di Roberto PECCHIOLI
Il diavolo si nasconde nei dettagli. In piena emergenza virale, in mezzo al tracollo economico e alla nascita del governo delle meraviglie, è sfuggita ai più l’ordinanza n. 18 della Corte Costituzionale, che, in risposta a un quesito sollevato dal tribunale di Bolzano, ha ritenuto che non sia più adeguata ai tempi la norma secondo cui ai figli riconosciuti da entrambi i genitori è imposto il cognome del padre. Per la Consulta, ciò perpetuerebbe “una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”.
In termini giuridici, l’oggetto del contendere è la validità dell’articolo 262 del codice civile, nel caso di mancato accordo sull’attribuzione del cognome tra i genitori 1 e 2, nell’evo antico padre e madre. Nelle motivazioni della sentenza, i custodi (di quel che resta) della costituzione italiana affermano che l’attribuzione ai figli del cognome paterno è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia”. Sappiamo poco di diritto, ma ci sembra che non si tratti di concezione patriarcale, ma piuttosto patrilineare. La distinzione non è di poco conto, a livello di antropologia sociale e culturale. Non ci azzardiamo a esprimere valutazioni sulle modalità giuridiche di salvaguardia dell’unità familiare espresse dai giudici, i quali avvertono che essa è garantita solo dall’eguaglianza dei genitori. Nei casi di assenza di accordo, non può valere "la prevalenza del cognome paterno, la cui incompatibilità con il valore fondamentale dell’uguaglianza [è] da tempo riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte.” La Consulta invoca un sollecito intervento del legislatore, in armonia con il disposto degli articoli 2, 3 e 117 della Costituzione.
La nostra convinzione è che il principio dell’attribuzione ai figli del cognome paterno
salterà presto: la cultura dominante della cancellazione non ammette deroghe e la
distruzione della trasmissione patrilineare (o eteropatriarcale, come preferiscono dire
femministe e progressisti) – del cognome dei figli – un sinonimo tramontato era
“patronimico” – è uno degli obiettivi più importanti. In realtà l’articolo 262, nella sua
formulazione vigente, ha già affievolito il principio di trasmissione per linea paterna
introducendo la regola dell’accordo tra i genitori, ma la forza delle tradizioni fa sì che i
nuovi nati portino quasi sempre, se riconosciuti dal padre, il suo cognome.
Non ci impanchiamo in disquisizioni giuridiche, ma non possiamo tacere alcune
implicazioni di quanto inevitabilmente accadrà. Di passaggio, affermiamo che uno Stato
non può disinteressarsi di questioni dirimenti come la trasmissione del cognome dei suoi
cittadini per i motivi che esporremo, lasciando che esso sia regolato dall’accordo tra le
parti. E’ la concezione liberale della vita, contrattuale, indifferente a qualunque principio
etico, spirituale o civile che ecceda l’interesse individuale e quello economico.
Come spiega efficacemente Alain De Benost, esiste “un ’ideologia implicita che risulta dalla
presenza di valori ammessi e considerati di per sé evidenti dalla maggioranza degli
associati. Questo apparato civile ingloba la cultura, le idee, i costumi, le tradizioni, il
cosiddetto buon senso.” Il potere trasforma le idee generali nello spirito dei tempi
attraverso la cultura, “luogo del controllo e della specificazione dei valori e delle idee.” Non
vi è alcun dubbio che l’idea-guida dell’Occidente terminale sia l’uguaglianza, declinata in
termini di equivalenza, indifferenziazione e rifiuto di ogni diversa gerarchia di principi.
Se questo è vero, poco potrà qualsiasi considerazione culturale, antropologica e giuridica
che contraddica il principio guida, divenuto unico e inderogabile. Nel caso specifico,
l’uguaglianza dei sessi è intesa sempre più come aggressiva spoliazione delle prerogative e
dell’universo mentale e metaculturale dell’esemplare maschio della specie umana.
