeli fu assegnato un periodo di prova, uno status viae prima di ottenere la beatitudine eterna e prima di conseguire la grazia illuminante, come dono gratuito per meritare la beatitudine. Viene, però, messo in evidenza l’aspetto, del resto insito sia nella superbia che nel rifiuto del progetto kenotico di Dio per l’Incarnazione, dell’impazienza. Lucifero, dice Virgilio, non volle attenersi al periodo di prova e si ribellò per impazienza. «intempestive, ante totalem perfectionem sui», come qualcuno ha commentato.

Quel che, tuttavia, deve essere sottolineato è che Dante, aderendo alla Rivelazione, guarda alla catastrofe prodotta da Lucifero come ad un totale capovolgimento ontologico che in lui si determina con la distruzione dell’amore. Un capovolgimento che è anche sconvolgimento dell’ordine cosmico. Precipitando dal Cielo, Lucifero si è creato – ha creato lui stesso, si è autocreato – nel fondo della terra il luogo dell’eterna dannazione, dando luogo a un cataclisma cosmico che ha turbato per un momento l’ordine universale. L’inferno, dunque, non è stato creato da Dio, non è il risultato dello sdoppiamento dell’Uno nella polarità dualista del Bene e del Male, intesi come parimenti esistenti dialettici complementari, come vuole la falsa gnosi, appunto luciferina. Con l’orrore cosmico che spinge istintivamente la terra a ritrarsi per evitare il contatto con l’angelo caduto, il male compare nella scena, in precedenza “immacolata”, del cosmo, “nasce” in un certo senso di fronte a Dio come a sfidarlo, e si cala nella realtà temporale della storia umana con tutte le sue conseguenze di dolore, sofferenza e morte.

Dante mostra di ben conoscere la Rivelazione perché fa chiaro riferimento anche allo stato originario di eccellenza di Lucifero, quale angelo in condizioni di primato sugli altri, e quindi alla sua mirabile perfezione –  XXXIV 18 «la creatura ch’ebbe il bel sembiante» – e rievoca la caduta nell’imprudente e intempestivo peccato di superbia (Pd XXIX 49-51). In Purgatorio XII 25-27 –   «Vedea colui che fu nobil creato / più ch’altra creatura, giù dal cielo / folgoreggiando scender» – Lucifero è assunto come primo e tipico esempio di superbia. Il contrasto, palesemente rilevato da Dante, tra la bellezza originaria e la conseguenza mortificante della colpa di Lucifero viene sottolineato a ricordare che il peccato abbrutisce anche l’uomo. Che tuttavia la colpa di Lucifero non sia soltanto la superbia ma che dietro di essa si cela qualcosa di ancora più tragico è sussurrato da Dante nel suggerire che la radice ultima e più autentica della colpa degli angeli ribelli sia da individuarsi nella negligenza della luce rivelatrice e penetrante della Grazia, ossia nella ribellione dell’intelligenza angelica all’intelligenza somma e infinita di Dio (Pd XIX 46-48 «E ciò fa certo che ‘l primo superbo, / che fu la somma d’ogne creatura, / per non aspettar lume, cadde acerbo»; Pd XXIX 55-57 «Principio del cader fu il maladetto / superbir di colui che tu vedesti / da tutti i pesi del mondo costretto»). E qui si intravede la causa della ribellione nel rifiuto dell’Incarnazione del Verbo.

L’invidia di Lucifero per l’amore di Dio verso l’uomo e la superbia di chi ritenendosi superiore non vuol aderire all’Umiltà mostrata dal Creatore nell’assumere la natura della creatura, in Dante, conformemente alla Rivelazione, è ribadita, quale abissale distanza tra la gloria paradisiaca e il fondo della dannazione infernale, laddove come nel Canto IX, versi 127-129, viene affermato «La tua città, che di colui è pianta / che pria volse le spalle al suo fattore / e di cui è la ‘nvidia tanto pianta». Il male, quale conseguenza, appunto, della superbia di Lucifero, è entrato nel mondo e a lui, a Satana, si deve anche la cupidigia scatenata in mezzo al consorzio umano per l’invidia luciferina della sorte beata di eterna felicità assegnata da Dio agli uomini.

