MORTE DELL’ONORE

di Roberto PECCHIOLI

 

Considerazioni inattuali. Nel calderone dei fulminei mutamenti di massa dell’epoca nostra, che rendono irriconoscibile la società, tramontano idee, modi di vivere, valori. Una delle vittime della modernità trionfante è l’onore. “La mia anima a Dio, la mia vita al re, il mio cuore alla dama, e l’onore per me”, fu per secoli il motto della Cavalleria. Oggi l’anima è ignorata persino dalla chiesa, non ci sono più dame, ma partner occasionali con cui sfogare gli impulsi senza progetto comune e continuità di rapporto; nessuna appartenenza, bandiera o fedeltà personale giustifica il rischio della vita, e, quanto all’onore, poche sono le parole più inconsuete e fuori moda.

E’ difficile anche attribuire un significato a quel bene immateriale, quel concetto impalpabile che si definiva onore. Restano brandelli fuori tema, come le onoranze funebri, o, nello sport, la richiesta esigente dei tifosi, ultimi, estemporanei custodi di scampoli di onore: “onorare la maglia”. L’onore parla di appartenenza e di fedeltà in un mondo che ha abbandonato tutto ciò che è, permanente, duraturo.  E’ -era – un valore solido in un mondo liquido che tende alla dissolvenza gassosa.  Non ci soddisfa del tutto la definizione dell’enciclopedia Treccani, secondo la quale, “l’onore è la dignità personale che si riflette nella considerazione altrui, con un significato che coincide con quello di reputazione e, in senso più positivo, il valore morale, il merito di una persona, non considerato in sé ma in quanto conferisce alla persona stessa il diritto alla stima e al rispetto altrui.“ L’onore è di più: è un sentimento personale e insieme comunitario, è il rispetto e l’orgoglio di sé coincidente con i più elevati principi della comunità di appartenenza, evoca la vocazione verticale di chi guarda in alto ed attribuisce preminenza alla dimensione morale, tanto da imporre, in determinate situazioni, l’obbligo del sacrificio.

E’ impopolare in quanto assegna il primato alla dimensione dei doveri anziché a quella dei diritti, tanto più facile e comoda, inaugurata dalla rivoluzione francese borghese, mercantile ed irreligiosa. Il primo segno esteriore di onore era rispettare la parola data, “onorare “i propri impegni. In ogni comunità tradizionale, una stretta di mano valeva più di un contratto scritto e chi si sottraeva agli obblighi presi veniva, di fatto, espulso. Di lui non ci si poteva fidare, si era disonorato.

Per Francisco Quevedo, “colui che perde la reputazione per gli affari, perde affari e reputazione.” Oggi chi contravviene alle promesse, è spesso considerato un “dritto”, uno che ha saputo tutelare il proprio interesse. Al contrario, l’uomo e la donna d’onore ispiravano fiducia, di loro si sapeva esattamente come si sarebbero comportati in ogni circostanza. La fiducia reciproca è in ribasso, i meno giovani la associano alla vecchia réclame di una marca di formaggi che “vuol dire fiducia”.  Secondo un grande romanziere francese, Alfred De Vigny, l’onore è il pudore virile, ovvero il principio che trattiene anche gli uomini più potenti o orgogliosi dal compiere gesti, praticare condotte non conformi a retta morale.

Si tratta, innanzitutto, di un valore comunitario: l’onore non è individualista, io mi sento uomo d’onore in quanto quella virtù sottile ma insieme profonda è riconosciuta dalla comunità cui appartengo, dalle persone che stimo per il giudizio sul mio passato, la fedeltà che ho dimostrato, la dirittura che ho professato. Pochi autori contemporanei hanno trattato il tema dell’onore: pure questo è un sintomo del suo tramonto. Ricordiamo un brano di Marcello Veneziani e alcune pagine del pensatore e sociologo canadese comunitarista Charles Taylor nel Disagio della Modernità.

Taylor ritiene, a nostro avviso erroneamente, che la base del principio d’onore fossero le gerarchie sociali del passato. In ciò, coincide con il pensiero dell’illuminista Montesquieu, che scrisse nello Spirito delle Leggi “il principio dell’onore è di domandare delle preferenze e delle distinzioni”. Non è così, se non nel senso decadente di un’aristocrazia esangue ridotta al più ridicolo formalismo. Certo, l’onore è legato alle diseguaglianze. Gli uomini non sono uguali, alcuni si distinguono per una vocazione più elevata, che significa fedeltà ai principi e alle persone, senso del dovere (la nobiltà dell’animo, ben più di quella del sangue, obbliga), rispetto di certe forme di comportamento, la capacità di fare in ogni occasione ciò che va fatto. E’ nobile e degna d’onore la madre che alleva ed educa i figli, il soldato romano che restò al suo posto, fedele alla consegna, durante il terremoto di Pompei, non meno che l’eroe autore di imprese eccezionali.