Descritto come violento, stupratore seriale, dittatore millenario, l’uomo è decostruito in
tutte le sue identità ed espropriato di quella alla quale più teneva, la funzione di
paterfamilias. L’abolizione del padre è una delle caratteristiche più drammatiche della
società terminale nella quale siamo immersi.
Il padre era la legge, la guida, il modello, la protezione e l’anello principale della catena di
trasmissione della comunità. Distruggere la sua figura, destituire la sua autorità, è stato
l’esercizio più riuscito della rivoluzione culturale dell’ultimo mezzo secolo. L’ultimo passo è
negare ai figli il cognome del padre, una sconfitta antropologica che provocherà nuova
deresponsabilizzazione dell’uomo. Citiamo ancora De Benoist: “l'uomo nasce come erede,
di un popolo, di una stirpe, di una cultura. La sua identità personale è indissociabile dalla
sua identità collettiva, ed è precisamente questa parte fondamentale della sua identità che
lo ricollega a coloro con cui condivide qualcosa, ma ugualmente a coloro che l'hanno
preceduto e a tutti coloro che lo seguiranno, che è implicitamente negata da tutte le
dottrine universaliste, e segnatamente dall’ideologia dei diritti dell'uomo, la cui
caratteristica essenziale è di ragionare partendo da una concezione astratta dell'individuo,
senza mai tenere conto delle sue appartenenze naturali e concrete.”
Il cognome che porto mi connette a mio padre e a coloro che l’hanno preceduto, mi situa
all’interno di una storia, è un elemento inderogabile della mia identità. Lo sapevano le
civiltà religiose, per le quali attribuire il nome era prerogativa divina che attribuiva alle
cose un alito di vita e un significato trascendente. Fino a poco tempo, era un orgoglio
trasmettere qualcosa di sé oltre i beni materiali. I principi comunitari, i nomi di battesimo
(ci si può ancora esprimere così?) si ripetevano tra le generazioni delle famiglie, e
soprattutto importava il cognome, segno di continuità della propria gente, l’arco che si
tendeva verso l’infinito.
Ma chi rinuncia all’eredità, abbandona anche il lascito nei confronti delle generazioni
successive, delle quali all’uomo occidentale contemporaneo non importa nulla. Che cosa
hanno fatto per me i posteri, si chiedeva un umorista della finezza di Groucho Marx?
Tagliati i fili culturali, sentimentali e simbolici, non resta che l’esistenza biologica, il
transito casuale nella vita. Il cognome, per l’uomo di oggi, richiama il passato, quindi non
interessa, se non come banale strumento di identificazione, che può essere sostituito da un
codice a barre, dal QR, da un numero di serie, o cambiato perché ininfluente, privo di
valore. Ecco quel che vogliono essere l’uomo e la donna di oggi, prodotti seriali che
ciascuno provvederà a individualizzare a suo insindacabile giudizio.
Di qui l’enorme successo di pratiche di soggettivazione – imposte dalla moda- come i
tatuaggi e il desiderio intenso di creare se stessi, a partire dal nome. Ne sono prova il
successo dei nickname delle reti sociali, ma anche la sempre più comune volontà di
scegliere il proprio nome, considerato un’imposizione di chi è venuto prima di noi e ci ha
messi al mondo. Il cognome – che è aspetto ben più importante – non poteva sfuggire
all’attacco convergente dell’universalizzazione dell’uguaglianza e dell’individualismo
assoluto.
Ci è capitato di discutere con persone in buona fede – questo è il dato più sconcertante –
che non intendevano battezzare i figli non per ateismo, ma, a loro dire, per permettere loro
una scelta consapevole da adulti. Recidevano cioè consapevolmente una radice, quella
dell’identità spirituale. Nel caso dei cognomi finirà allo stesso modo. La scelta iniziale
spetterà ai genitori 1 e 2, eventualmente anche 3 e 4: tutto è possibile nella procreazione
zootecnica e per l’abolizione programmatica delle figure paterna e materna. Poi, in nome
dell’uguaglianza e della libera scelta potrà essere modificata dalla volontà personale. E’ una
conseguenza logica dell’uguaglianza-equivalenza e del soggettivismo come uniche bussole
esistenziali. Il primo cambiamento starà nella volontà dei genitori: quel cognome è brutto,
quell’altro è “migliore”, magari perché richiama un personaggio influente o famoso. Alla
maggiore età, decideremo se mantenere o cambiare nome e cognome, esattamente come ci
sarà permesso indicare il nostro “genere”, in base non alla biologia, ma al sentimento
soggettivo e cangiante.