Dante non si limita a riportare la dottrina del peccato degli angeli ma anche il suo corollario ossia il tentativo di Lucifero di eguagliarsi a Dio contestandogli la sovranità a causa dell’intenzione mostrata di umiliarsi nell’Incarnazione. E’ il tema di Satana quale “simius Dei”, scimmia di Dio. Per questo la rappresentazione dantesca di Lucifero è anche quella di chi si contrappone a Dio e che, per tale contrapposizione, si auto-colloca, per sua libera scelta e non per la presunta necessità di un dinamismo emanativo di contrapposte polarità in seno all’Uno, alla massima distanza dall’Eterno Creatore, dal Sommo Bene rispetto al quale il male è solo una assenza di essere o meglio una tendenza alla negazione dell’essere, un deficit ontologico. Non un ente a sé stante ed autonomamente consistente.

La ribellione congiunta all’imitazione è significata da Dante nei termini di un’equazione morale evidenziando la bruttezza dell’angelo, che fu bellissimo, quale conseguenza etica del peccato. La trasformazione dell’antica bellezza nella bruttura presente, ed eterna, di Lucifero viene spiegata come l’effetto del terribile vuoto spirituale provocato dalla sciagurata scelta luciferina del “non serviam” che a sua volta è la causa del male: «S’el fu sì bel com’elli è ora brutto, / e contra ‘l suo fattore alzò le ciglia, / ben dee da lui procedere ogne lutto» (XXXIV 34-36).

La realtà “scimmiesca” di Lucifero, nei confronti di Dio, è simboleggiata da Dante nella testa a tre facce, dai diversi colori, di Satana –  «Oh quanto parve a me gran maraviglia / quand’io vidi tre facce a la sua testa!» (XXXIV 37-38) – perché, riportata al piano trinitario, la rappresentazione indica nella faccia di color vermiglio l’imitazione/contrapposizione allo Spirito Santo, nella destra tra il bianco ed il giallo quella al Padre, e nella sinistra, nera, al Figlio. Attraverso le tre facce Dante vuol ricordare che il diavolo usa subdolamente i suoi poteri angelici, in apparenza luminosi, in antagonismo specifico alle tre virtù della Trinità: Potenza, Sapienza e Amore. In If III 5-6, infatti, queste tre virtù sono richiamate quali attributi propri di Dio, sicché le tre facce di Lucifero, che vorrebbero imitarle per contrapporvisi, nascondo soltanto impotenza, ignoranza e odio. La parodia luciferina della Divinità è, del resto, confermata dal fatto che le tre teste di Lucifero sono unite alla sommità, quasi a voler imitare l’Unità nella Trinità di Dio. La contrapposizione trinitaria tra il mostro dalle tre facce e una sola testa e la Divinità, fa di Lucifero la “scimmia di Dio” e colui che si oppone a Dio, che è pertanto “anti-Dio”.

Dante non dimentica che il peccato non è solo un fatto riguardante gli angeli ribelli e, ad ammonizione del genere umano, ricorda che come Lucifero ha tradito Dio suo Creatore, del quale era la creatura più bella, così anche l’uomo peccatore è un traditore della Grazia, un negatore della Luce, dell’intelligenza e della Conoscenza, quella Vera – la Vera Gnosi – in quanto violatore di quella Legge d’Amore che sollecita la conoscenza di Dio. L’uomo che si abbandona al peccato, rammenta Dante, sarà bruciato dagli stessi sentimenti di odio nutriti da Lucifero, sarà travolto nella nullità della bruttezza morale e quindi sarà condannato alla morte eterna negli stati infernali dell’essere che lui stesso, l’uomo, si è da sé creato liberamente scegliendo il male ossia la chiusura ontologica al Sommo Bene che invece gli aveva preparato “un posto nella Casa del Padre”.

Nella dinamica del peccato dell’angelo caduto, la storia spirituale di Lucifero svela l’elezione della creatura, chiamata al bene, che, per sua volontà perversa, si precipita da sé nell’abisso del male che essa stessa crea. Sulla scia di Lucifero, realmente simboleggiato nel serpente ourobourico che indusse Adamo ed Eva al peccato originale (Pg VIII 98 ss.; XXXIII 32), la creatura umana, ove ceda alla tentazione del male, può giungere alla perenne ed eterna depravazione e miseria, dimentica dell’Amore Divino che la chiama e l’attrae a Sé.

(CONTINUA)

Luigi Copertino