A fronte di questa nozione di onore, abbiamo la moderna categoria della dignità, impiegata in un’accezione universalistica e egualitaria, che parla di dignità intrinseca degli esseri umani o di dignità del cittadino. Tale concetto sembra l’unico compatibile con una società democratica, con l’inevitabile marginalizzazione dell’onore.  In esso diventa essenziale l’uguaglianza delle forme di riconoscimento, che ha assunto nel tempo aspetti diversi e si manifesta ora nelle prepotenti richieste di riconoscimento di status per i generi, le culture e le scelte di un numero potenzialmente infinito di minoranze “uguali”. La differenza rispetto all’onore è grande: il riconoscimento di dignità è un giusto punto di partenza comune, da sempre è un cardine del cristianesimo, ma resta un principio orizzontale, che non richiede altro se non l’appartenenza alla specie umana. L’onore è un traguardo, una sfida continua, il punto d’arrivo di un percorso di distinzione e affinamento della personalità. E’ orgoglio personale, sguardo rivolto verso l’alto, ansia di miglioramento, appartenenza, fedeltà, riferimento a modelli ideali, esercizio di volontà.

In un tempo individualista, l’onore perde significato, diventando incomprensibile, un fardello inutile dal quale liberarsi con sollievo. La sostituzione è avvenuta attraverso il concetto di immagine. Oggi, se qualcuno esprime un giudizio negativo su di me, lede la mia immagine, ovvero l’idea di me che io desidero trasmettere agli altri. L’immagine è superficiale, attiene all’esterno, a ciò che io stesso voglio far trapelare, più ancora a ciò che intendo celare, è una fotografia ritoccata al photoshop della mia persona, non della mia personalità o della mia verità. Eppure, oggi teniamo all’immagine almeno quanto le generazioni precedenti tenevano all’onore.

Poiché la tendenza del tempo è all’esteriorità, alla finzione, l’immagine, che conserva ancora un minimo di sembianza etica, scade rapidamente nel “look”, ovvero nell’apparenza esteriore costruita attraverso l’abbigliamento, l’acconciatura, il linguaggio del corpo, adesso anche i tatuaggi. La corsa verso il basso procede inarrestabile, con il pretesto dell’autorealizzazione, della libertà di scelta, della moda. E’ la sottocultura del narcisismo, enfatizzazione massima dell’apparenza, trasferita nella sfera soggettiva: l’obiettivo del narcisista è modesto, piacere a se stesso, gli altri sono esclusi.

Nessuna relazione con la serena compostezza dell’onore, che è un sentimento aristocratico nella misura in cui tende ad elevare chi lo persegue. Nulla di più estraneo, ahimè, alla ragione strumentale prevalente, unico orizzonte ammesso, gelida, estranea alla morale ed all’etica, tutt’ al più interessata, per convenienza, ad osservare fredde norme deontologiche, ovvero i comportamenti prescritti nella pratica professionale. Etichetta senza un vero galateo.

L’onore, infine, appartiene al regno dei fini, a differenza dell’immagine e del “look”, mezzi per rafforzare la parvenza di sé, piatti, privi di profondità. Onore, come onere, deriva dalla radice latina onus, peso, gravame, a dimostrane la natura essenzialmente morale, legata al dovere da assolvere, alla virtù da perseguire, agli  obblighi liberamente assunti. Il suo contrario, il disonore, è il tradimento degli scopi, dei principi, delle persone, dell’etica comunitaria. L’onore, insomma, a differenza dei suoi surrogati postmoderni, si ottiene, si mantiene e si perde di fronte a tutti. E’ personale, ma anche pubblico. Per questo tramonta in una civilizzazione tanto individualista, in cui non si riconosce più alcun legame.

La tanto amata libertà contemporanea vanta la liberazione, l’emancipazione da ogni vincolo. Nessuna fedeltà, nessun dovere, nessun principio condiviso: solo l’Io padrone di se stesso, mutevole, sciolto da appartenenze e da principi di lungo periodo. L’immagine e il look, come il narcisismo, sono liquidi, tipici di società atomizzate, l’onore è solido. A lungo termine, nessun uomo, nessuna civiltà, può sopravvivere privata di un proprio senso dell’onore. Senza, ha ragione Hobbes: homo homini lupus, l’uomo torna una belva nemica di tutti, in balia dell’istinto, prigioniera della legge del più forte, preda o predatrice.

Ritornerà, prima o poi, questo antico sentimento che eleva, limita, obbliga e produce rispetto, considerazione, identità. L’onore è insieme dovere e diritto: troppo per questa modernità invecchiata e ansimante, egoista e senz’anima. Meglio, molto meglio, l’antico decalogo del Cavaliere, vangelo senza tempo dell’onore.  “Crederai quanto insegna la Chiesa e osserverai i suoi comandamenti. Proteggerai la Chiesa. Rispetterai e difenderai i deboli. Amerai il paese dove sei nato. Non indietreggerai innanzi al nemico. Farai guerra senza tregua agli infedeli. Adempirai fedelmente i tuoi doveri se non sono contrari alla legge di Dio. Non mentirai e non mancherai alla parola data. Sarai generoso e liberale con tutti. Dovunque e sempre sarai campione del diritto e del bene contro l’ingiustizia e il male.”