La volontà inflessibile del mondo liquido è tagliare ogni sorgente di trasmissione e
continuità, di cui il cognome è un elemento centrale. Basteranno tre generazioni perché
nello stesso ramo familiare ci siano tre cognomi diversi. Per questo, lungi dal credere nel
valore dell’accordo privato tra i genitori, preferiamo senz’altro che vinca la
femminilizzazione della società occidentale e prescriva la trasmissione matrilineare del
cognome. Pur nel rovesciamento di millenni di storia, salveremmo la continuità e la
comunità, di cui il nome di famiglia trasmesso alle generazioni è un elemento identificativo
assai potente.
Pazienza se i poemi omerici, testi fondanti della nostra civiltà, dovranno essere aggiornati e
Telemaco- figlio di Ulisse – non potrà più dire che il suo massimo desiderio è il ritorno del
padre. Meglio la tela di Penelope dei Proci di ogni tempo. Anche Ettore, il padre per
antonomasia, il guerriero protettore del suo popolo che abbraccia la moglie Andromaca
prima del combattimento fatale e leva il figlioletto sopra la sua testa chiedendo agli dei che
diventi più forte di lui, dovrà essere cancellato. Sia Andromaca il modello, ma per favore,
permanga la continuità, il passato che si fa presente e scommette sul futuro.
La nostra è una civilizzazione morente che tutto distrugge poiché a nulla dà valore.
Sappiamo bene che le presenti riflessioni risulteranno illeggibili e ridicole ai sostenitori
dello “spirito dei tempi”, per cui ci convinciamo sempre più della necessità di “cavalcare la
tigre”, ovvero di lavorare affinché la civilizzazione morente chiuda in fretta la sua penosa
parabola. Scrive Jean François Brient “il mio ottimismo si basa sulla certezza che questa
civiltà fondata sul nulla sta per crollare. Il mio pessimismo su tutto quello che fa per
trascinarci nel suo vortice”. Occorre restare in piedi tra le rovine e tenere la posizione:
sepolto – forse insepolto- l’Occidente, qualcun altro ritesserà il filo della civiltà.
A questo fine, partendo dalla questione non certo irrilevante della trasmissione del
cognome, occorre una riflessione sulla particolare idea di uguaglianza elaborata dalla
nostra civiltà. Il paradosso dell’egualitarismo contemporaneo è che si converte nel suo
contrario, l’autoriconoscimento di diversità da parte di minoranze che si considerano
differenti nel modello di sessualità, nelle capacità e caratteristiche fisiche o in altri aspetti e
per questo pretendono privilegi, ovvero il contrario dell’uguaglianza davanti alla legge,
l’isonomia greca. Per un altro verso, l’uguaglianza si trasforma in ossessione
dell’equivalenza, il divieto di giudicare, paragonare, perfino riconoscere e dare un nome a
ciò che si vediamo con i nostri occhi. L'egualitarismo contraddice qualsiasi esperienza di
vita quotidiana, eppure è diventata la passione principale, se non unica, nella fase estrema
della civiltà occidentale.
Lo capì per primo Tocqueville ne La democrazia in America. I fatti gli danno ragione da un
secolo e mezzo, il presente sta portando a compimento i processi metastorici immaginati
dal conte normanno. Per questo, non ci illudiamo che la tendenza possa essere ribaltata:
non resta che sperare nella conclusione del ciclo e nell’inizio di un altro. Per Tocqueville,
l’esito dell’uguaglianza è la tirannia della maggioranza, a cui è estirpato progressivamente
il pensiero. "Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di
esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri
di cui si pasce la loro anima. Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere
tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro
sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla
potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma,
al contrario, non cerca che di tenerli in un'infanzia perpetua. “
L’analisi si focalizza sul concetto di passione per l’uguaglianza. Tocqueville vede nell’uomo
egalitario un inestinguibile desiderio di uniformità che si trasforma nella volontà che
nessuno sia o abbia più di lui. L’uguaglianza diventa conformismo e massificazione. In più,
accanto alla passione per l’eguaglianza sussiste la “passione per il possesso”, l’egomania
dell’avere che non si soddisfa mai. Di qui la straordinaria contraddizione tra
un’uguaglianza assoluta, assunta come dogma senza tempo e senza eccezione,
accompagnata a una disuguaglianza di mezzi economici mai sperimentata prima, che non
viene percepita nella sua intollerabile ingiustizia.
Per Tocqueville, l’uguaglianza suscita nello spirito umano diverse idee che senza di essa
non sarebbero esistite, e modifica tutte quelle che già possedeva. Una è l'idea della
perfettibilità umana, base del sentimento positivo, indiscutibile del “progresso”. Della
triade nata dalla Rivoluzione Francese, messa in soffitta la fraternità, resta sul trono
l’uguaglianza, per la quale gli uomini sviluppano “una passione ardente, insaziabile, eterna,
invincibile”. Gli uomini vogliono l'uguaglianza nella libertà ma “se non possono ottenerla,
la vogliono anche nella schiavitù. Sopporteranno la povertà, l'asservimento, la barbarie, ma
non sopporteranno l'aristocrazia.” Questo è vero in tutti i tempi, ma soprattutto nel nostro.
Tutti gli uomini che vorranno lottare contro questa forza irresistibile saranno travolti e
distrutti, è la conclusione di Tocqueville.
All’uguaglianza gli uomini d’oggi sacrificano non solo la libertà- che è differenza- ma anche
la verità, negando ciò che vedono. Uomo e donna hanno pari dignità, ma non sono uguali.
Le loro differenze non sono un errore della creazione, bensì un fatto che risponde alle leggi
della biologia. Ma queste sono parole inutili: la contemporaneità occidentale ha deciso
consapevolmente di sfidare la natura e di tagliare ogni legame con la verità e la continuità.
Il nome e il cognome non possono fare eccezione alla regola dell’uguaglianza e della scelta
individuale revocabile, totem della grande cancellazione.
La trasmissione si è interrotta, il padre è il nemico, neanche la madre se la passa troppo
bene. I profeti del nulla sono riusciti a farci credere che siamo atomi senza ieri e senza
domani. Loro sanno che chiamarsi Giovanni Rossi significa “essere” Giovanni Rossi e non
un altro, e voler trasmettere qualcosa di sé. In nome dell’uguaglianza, oggi travolgono il
padre, domani distruggeranno la madre, ridotti a numeri, genitore 1 e 2. In nome
dell’uguaglianza e dell’equivalenza, nulla ha valore. Il transito verso il nulla avanza anche
sulle ali delle sentenze e delle eleganti costruzioni giuridiche. Per tutto esiste una
giustificazione ammantata di legalità e giustizia. Il cognome del padre è nemico
dell’uguaglianza; il sesso è genere; il genere è una costruzione della società eteropatriarcale
che ha imposto la maternità e via farneticando.
Doctores tiene la iglesia, dottori ha il potere per legittimare l’ingiustificabile. Nulla è
definitivo: dopo la notte tornerà il giorno. Ma noi non ci saremo, cantavano i Nomadi: “il
vento d'estate che viene dal mare intonerà un canto fra mille rovine, fra le macerie delle
città, fra case e palazzi che lento il tempo sgretolerà, fra macchine e strade risorgerà il
mondo nuovo, ma noi non ci
Nel nome del padre.
di Roberto PECCHIOLI
Il diavolo si nasconde nei dettagli. In piena emergenza virale, in mezzo al tracollo
economico e alla nascita del governo delle meraviglie, è sfuggita ai più l’ordinanza n. 18
della Corte Costituzionale, che, in risposta a un quesito sollevato dal tribunale di Bolzano,
ha ritenuto che non sia più adeguata ai tempi la norma secondo cui ai figli riconosciuti da
entrambi i genitori è imposto il cognome del padre. Per la Consulta, ciò perpetuerebbe
“una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con
il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”. In termini giuridici, l’oggetto
del contendere è la validità dell’articolo 262 del codice civile, nel caso di mancato accordo
sull’attribuzione del cognome tra i genitori 1 e 2, nell’evo antico padre e madre.
Nelle motivazioni della sentenza, i custodi (di quel che resta) della costituzione italiana
affermano che l’attribuzione ai figli del cognome paterno è retaggio di una concezione
patriarcale della famiglia”. Sappiamo poco di diritto, ma ci sembra che non si tratti di
concezione patriarcale, ma piuttosto patrilineare. La distinzione non è di poco conto, a
livello di antropologia sociale e culturale. Non ci azzardiamo a esprimere valutazioni sulle
modalità giuridiche di salvaguardia dell’unità familiare espresse dai giudici, i quali
avvertono che essa è garantita solo dall’eguaglianza dei genitori. Nei casi di assenza di
accordo, non può valere "la prevalenza del cognome paterno, la cui incompatibilità con il
valore fondamentale dell’uguaglianza [è] da tempo riconosciuta dalla giurisprudenza di
questa Corte.” La Consulta invoca un sollecito intervento del legislatore, in armonia con il
disposto degli articoli 2, 3 e 117 della Costituzione.
La nostra convinzione è che il principio dell’attribuzione ai figli del cognome paterno
salterà presto: la cultura dominante della cancellazione non ammette deroghe e la
distruzione della trasmissione patrilineare (o eteropatriarcale, come preferiscono dire
femministe e progressisti) – del cognome dei figli – un sinonimo tramontato era
“patronimico” – è uno degli obiettivi più importanti. In realtà l’articolo 262, nella sua
formulazione vigente, ha già affievolito il principio di trasmissione per linea paterna
introducendo la regola dell’accordo tra i genitori, ma la forza delle tradizioni fa sì che i
nuovi nati portino quasi sempre, se riconosciuti dal padre, il suo cognome.
Non ci impanchiamo in disquisizioni giuridiche, ma non possiamo tacere alcune
implicazioni di quanto inevitabilmente accadrà. Di passaggio, affermiamo che uno Stato
non può disinteressarsi di questioni dirimenti come la trasmissione del cognome dei suoi
cittadini per i motivi che esporremo, lasciando che esso sia regolato dall’accordo tra le
parti. E’ la concezione liberale della vita, contrattuale, indifferente a qualunque principio
etico, spirituale o civile che ecceda l’interesse individuale e quello economico.
Come spiega efficacemente Alain De Benost, esiste “un ’ideologia implicita che risulta dalla
presenza di valori ammessi e considerati di per sé evidenti dalla maggioranza degli
associati. Questo apparato civile ingloba la cultura, le idee, i costumi, le tradizioni, il
cosiddetto buon senso.” Il potere trasforma le idee generali nello spirito dei tempi
attraverso la cultura, “luogo del controllo e della specificazione dei valori e delle idee.” Non
vi è alcun dubbio che l’idea-guida dell’Occidente terminale sia l’uguaglianza, declinata in
termini di equivalenza, indifferenziazione e rifiuto di ogni diversa gerarchia di principi.
Se questo è vero, poco potrà qualsiasi considerazione culturale, antropologica e giuridica
che contraddica il principio guida, divenuto unico e inderogabile. Nel caso specifico,
l’uguaglianza dei sessi è intesa sempre più come aggressiva spoliazione delle prerogative e
dell’universo mentale e metaculturale dell’esemplare maschio della specie umana.
Descritto come violento, stupratore seriale, dittatore millenario, l’uomo è decostruito in
tutte le sue identità ed espropriato di quella alla quale più teneva, la funzione di
paterfamilias. L’abolizione del padre è una delle caratteristiche più drammatiche della
società terminale nella quale siamo immersi.
Il padre era la legge, la guida, il modello, la protezione e l’anello principale della catena di
trasmissione della comunità. Distruggere la sua figura, destituire la sua autorità, è stato
l’esercizio più riuscito della rivoluzione culturale dell’ultimo mezzo secolo. L’ultimo passo è
negare ai figli il cognome del padre, una sconfitta antropologica che provocherà nuova
deresponsabilizzazione dell’uomo. Citiamo ancora De Benoist: “l'uomo nasce come erede,
di un popolo, di una stirpe, di una cultura. La sua identità personale è indissociabile dalla
sua identità collettiva, ed è precisamente questa parte fondamentale della sua identità che
lo ricollega a coloro con cui condivide qualcosa, ma ugualmente a coloro che l'hanno
preceduto e a tutti coloro che lo seguiranno, che è implicitamente negata da tutte le
dottrine universaliste, e segnatamente dall’ideologia dei diritti dell'uomo, la cui
caratteristica essenziale è di ragionare partendo da una concezione astratta dell'individuo,
senza mai tenere conto delle sue appartenenze naturali e concrete.”
Il cognome che porto mi connette a mio padre e a coloro che l’hanno preceduto, mi situa
all’interno di una storia, è un elemento inderogabile della mia identità. Lo sapevano le
civiltà religiose, per le quali attribuire il nome era prerogativa divina che attribuiva alle
cose un alito di vita e un significato trascendente. Fino a poco tempo, era un orgoglio
trasmettere qualcosa di sé oltre i beni materiali. I principi comunitari, i nomi di battesimo
(ci si può ancora esprimere così?) si ripetevano tra le generazioni delle famiglie, e
soprattutto importava il cognome, segno di continuità della propria gente, l’arco che si
tendeva verso l’infinito.
Ma chi rinuncia all’eredità, abbandona anche il lascito nei confronti delle generazioni
successive, delle quali all’uomo occidentale contemporaneo non importa nulla. Che cosa
hanno fatto per me i posteri, si chiedeva un umorista della finezza di Groucho Marx?
Tagliati i fili culturali, sentimentali e simbolici, non resta che l’esistenza biologica, il
transito casuale nella vita. Il cognome, per l’uomo di oggi, richiama il passato, quindi non
interessa, se non come banale strumento di identificazione, che può essere sostituito da un
codice a barre, dal QR, da un numero di serie, o cambiato perché ininfluente, privo di
valore. Ecco quel che vogliono essere l’uomo e la donna di oggi, prodotti seriali che
ciascuno provvederà a individualizzare a suo insindacabile giudizio.
Di qui l’enorme successo di pratiche di soggettivazione – imposte dalla moda- come i
tatuaggi e il desiderio intenso di creare se stessi, a partire dal nome. Ne sono prova il
successo dei nickname delle reti sociali, ma anche la sempre più comune volontà di
scegliere il proprio nome, considerato un’imposizione di chi è venuto prima di noi e ci ha
messi al mondo. Il cognome – che è aspetto ben più importante – non poteva sfuggire
all’attacco convergente dell’universalizzazione dell’uguaglianza e dell’individualismo
assoluto.
Ci è capitato di discutere con persone in buona fede – questo è il dato più sconcertante –
che non intendevano battezzare i figli non per ateismo, ma, a loro dire, per permettere loro
una scelta consapevole da adulti. Recidevano cioè consapevolmente una radice, quella
dell’identità spirituale. Nel caso dei cognomi finirà allo stesso modo. La scelta iniziale
spetterà ai genitori 1 e 2, eventualmente anche 3 e 4: tutto è possibile nella procreazione
zootecnica e per l’abolizione programmatica delle figure paterna e materna. Poi, in nome
dell’uguaglianza e della libera scelta potrà essere modificata dalla volontà personale. E’ una
conseguenza logica dell’uguaglianza-equivalenza e del soggettivismo come uniche bussole
esistenziali. Il primo cambiamento starà nella volontà dei genitori: quel cognome è brutto,
quell’altro è “migliore”, magari perché richiama un personaggio influente o famoso. Alla
maggiore età, decideremo se mantenere o cambiare nome e cognome, esattamente come ci
sarà permesso indicare il nostro “genere”, in base non alla biologia, ma al sentimento
soggettivo e cangiante.
La volontà inflessibile del mondo liquido è tagliare ogni sorgente di trasmissione e
continuità, di cui il cognome è un elemento centrale. Basteranno tre generazioni perché
nello stesso ramo familiare ci siano tre cognomi diversi. Per questo, lungi dal credere nel
valore dell’accordo privato tra i genitori, preferiamo senz’altro che vinca la
femminilizzazione della società occidentale e prescriva la trasmissione matrilineare del
cognome. Pur nel rovesciamento di millenni di storia, salveremmo la continuità e la
comunità, di cui il nome di famiglia trasmesso alle generazioni è un elemento identificativo
assai potente.
Pazienza se i poemi omerici, testi fondanti della nostra civiltà, dovranno essere aggiornati e
Telemaco- figlio di Ulisse – non potrà più dire che il suo massimo desiderio è il ritorno del
padre. Meglio la tela di Penelope dei Proci di ogni tempo. Anche Ettore, il padre per
antonomasia, il guerriero protettore del suo popolo che abbraccia la moglie Andromaca
prima del combattimento fatale e leva il figlioletto sopra la sua testa chiedendo agli dei che
diventi più forte di lui, dovrà essere cancellato. Sia Andromaca il modello, ma per favore,
permanga la continuità, il passato che si fa presente e scommette sul futuro.
La nostra è una civilizzazione morente che tutto distrugge poiché a nulla dà valore.
Sappiamo bene che le presenti riflessioni risulteranno illeggibili e ridicole ai sostenitori
dello “spirito dei tempi”, per cui ci convinciamo sempre più della necessità di “cavalcare la
tigre”, ovvero di lavorare affinché la civilizzazione morente chiuda in fretta la sua penosa
parabola. Scrive Jean François Brient “il mio ottimismo si basa sulla certezza che questa
civiltà fondata sul nulla sta per crollare. Il mio pessimismo su tutto quello che fa per
trascinarci nel suo vortice”. Occorre restare in piedi tra le rovine e tenere la posizione:
sepolto – forse insepolto- l’Occidente, qualcun altro ritesserà il filo della civiltà.
A questo fine, partendo dalla questione non certo irrilevante della trasmissione del
cognome, occorre una riflessione sulla particolare idea di uguaglianza elaborata dalla
nostra civiltà. Il paradosso dell’egualitarismo contemporaneo è che si converte nel suo
contrario, l’autoriconoscimento di diversità da parte di minoranze che si considerano
differenti nel modello di sessualità, nelle capacità e caratteristiche fisiche o in altri aspetti e
per questo pretendono privilegi, ovvero il contrario dell’uguaglianza davanti alla legge,
l’isonomia greca. Per un altro verso, l’uguaglianza si trasforma in ossessione
dell’equivalenza, il divieto di giudicare, paragonare, perfino riconoscere e dare un nome a
ciò che si vediamo con i nostri occhi. L'egualitarismo contraddice qualsiasi esperienza di
vita quotidiana, eppure è diventata la passione principale, se non unica, nella fase estrema
della civiltà occidentale.
Lo capì per primo Tocqueville ne La democrazia in America. I fatti gli danno ragione da un
secolo e mezzo, il presente sta portando a compimento i processi metastorici immaginati
dal conte normanno. Per questo, non ci illudiamo che la tendenza possa essere ribaltata:
non resta che sperare nella conclusione del ciclo e nell’inizio di un altro. Per Tocqueville,
l’esito dell’uguaglianza è la tirannia della maggioranza, a cui è estirpato progressivamente
il pensiero. "Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di
esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri
di cui si pasce la loro anima. Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere
tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro
sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla
potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma,
al contrario, non cerca che di tenerli in un'infanzia perpetua. “
L’analisi si focalizza sul concetto di passione per l’uguaglianza. Tocqueville vede nell’uomo
egalitario un inestinguibile desiderio di uniformità che si trasforma nella volontà che
nessuno sia o abbia più di lui. L’uguaglianza diventa conformismo e massificazione. In più,
accanto alla passione per l’eguaglianza sussiste la “passione per il possesso”, l’egomania
dell’avere che non si soddisfa mai. Di qui la straordinaria contraddizione tra
un’uguaglianza assoluta, assunta come dogma senza tempo e senza eccezione,
accompagnata a una disuguaglianza di mezzi economici mai sperimentata prima, che non
viene percepita nella sua intollerabile ingiustizia.
Per Tocqueville, l’uguaglianza suscita nello spirito umano diverse idee che senza di essa
non sarebbero esistite, e modifica tutte quelle che già possedeva. Una è l'idea della
perfettibilità umana, base del sentimento positivo, indiscutibile del “progresso”. Della
triade nata dalla Rivoluzione Francese, messa in soffitta la fraternità, resta sul trono
l’uguaglianza, per la quale gli uomini sviluppano “una passione ardente, insaziabile, eterna,
invincibile”. Gli uomini vogliono l'uguaglianza nella libertà ma “se non possono ottenerla,
la vogliono anche nella schiavitù. Sopporteranno la povertà, l'asservimento, la barbarie, ma
non sopporteranno l'aristocrazia.” Questo è vero in tutti i tempi, ma soprattutto nel nostro.
Tutti gli uomini che vorranno lottare contro questa forza irresistibile saranno travolti e
distrutti, è la conclusione di Tocqueville.
All’uguaglianza gli uomini d’oggi sacrificano non solo la libertà- che è differenza- ma anche
la verità, negando ciò che vedono. Uomo e donna hanno pari dignità, ma non sono uguali.
Le loro differenze non sono un errore della creazione, bensì un fatto che risponde alle leggi
della biologia. Ma queste sono parole inutili: la contemporaneità occidentale ha deciso
consapevolmente di sfidare la natura e di tagliare ogni legame con la verità e la continuità.
Il nome e il cognome non possono fare eccezione alla regola dell’uguaglianza e della scelta
individuale revocabile, totem della grande cancellazione.
La trasmissione si è interrotta, il padre è il nemico, neanche la madre se la passa troppo
bene. I profeti del nulla sono riusciti a farci credere che siamo atomi senza ieri e senza
domani. Loro sanno che chiamarsi Giovanni Rossi significa “essere” Giovanni Rossi e non
un altro, e voler trasmettere qualcosa di sé. In nome dell’uguaglianza, oggi travolgono il
padre, domani distruggeranno la madre, ridotti a numeri, genitore 1 e 2. In nome
dell’uguaglianza e dell’equivalenza, nulla ha valore. Il transito verso il nulla avanza anche
sulle ali delle sentenze e delle eleganti costruzioni giuridiche. Per tutto esiste una
giustificazione ammantata di legalità e giustizia. Il cognome del padre è nemico
dell’uguaglianza; il sesso è genere; il genere è una costruzione della società eteropatriarcale
che ha imposto la maternità e via farneticando.
Doctores tiene la iglesia, dottori ha il potere per legittimare l’ingiustificabile. Nulla è
definitivo: dopo la notte tornerà il giorno. Ma noi non ci saremo, cantavano i Nomadi: “il
vento d'estate che viene dal mare intonerà un canto fra mille rovine, fra le macerie delle
città, fra case e palazzi che lento il tempo sgretolerà, fra macchine e strade risorgerà il
mondo nuovo, ma noi non ci saremo”.